Editoriale / #18

Questa settimana, insieme con l’intervista inedita a Shulim Vogelmann di Giorgio Berruto, abbiamo scelto di ripubblicare due testi legati all’Italia. A firmare l’editoriale settimanale che li introduce è Simone Disegni, già autore per K. dell’intervista a Tobia Zevi.

 

Il segno politico dell’opera di Primo Levi, l’azione culturale di Shulim Vogelmann alla guida della Giuntina, l’impegno politico – romano e non – di Tobia Zevi. Sono i tre schizzi, le tre luci che K. ha acceso in questi primi tre mesi sul mondo ebraico italiano. Nulla più che un inizio, naturalmente: un invito ad altre letture, ad altre ricerche, ad altri viaggi reali o virtuali. Ma vale la pena chiedersi se non ci sia qualche tratto distintivo che emerge da queste storie e conversazioni, giacché il tema di fondo resta sempre lo stesso: il rapporto tra identità di minoranza ebraica e società ospitante.

Non v’è alcun bisogno – né possibilità – di comparare vicende ed esperienze tra loro del tutto diverse. Ma aggirato tale ostacolo, la risposta appare in effetti subito positiva. C’è qualcosa di molto preciso che fa da sfondo – ieri – all’opera e all’insegnamento di una vita intera di Primo Levi; oggi, ai propositi culturali di un editore come Vogelmann, o di un politico emergente come Zevi. E quel qualcosa è la ricerca di un dialogo costante con la società italiana, a partire da una visione certo laica, ma solidamente impregnata del portato ebraico. Di più, c’è l’ambizione di strutturare una visione che incorpori quei valori e quell’esperienza millenaria per influire sulla società italiana, perché no farla crescere. Sono tre parabole, tra le molte che si potrebbero raccontare, che s’iscrivono in quella solida tradizione di ebrei italiani orgogliosamente – benché non di rado tormentatamente – alla ricerca di un protagonismo pubblico, sociale, politico o culturale.

È quello che Diana Pinto – in un’altra lunga intervista pubblicata da K. nelle scorse settimane – ha definito come l’identità positiva degli ebrei italiani, impegnati non soltanto per la preservazione della memoria del passato ma anche in un ventaglio di questioni d’interesse pubblico. È una splendida suggestione, che rimanda in fondo a quel lungo percorso di inserimento e rivendicazione di un ruolo pubblico cominciato con l’emancipazione dai Ghetti dal 1848, proseguito col Risorgimento e il consolidamento delle fondamenta della società e dell’economia dell’Italia unita, poi interrotto bruscamente dalle leggi razziali e della deportazione, per riprendere progressivamente nel dopoguerra e fino ai nostri giorni, nonostante la ferita mai cicatrizzata del “tradimento” del 1938-45.

Vale la pena chiedersi tuttavia se e fino a che punto quella suggestione descriva davvero la realtà odierna dell’ebraismo italiano. È questa la sua anima? L’impressione, a ben vedere, è che lo sia, ma soltanto per una parte degli ebrei italiani. Ben integrati (qualcuno, da una prospettiva ortodossa, direbbe troppo…), appassionatamente coinvolti nelle vicende politico-culturali della propria città e del Paese, desiderosi di contribuirvi attingendo al patrimonio di valori e cultura della tradizione ebraica, per lo più da una prospettiva laica. Ma non è questo che uno degli ebraismi italiani. Ce n’è almeno un altro di peso, numerico e culturale, e sarebbe poco saggio trascurarlo. È un ebraismo italiano ben più attivo sulle questioni che lo riguardano direttamente, o presunte tali, che non a quelle più ampie del “sistema-Paese”: a partire dalla difesa senza se e senza me di Israele, e più in generale di un certo orgoglio identitario ebraico. Forte soprattutto nelle due roccaforti di Roma e Milano, è anche tendenzialmente più osservante, e include buona parte delle comunità, vivaci e coese, arrivate in Italia mezzo secolo fa dall’esilio forzato dai rispettivi Paese: Libia, Iran, Libano, soprattutto.

Certo, ci sono incroci, dialoghi, amicizie, perfino alleanze su alcune grandi battaglie. Ma sarebbe poco utile negare che queste due anime dominati dell’ebraismo italiano si guardano, oggi, per lo più in cagnesco. Diffidano istintivamente l’una dell’altra. Troppo aperta e disposta al compromesso, la prima per i secondi. Troppo chiusa su se stessa, la seconda per i primi. Non pare azzardato dire che la floridità futura dell’ebraismo italiano, in larga parte, passerà dalla capacità o meno di questi due mondi di superare le reciproche diffidenze e provare a contaminarsi con le carte migliori nelle reciproche mani. Magari a partire dalla (ri)scoperta di quella comune biblioteca ebraica di cui parla ancora Diana Pinto? Buona lettura.  


Simone Disegni

 

Simone Disegni, giornalista e esperto di affari europei, è coordinatore editoriale di ResetDOC, organizzazione e rivista impegnata nella promozione del dialogo tra culture e religioni. In passato, è stato anche presidente dell’Ugei – l’Unione giovani ebrei d’Italia – e direttore della rivista HaTikwà.

 

 

Avec le soutien de :

Merci au bureau de Paris de la Fondation Heinrich Böll pour leur coopération dans la conception du site de la revue.

Merci au mahJ de nous permettre d’utiliser sa photothèque, avec le voyage visuel dans l’histoire du judaïsme qu’elle rend possible.