Intervista a Shulim Vogelmann

Giorgio Berruto / 19 luglio 2021

 

Shulim Vogelmann è nato a Firenze nel 1978, due anni prima della casa editrice Giuntina fondata dal padre Daniel. Dopo un’esperienza in Israele, restituita nel libro Mentre la città bruciava, Shulim ha rilevato l’attività editoriale, ristrutturandola in senso industriale e lanciando nuove collane e tanti nuovi libri, tutti legati in un modo o nell’altro alla tradizione, la cultura, la storia e la narrativa ebraica. Giuntina rappresenta oggi il caso, unico in Italia, di un piccolo editore specializzato in ebraismo pienamente inserito del dibattito culturale e delle idee.

 

Shulim Vogelmann

 

Giorgio Berruto : La Giuntina nasce a Firenze nel 1980. O forse nasce prima, molto prima, per opera non solo di tuo padre Daniel ma anche del nonno di cui porti il nome. Quali sono le origini della casa editrice e in quale misura si intrecciano alle vicende della tua famiglia?

Shulim Vogelmann : Mio nonno Shulim Vogelmann veniva dalla Galizia. Durante la prima guerra mondiale la famiglia si trasferisce a Vienna e da lì, a sedici anni, mio nonno va in Palestina. Alla stazione di Vienna i genitori gli dicono: “Non ti chiediamo di mangiare tutti i giorni con forchetta e coltello ma quantomeno di essere onesto”. Lui parte e non li rivede mai più. Vive tre anni in Palestina, avrebbe voluto andare in kibbutz con i pionieri ma non c’era lavoro, allora si arruola nell’esercito britannico, dove però non si trova bene. A un certo punto il fratello Mordechai Vogelmann, che era rabbino e all’epoca insegnava al collegio rabbinico a Firenze, lo invita in Italia e così Shulim arriva a Firenze, dove cerca un lavoro che gli consenta di osservare lo Shabbat. C’era la tipografia di un ebreo, Olschki, quindi inizia a lavorare lì prima come operaio e poi come direttore della tipografia. Nel frattempo sposa la figlia del rabbino di Torino Dario Disegni. Caso piuttosto raro per un ebreo, nel periodo delle leggi razziali rileva la tipografia insieme a un socio, proprio nei mesi in cui gli ebrei vendevano e liquidavano le aziende di cui erano titolari.

Dopo l’8 settembre 1943 Shulim con la famiglia cerca di rifugiarsi in Svizzera ma, arrestati dai fascisti al confine, vengono deportati a Auschwitz, dove la moglie e la figlia piccola sono subito uccise. Lui si salva, unico italiano a essere compreso nella lista di Schindler. Al ritorno dal Lager riprende a lavorare alla tipografia Giuntina e trova la forza di cominciare una nuova vita, conosce una vedova durante una festa di Chanukkà in comunità ebraica, si risposa e nasce mio padre Daniel. Crescendo, mio padre soffre tutti i problemi tipici della seconda generazione, cioè dei figli dei sopravvissuti i cui padri non raccontano nulla. Non era interessato alla tipografia, però un giorno entra in una libreria Feltrinelli e in una scatola di libri in lingua straniera gli cade l’occhio su un volumetto di Elie Wiesel, La notte. Lo legge e vi trova quello che il padre non gli aveva mai raccontato, decide allora che deve assolutamente tradurlo e pubblicarlo. Poiché era ancora legato alla tipografia Giuntina lo stampa cominciando l’avventura editoriale. Nel primo periodo escono uno o due libri all’anno, quasi tutti saggi o testimonianze sulla Shoah, però nel 1987 Wiesel vince il premio Nobel per la Pace e questo spinge le vendite della Notte e mio padre a continuare. Nel 2007 la tipografia chiude per vari motivi, tra cui la crisi economica e l’avvento del digitale; io, che ero appena tornato in Italia da sei anni trascorsi in Israele, decido di rilevare l’attività per non farla chiudere, rinunciando all’onere della tipografia e rimodulando la casa editrice con una struttura più leggera e indipendente.

Daniel Vogelmann, il padre di Shulim, con un ritratto di suo padre.

GB : La notte di Elie Wiesel è stata dunque decisiva per le origini della Giuntina. Ma Elie Wiesel è stato per molti anni l’autore più pubblicato e un faro del progetto editoriale. Una volta ti ho sentito rimproverare bonariamente tuo padre per non aver acquistato i diritti di tutte le opere di Wiesel nei primi anni ottanta, quando prima del Nobel in Italia era sostanzialmente sconosciuto.

SV : Agli inizi mio padre pubblicò molti libri di Elie Wiesel, però lui era un purista: per lui pubblicare un libro significava trovare qualcosa di davvero molto speciale. Non aveva una visione commerciale e neanche editoriale in senso industriale, con un progetto capace di guardare al futuro, perciò anche di Wiesel scelse solo alcuni testi. Pubblicare libri si situava all’incrocio tra una passione, una necessità esistenziale e la circostanza fortunata di potersi appoggiare sulla tipografia. Lo sforzo produttivo era estremamente minore rispetto a oggi.

GB : Fin da subito, con Wiesel e altri autori, testimoni o studiosi ma anche narratori, Giuntina ha concentrato grande attenzione sulla Shoah. Questo prima del documentario Shoah di Lanzmann, della grande ondata di film sul tema e dell’istituzione della Giornata della Memoria, in Italia introdotta da una legge dello Stato nel 2000. Oggi come raccontate la Shoah?

SV : Sulla Shoah Giuntina ha cominciato molto prima degli altri editori italiani. Recentemente, quando ogni anno stiliamo il programma editoriale, ci diciamo che sulla Shoah forse può bastare, eppure capita sempre di pubblicare un libro o due perché il tema scende in profondità fino a toccare la radice di problemi fondamentali dell’umanità come il male, la sopravvivenza, la trasmissione del dolore, la memoria e il racconto. In ogni caso nel mercato editoriale, a gennaio in prossimità della Giornata della memoria ma non solo, il tema rimane centrale per tutti. Esce una quantità pazzesca di libri sulla Shoah, anche se molti sono modesti e rispondono esclusivamente a fini commerciali. A volte è frustrante pubblicare un libro importante e vederlo assorbito in questo mare di novità, perciò capita di decidere di fare uscire i libri sulla Shoah apposta in un periodo diverso da gennaio. Per esempio abbiamo pubblicato sei libri della scrittrice israeliana Lizzie Doron sul tema della seconda generazione in Israele. A giugno esce un testo molto particolare di Piero Stefani, Le parole a loro, con testi teatrali in cui a parlare sono studenti, insegnanti e testimoni, è un libro pensato anche per le scuole, vuole portare sulla scena il lettore con un’immedesimazione ulteriore. Non ci poniamo limiti di genere o stile, semplicemente quando un libro parla decidiamo di dargli fiato e lo pubblichiamo. Il prossimo anno invece lanceremo una nuova collana per young adults con un libro della scrittrice inglese Keren David, What we’re scared of, racconta non la Shoah ma la vicenda di due gemelle di fronte all’antisemitismo contemporaneo. Si legge tutto d’un fiato, sono molto curioso di vedere come andrà.

GB : La collana che prende il nome di tuo nonno e il tuo, Shulim Vogelmann, è stata per molti anni la vostra più importante e ancora oggi viene arricchita con nuovi titoli. E’ la collana che meglio riassume l’identità e gli obiettivi della Giuntina?

SV : Fino a qualche anno fa certamente sì, anche perché era l’unica vera collana e ci entrava di tutto: narrativa, poesia, teatro, testimonianze, saggi. Una innovazione che ho introdotto è la distinzione tra saggistica e narrativa con due collane nuove, “Israeliana” per la letteratura israeliana e “Diaspora” per il resto del mondo. Ma ancora oggi la collana che prende il nome di mio nonno è quella che rende più riconoscibile la casa editrice, la maggior parte dei titoli di catalogo long seller sono qui e il lettore forte affezionato a quello che proponiamo a prescindere dal contenuto specifico attinge soprattutto da questa.

GB : Tu sei anche autore di un libro a me caro, Mentre la città bruciava. Ricordo di averlo ricevuto in dono dai miei genitori nel 2004, al loro ritorno dal Salone del libro di Torino. Oggi come giudichi quell’esperienza da autore? Un esperimento giovanile oppure l’apertura di una strada che forse tornerai a percorrere?

SV : E’ stata un’esperienza unica dettata dalla necessità di raccontare l’esperienza vissuta, non un libro pensato da qualcuno con l’ambizione di essere scrittore. Il libro ha avuto buon successo però già subito dopo la pubblicazione sapevo di non sentire l’urgenza, l’impulso, il desiderio di raccontare altre storie, che invece credo sia quello che definisce uno scrittore. Può darsi che in futuro scriva qualcosa ma non è la mia strada, che è invece quella dell’editoria.

Per fare l’aliyà occorre una forza ideologica, sentire una spinta capace di trasformare per te quel luogo nell’unico luogo al mondo e non abbandonarlo per nessun motivo. In me, tutto sommato, quella forza non c’era.

GB : E infatti al ritorno da Israele hai scelto di fare l’editore. E’ stata l’evoluzione naturale di una decisione presa in qualche modo da sempre oppure c’è stata una vera e propria svolta?

SV : Ero diventato israeliano e avevo svolto il servizio militare, pensavo di costruire la mia vita in Israele. Poi però ho letto un libro in ebraico e l’ho tradotto, Il quartetto Rosendorf, che è diventato il primo volume della collana “Israeliana”. Per me è stato il primo passo nel mondo dell’editoria. Non meno importante, ho conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie che all’epoca studiava a Barcellona, e questo mi ha riportato in Europa. Quando è risultato evidente che la casa editrice avrebbe chiuso con la chiusura della tipografia, non si trattava solo di cominciare un progetto ma anche di salvarne un altro. Tornai da Israele e cominciai a lavorare alla Giuntina. Non mi sono mai chiesto se prendere in mano la casa editrice sia stata questione di scelta o destino, mi sono chiesto invece spesso se la mia aliyà in Israele abbia avuto successo oppure no e per quale motivo. E’ stata un’esperienza che per me è stato importante cominciare e altrettanto finire. Forse per fare l’aliyà occorre una forza ideologica, sentire una spinta capace di trasformare per te quel luogo nell’unico luogo al mondo e non abbandonarlo per nessun motivo. In me, tutto sommato, quella forza non c’era e le circostanze hanno fatto breccia.

GB : Hai citato la traduzione del Quartetto Rosendorf. Oggi continui a tradurre? Oppure rivedi le traduzioni che arrivano in casa editrice?

SV : Controllo tutte le traduzioni dall’ebraico. Traduco molto meno per ragioni di tempo, a volte però lavoro in coppia con Rosanella Volponi: stendo una prima versione rapida e lei la sistema oppure ci dividiamo il testo.

GB : Nel 2004 avete lanciato la collana “Israeliana”, una grande sfida che ha contribuito all’affermazione in Italia della narrativa proveniente da Israele, oggi una realtà solida. Come spieghi questo successo?

Da un lato è un mistero perché c’è solo un altro Paese in cui la letteratura israeliana ha un successo paragonabile a quello in Italia ed è la Germania. Questo deve far pensare, chissà che non ci sia un aspetto psicologico di riparazione nel lettore italiano e tedesco rispetto a quello del resto del mondo. Negli altri Paesi alcuni romanzi israeliani hanno successo ma non si può parlare di un vero e proprio movimento letterario affermato. In Italia sono stati Oz, Yehoshua e Grossman ad aprire la strada, con Yehoshua che rimane il mistero dei misteri perché davvero solo in Italia è tanto apprezzato. Il bello dell’editoria è che non puoi mai sapere che cosa avrà successo e che cosa no. Prima dell’arrivo della grande distribuzione anche in Israele ricevevo da agenti o trovavo di persona libri più o meno belli, mai però inutili o stupidi, quel genere di libri che potevano anche non essere scritti. A mio avviso il contenuto nei testi israeliani si impone grazie al background di un Paese fatto da immigrati, pieno di giovani, con una storia di guerre e la Shoah alle spalle, incroci sociali e culturali tra mondi diversi, fenomeni come il kibbutz e altro ancora. Con una società del genere la letteratura parte in vantaggio perché ha qualcosa da dire e il lettore si sente arricchito perché scopre un universo. A questo si aggiunge la tipica pragmaticità israeliana, con autori che raramente raccontano minuzie e banalità della vita quotidiana e cercano invece di spaziare trai grandi temi. Anche descrivendo la vita in piccolo in un kibbutz, per esempio, riescono subito a raggiungere l’universalità in maniera evidente e diretta. Il lettore lo sente e rimane affascinato.

La società israeliana diventa sempre più uniforme, con gli aspetti traumatici del primo periodo della storia dello Stato che sembrano scemare. La domanda che mi pongo è se in futuro la letteratura israeliana continuerà a essere una letteratura forte.

GB : Qual è a tuo avviso oggi il rapporto tra letteratura ebraica e letteratura israeliana?

SV : C’è un legame ma anche un distacco perché la letteratura israeliana fa parte della letteratura ebraica, mentre la letteratura ebraica non fa parte necessariamente di quella israeliana. Il ruolo della lingua, cioè l’ebraico, è fondamentale al punto che in Israele la letteratura locale viene chiamata sifrut ivrit, “letteratura in ebraico”. Però più passa il tempo più l’ebraico diventa una lingua colloquiale con sempre meno citazioni bibliche e in definitiva più povera. A volte nella traduzione italiana i libri vengono elevati nel registro linguistico rispetto all’originale ebraico. Il fatto che l’ebraico sia sempre meno legato alle radici bibliche e alla lingua colta coincide secondo me con il progressivo distacco dall’ebraicità nei testi. A me questo preoccupa, con la grande distribuzione che spinge la pubblicazione di un numero sempre maggiore di libri di bassa qualità. Al contempo la società israeliana diventa sempre più uniforme, con gli aspetti traumatici del primo periodo della storia dello Stato che sembrano scemare. La domanda che mi pongo è se in futuro la letteratura israeliana continuerà a essere una letteratura forte. Se guardo alla qualità dei testi negli ultimi trent’anni vedo una linea che piano piano scende.

GB : E il rapporto tra letteratura ebraica e letteratura europea? Nel catalogo di Giuntina non mancano autori come Zweig, Benjamin, Arendt, Scholem… Esiste oggi una letteratura ebraica europea?

SV : C’è da dire che il Novecento è stato il secolo ebraico per quanto riguarda la produzione intellettuale e ci sarebbero molti altri nomi oltre a quelli che hai citato. Il Ventunesimo secolo a mio avviso non è più così, un po’ perché tutto si esaurisce, un po’ per la globalizzazione, un po’ perché la ricerca identitaria ebraica sembra fossilizzata nell’appartenenza a Israele oppure a una diaspora che è però molto meno vivace e indipendente rispetto al passato. Questo porta a una sorta di stagnazione culturale. Ci sono e ci saranno sempre intellettuali e scrittori ebrei, però oggi l’ebraismo è una minoranza che si mescola a tante altre minoranze, espressioni culturali molteplici provenienti da tutto il mondo ciascuna con qualcosa da dire. Spesso nel Novecento gli ebrei, grazie alla capacità di creare network, riuscivano a farsi tramite di idee e cultura e in loro era innata una visione europeista e universalista quando gli altri perseguivano scopi particolaristici e nazionalisti. Nel volume che abbiamo pubblicato da poco con le lettere di Stefan Zweig a uno studente che si chiamava Rosenkrantz c’è un un passaggio in cui Zweig rimprovera al giovane, che sta curando l’edizione di un libro, di concentrarsi troppo sulla Germania e non rendere il libro abbastanza europeo. Siamo nei primi anni trenta. Allora questa visione era tipica del mondo ebraico, possiamo pensare alla psicanalisi che è la disciplina più universale che c’è, non a caso Freud scelse Jung come successore perché temeva una troppo forte identificazione di quella che per lui era una scienza con gli ebrei. Oggi questo ruolo non è più appannaggio del mondo ebraico, che invece corre il rischio di abbandonare lo slancio universalista e di autolimitarsi nella dicotomia Israele/diaspora, con effetti deleteri sulla produzione culturale e letteraria.

GB : Nel 2016 avete cominciato a pubblicare il Talmud babilonese. Un’impresa che sembra gigantesca per un piccolo editore.

SV : E’ gigantesca. Però noi ci siamo presi carico della stampa mentre la traduzione, la curatela e la redazione sono gestite dal Progetto Traduzione Talmud Babilonese che è finanziato dallo Stato, e questa è una scelta di grande valore da parte dell’Italia, una scelta di dialogo più forte di qualsiasi parola. Decidere di pubblicare in italiano quella che è l’opera fondamentale della cultura e dell’identità ebraica, perfino più della Torah che è in un certo senso testo condiviso, è un gesto di grande generosità. Dal punto di vista ebraico la Torah scritta senza la Torah orale non è comprensibile, secondo i maestri dietro ogni versetto della prima ce n’è uno della seconda, cioè la Mishnah, che lo completa e lo spiega, e che nel Talmud viene ulteriormente discusso e commentato. Chi lo vuole ha così accesso al testo in italiano, anche se rimane la necessità di rivolgersi a un maestro per penetrare le sue pagine criptiche. Sebbene sia già stato fatto in altre lingue, è un atto coraggioso perché secondo la tradizione la Torah orale non dovrebbe essere tradotta. La nostra edizione si basa su quella in ebraico con la punteggiatura curata dal rabbino Steinsaltz. E’ un grande onore ma anche un grande onere perché la produzione ha costi molto alti e durerà a lungo. In ogni caso è un privilegio per la casa editrice, che entra nel ristretto gruppo di chi al mondo ha affrontato una simile impresa, e per me una soddisfazione personale. Devo dire che le vendite sono ottime, anche se naturalmente procedendo con i volumi successivi al primo tendono a scendere, segno che i lettori italiani interessati all’argomento hanno sentito l’importanza dell’operazione culturale e deciso di tenere in casa un libro che racchiude una delle grandi storie millenarie dell’avventura umana.

GB : Come si svolge il lavoro quotidiano della casa editrice? Quanti siete, che cosa fate, come fate? E poi ci sono collaboratori esterni, traduttori, agenti?

SV : Abbiamo una struttura molto leggera. Siamo in quattro, una ragazza si occupa dell’attività di segreteria e amministrazione, abbiamo un redattore, una terza persona si occupa della grafica e poi ci sono io. Abbiamo però tantissimi collaboratori: traduttori, agenti, correttori di bozze. La Giuntina è fatta anche dalla vicinanza e dall’amicizia di persone che collaborano con idee e proposte, comprendendo che dietro il lavoro della casa editrice non ci siamo solo noi ma anche una storia e un futuro che può essere significativo per la presenza culturale ebraica in Italia.

GB : Da alcuni anni i festival di letteratura e le fiere del libro hanno assunto una posizione rilevante per l’editoria. Questo almeno prima della pandemia. Ritieni che siano appuntamenti utili o indispensabili? Avranno un futuro nel mondo che sta lentamente ripartendo dopo il Covid-19?

SV : Penso che festival e fiere abbiano ancora un futuro. In Italia viviamo la situazione paradossale per cui a questi eventi partecipano migliaia di persone, a leggere i libri invece sono molti meno. Capita di organizzare presentazioni con duecento persone e di vendere alla fine quindici libri. Però il contatto fisico con i lettori rimane importante sia per noi, che abbiamo la possibilità di vederli e conoscerli direttamente, sia per il lettore che di solito è contento di conoscere chi e cosa sta dietro alla pubblicazione. Così si creano legami profondi che durano nel tempo. Le fiere non sono tanto vantaggiose da un punto di vista strettamente economico, quanto da quello delle relazioni, e questo è vero tanto più per noi che abbiamo un carattere culturale ben definito.

GB : Con Giuntina ti occupi anche di organizzare rassegne culturali?

SV : A lungo ho organizzato il Festival di letteratura ebraica a Roma, però dopo dieci anni ho deciso di smettere perché l’aspetto letterario era venuto a trovarsi un po’ in secondo piano e io avevo voglia di cercare nuovi stimoli.


Giorgio Berruto 

Giorgio Berruto, insegnante di filosofia e storia, dal 2017 al 2020 ha tenuto una rubrica settimanale sul portale dell’ebraismo italiano Moked e per tre anni ha diretto la rivista dell’Unione dei giovani ebrei d’Italia HaTikwà. Oggi collabora con Hakeillah, JOImag, La rassegna mensile di Israel.

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