«Gli ebrei italiani sono diventati minoranza tra le minoranze: posizione ideale per elaborare le questioni dell’immigrazione e dell’integrazione»

Simone Disegni / 19 aprile 2021

 

A cent’anni dalla morte di Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913, un altro politico di fede ebraica ha lanciato la sua sfida per conquistare il Campidoglio: Tobia Zevi, che a K. racconta il senso della sua avventura politica e riflette sulla rilevanza dell’impegno ebraico nella vita pubblica, in Italia e in Europa.

 

 

Servizi pubblici di trasporto locale, illuminazione e gestione idrica; un piano regolatore per “governare” l’espansione edilizia; una rete capillare di scuole per l’infanzia, improntate, per la delusione del Vaticano, a un’educazione rigorosamente laica; l’inaugurazione di edifici simbolo come l’Altare della Patria o il Palazzaccio, oggi sede della Corte di Cassazione. Una parte tutt’altro che trascurabile dei pilastri “urbani” su cui si regge oggi Roma fu posta sotto la guida di un sindaco rimasto ben impresso nella memoria della città: Ernesto Nathan, che guidò la capitale d’Italia dal 1907 al 1913. Segni particolari: londinese di nascita, laico, repubblicano. Ed ebreo.

A cento anni esatti dalla sua morte (aprile 1921), Roma potrebbe avere presto un nuovo sindaco cresciuto nella tradizione ebraica che con quella città ha un rapporto bimillenario inestricabile. Così almeno spera Tobia Zevi, 37 anni, ricercatore e militante politico di lungo corso nelle file del centrosinistra italiano, il cui volto sorridente guarda da quest’inverno pedoni e automobilisti romani dall’alto di dozzine di cartelloni elettorali. Non cambiare città. Cambiamo Roma, recita lo slogan trainante della sua campagna elettorale, consapevole del rischio maggiore che corre oggi la capitale: quello della sfiducia cronica dei cittadini nella capacità dell’amministrazione pubblica di risolvere un groviglio di problemi che pare inestricabile. Un sistema di trasporti pubblici inaffidabile, défaillances croniche nella capacità di raccolta e smaltimento dei rifiuti, strade e marciapiedi in frequente dissesto, un tessuto socio-economico già penalizzato dalla fuga di molte aziende oggi a rischio di implosione con il crollo dei flussi turistici.

Francobollo emesso dalle Poste Italiane in ricordo di Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913, nel centenario della morte[1].

Nell’attesa di un appuntamento elettorale quanto mai incerto – la terza ondata pandemica ha spinto il governo a rinviare il voto all’autunno, e il nuovo segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, ha confermato che il candidato del centrosinistra sarà scelto attraverso le primarie – Zevi affronta in questa lunga intervista con K. i nodi di questa sfida, ma riflette soprattutto sul senso dell’impegno ebraico nella vita pubblica, in Italia come in Europa. Prima di approdare sulla scena politica locale e nazionale – sino a ricoprire il ruolo di consigliere del premier Paolo Gentiloni nel 2017-18 – Zevi si è fatto le ossa infatti con la militanza nelle organizzazioni ebraiche: guidando prima l’Ugei, l’Unione giovani ebrei d’Italia, e poi l’associazione di cultura ebraica Hans Jonas, e sedendo nel consiglio della Comunità ebraica di Roma. Un impegno alla frontiera tra i due mondi iscritto nei geni di famiglia: sua nonna Tullia, giornalista sposata al grande storico dell’architettura Bruno Zevi, è ricordata come la prima donna leader dell’Unione delle comunità (Ucei), e colei che siglò nel 1987 l’Intesa che ne regola i rapporti con lo Stato, garantendo agli ebrei italiani diritti fondamentali. Ed è proprio sulla strada dell’integrazione delle minoranze che sta l’unica chance per l’Europa di guarire le sue ferite e rilanciarsi anche in chiave globale, sostiene Zevi in questa conversazione.

 

Tullia Zevi e Bettino Craxi firmano l’Intesa tra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – Roma, 27 febbraio 1987.

 

Simone Disegni : Dall’estate scorsa hai deciso di bruciare i tempi dei partiti, del Pd in particolare, candidandoti a quello che molti definiscono il lavoro più difficile d’Italia: governare una metropoli “extra-large” (1.287 kmq) che soffre un cronico degrado dei servizi pubblici (trasporti, rifiuti, strade), tanto che l’insofferenza popolare ha lanciato e poi divorato uno dopo l’altro gli ultimi tre sindaci di diversa provenienza politica. Chi te l’ha fatto fare?

Tobia Zevi : La risposta non è una, ma la somma di quattro. La prima, per così dire personale, psicanalitica, è che questo è il sogno della mia vita. Io ho sempre in qualche modo cullato il sogno di fare il sindaco della mia città, e dunque sono felicissimo oggi di cimentarmi in questa sfida.

La seconda risposta, politica e se vogliamo anche culturale, è che oggi nel mondo in cui viviamo le città assumono un ruolo sempre più centrale, da un punto di vista politico, economico e sociale; e quindi per chi ama la politica, che è innanzitutto gestire e in qualche modo prendere parte ai conflitti che si vengono a configurare nella società, le città secondo me sono il banco di prova, la trincea più essenziale. Vale per l’economia, vale per l’ambiente, vale per le diseguaglianze, vale per l’innovazione tecnologica, vale per l’innovazione culturale. Ecco perché penso che fare il sindaco di una grande città sia certamente una cosa complicata, ma anche secondo me la sfida più rilevante oggi per un uomo politico: anche perché, rispetto ad altre attività politiche, restituisce la ricompensa unica di poter toccare con mano il lavoro che fai, di misurarne direttamente la qualità.

Terzo, Roma si dice è ingovernabile. Sui suoi difetti cronici esiste un’ampia letteratura, anche di altissimo livello: James Joyce ironizzava dicendo che i romani campano mostrando ai turisti la nonna morta dentro casa; un illustre presidente del Consiglio di inizio Novecento, Francesco Saverio Nitti, si lamentava che Roma è l’unica città del Mediterraneo senza un quartiere europeo. Sul fatto che sia ingovernabile, tuttavia, mi permetto di dissentire. Quindici anni fa – non cinquecento – Roma era una città considerata come una delle capitali più interessanti, innovative e culturalmente stimolanti al mondo. Era un posto che al di là degli evidenti elementi di attrattiva universali funzionava, in cui si produceva un sacco di cultura, di ricchezza, di innovazione, per cui le persone venivano a Roma, i giovani ci si trasferivano, gli stranieri pure. Certo, Roma non è e non sarà mai Stoccolma, ma era una città che aveva una direzione di marcia ben chiara. Quindi io dico che come era possibile quindici anni fa, è possibile anche oggi. Naturalmente bisogna avere le idee chiare e un’amministrazione pubblica che funziona.

E qui vengo alla quarta risposta, e cioè perché io non ho “aspettato”. Se mi sono buttato nella mischia senza chiedere il permesso a nessuno, è proprio per il fatto che se noi vogliamo ricostruire questa città dobbiamo fare un lavoro molto profondo, serio, faticoso, difficile. Per fare questo serve un tempo lungo, serve una squadra larga di persone e servono visioni chiare. Questo lavoro andrebbe fatto dai partiti, dalle classi dirigenti, con una metodologia che è quella tipica della buona politica e cioè coinvolgendo persone, ragionando, studiando, scrivendo, discutendo, pubblicando libri, incontrando i quartieri e le categorie. Quindi è un lavoro che richiede un grande sforzo: questo sforzo i partiti, le classi dirigenti, non lo stanno facendo. Continuano a ignorare l’urgenza di questo problema, che naturalmente è un problema urgente per i cittadini romani – perché è evidente che quando gli autobus non passano o addirittura vanno a fuoco, l’immondizia sta per strada, per terra è pieno di buche e la pubblica amministrazione non funziona, tutto diventa una fatica – ma lo è anche per tutto il resto degli italiani, perché checché se ne pensi comunemente in Italia, oggi non esiste un Paese nel mondo sviluppato che cresce a discapito della propria capitale. Per questo penso non ci sia più tempo da perdere, e poiché non lo fa nessun altro questo lavoro mi sono messo a farlo io – e devo dire che la reazione che ho avuto sin qui è molto positiva.

SD : Tu sei cresciuto politicamente nel “vivaio” del centrosinistra italiano, ma anche in quello delle istituzioni ebraiche, a partire dalla presidenza dell’Ugei dal 2005 al 2007. Quanto e in cosa ti è stata utile quella palestra? E cosa c’è della tua radice ebraica nel tuo impegno politico?

TZ : La scuola che ho fatto grazie all’Ugei è stata molto importante. Ricordo che al primo Congresso da presidente venne a trovarci il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e disse a noi ragazzi che eravamo lì a discutere che nella sua esperienza chi aveva avuto ruoli nelle organizzazioni ebraiche giovanili aveva sempre poi raggiunto traguardi importanti nella vita. Credo sia proprio così: essendo organizzazioni piccole, quelle ebraiche giovanili consentono effettivamente di essere versatili, di sperimentarsi in tanti campi, e questa è una qualità che in politica serve. D’altro canto il mondo ebraico è anche purtroppo molto litigioso nelle sue istituzioni, che sono dunque una palestra anche in questo senso: spesso mi sono sentito temprato perché le litigate che avevo fatto non tanto nell’Ugei quanto più tardi nel Consiglio della comunità ebraica di Roma erano più accese e virulenti di quelle che faccio oggi – il che da un lato mi ha in qualche modo vaccinato, ma dall’altro invece è evidentemente un tratto negativo nella vita delle nostre comunità.

Quanto al portato ebraico, penso che ci sia un elemento molto significativo dell’impegno pubblico che può essere per così dire indirizzato meglio dall’appartenenza culturale all’ebraismo: e questo tratto è l’attenzione che l’ebraismo riserva – a tutti i livelli, dal più approfondito al più superficiale – al valore della parola. L’ebraismo è una grande lezione di interpretazione e valorizzazione di tutto ciò che viene detto; la parola è persino in qualche modo materia sacra. Ecco, in politica, e soprattutto in quest’epoca dominata dai social media, la parola tende molto spesso a perdere il suo valore, si tende a dire un po’ la prima cosa che viene in mente – per un interesse strumentale del momento o magari semplicemente perché non si ha tempo di approfondire o essere più precisi. Se c’è una cosa che cerco sempre di fare nel mio impegno pubblico – non ci riuscirò tutte le volte, perché anch’io sono ovviamente vittima della velocità dei social media – è proprio cercare di non dire parole inutili, o parole esagerate, o parole sbagliate, perché oggi nel nostro mondo quest’attitudine purtroppo fa grandi danni: lo si vede in modo lampante nei casi di odio più evidenti, ma anche mi pare in un certo senso di perdita di dignità della politica, delle classi dirigenti, perché le persone percepiscono che quello che viene detto fondamentalmente non ha valore, non ha qualità.

SD : Nel 2021, oltre che a Roma, si dovrebbe votare anche per il rinnovo dei vertici dell’ebraismo italiano. Storicamente il Congresso Ucei ha sempre rappresentato il tempo e il luogo per “prendere la temperatura” all’ebraismo italiano. Da attento osservatore di quel mondo, come sta secondo te oggi l’ebraismo italiano? Qual è la sua forza e qual è la sua debolezza?

TZ : Non me ne occupo da vicino da parecchi anni, però credo che ci siano dei trend abbastanza consolidati. L’ebraismo italiano ha come punto di forza secondo me la sua ricchezza culturale e umana, fatta di persone diverse, di capacità, di intelligenza, di comunità piccole e grandi, di storia, quindi ha un sacco di risorse preziose in questo mondo globalizzato e sempre più complesso. D’altro canto c’è evidentemente un enorme problema di sopravvivenza demografica: i trend ci raccontano di una comunità che rischia se non di estinguersi quanto meno di asciugarsi e sostanzialmente ridursi nel giro di qualche decennio a una o due comunità. Su questo credo che poco si possa fare perché ciò dipende in parte da condizioni socio-economiche generali del tutto fuori dal controllo dell’ebraismo. Quello che forse invece si potrebbe fare – che non risolve il problema ma è in qualche modo una risposta, e in parte già accade – è valorizzare la capacità che il mondo di oggi ci dà di mettere in rete più realtà, più comunità. Oggi forse in prospettiva non ha tanto senso una struttura così policentrica come quella attuale[2]; o forse policentrica sì, ma più che nell’assetto istituzionale nella capacità di essere flessibili e di volta in volta di fare rete su questo o quel progetto. Noi dobbiamo certamente cercare di non perdere il valore delle tante comunità italiane, però anche essere realisti sul fatto che è difficile che una comunità che oggi conta trenta o cinquanta iscritti possa avere un grande futuro, a meno che non accada in quella città qualcosa di eccezionale, e dunque cercare di capire come quei trenta o cinquanta ebrei possono interagire con quelli che magari vivono a cento chilometri di distanza.

SD : Tempo di ripensare il modello organizzativo, dunque?

TZ : Ma in parte questo sta già accadendo! Durante la prima fase della pandemia io ricordo una discussione molto interessante tra Rabbini sulla possibilità o meno di leggere e di ascoltare la Meghillà su Zoom. La facoltà di uscire d’obbligo in questo modo è stata poi esclusa, ma resta il fatto che l’anno scorso noi abbiamo avuto milioni di ebrei nel mondo che hanno sentita la Meghillà tramite questo canale – persone che mai prima avevano avuto l’occasione magari di andare al Tempio e hanno partecipato alla funzione perché c’era la tecnologia. Ma lo stesso accade, se mi permetti il collegamento, nella sfera dell’attività politica: io sono impressionato dai giovani volontari della mia campagna elettorale, che sono tanti ed entusiasti e lavorano un sacco, e che in molti casi non solo io non ho mai visto, ma non si sono mai visti neppure tra di loro. Ciò significa che al di là dell’incontro nel mondo “reale” ormai si creano dei legami e delle attività totalmente sul digitale. Questa è una grande risorsa, e mi pare che l’ebraismo italiano un po’ la stia già sfruttando; però chiaramente questo richiederà anche un’elaborazione e un investimento culturale, perché questa novità cambia tutto davvero. Come cambia tutto sul nostro modo di interagire, di lavorare, di spostarci, cambierà pure il nostro modo di vivere l’ebraismo.

SD : Come giudichi oggi il rapporto tra gli ebrei italiani e la società circostante? Ci sono sufficiente conoscenza e interesse reciproci? Oppure le due sfere potrebbero fare passi in avanti l’uno verso l’altro?

TZ : Io penso che ci sia una relazione consolidata tra ebrei italiani, istituzioni e società. Rimane al contempo come elemento di preoccupazione il fatto che quando si svolgono le periodiche indagini demoscopiche emerge un livello di ignoranza e molto spesso anche di intolleranza sorprendente: è evidente che esistono dei segmenti della popolazione particolarmente impermeabili a quello che a noi può sembrare il discorso pubblico consolidato. Quindi su questo bisogna ovviamente continuare a lavorare, a elaborare. Non credo francamente che si possa imputare da questo punto vista nulla alle istituzioni ebraiche che fanno un grande lavoro, così come molte istituzioni repubblicane. Però c’è nel complesso un lavoro di educazione molto forte da fare, sicuramente anche in questo caso da aggiornare continuamente poiché, ripeto, quest’anno di pandemia non finisce quando finirà la didattica a distanza: lascerà dei detriti nella vita, nell’esperienza, nella cultura dei ragazzi e delle ragazze più giovani.

Dopodiché c’è il tema, che ho avuto modo di richiamare molte volte, che gli ebrei da qualche anno ormai si trovano per la prima volta nella loro storia a essere una minoranza tra le minoranze, mentre prima erano in qualche modo la minoranza per eccellenza, e questo richiederebbe secondo me uno sforzo di elaborazione e partecipazione maggiore rispetto alla grande questione della migrazione e dell’integrazione. Su questo a me sembra che a volte invece la voce degli ebrei sia troppo flebile. Lo capisco: è ovvio che è una posizione scomoda per almeno tre aspetti: che l’immigrazione è un tema scottante; che gli ebrei stessi sono un tema scottante; e che ovviamente una parte consistente dell’immigrazione è fatta di musulmani, e dunque di rapporti particolarmente complessi. Ciononostante credo che su questa grande sfida si potrebbe fare uno sforzo di elaborazione culturale maggiore.

SD : Allarghiamo lo sguardo all’Europa, che è come intraprendere – anche restando nel mondo ebraico – un viaggio in decine di direzioni diverse, dal punto di vista storico, politico, culturale. Esiste dal tuo punto di vista qualcosa che si possa chiamare un “ebraismo europeo”? E se sì, cosa lo definisce?

TZ : Non sono abbastanza sapiente per individuare i lineamenti di un ebraismo europeo dal punto di vista culturale. Posso però fare un ragionamento “geopolitico”: l’ebraismo europeo costituisce oggi il “terzo polo” tra la comunità americana e quella israeliana, per distacco le due più grandi del mondo. Sono due comunità “maggioritarie”: in Israele, per ovvie ragioni; in America, perché comunque la presenza ebraica negli Usa è stabile e molto affermata. Dunque l’ebraismo europeo è l’unico che conserva un’identità come “minoranza”. Può essere utile questo tratto all’ebraismo globale? Io credo di sì. E inoltre, conviene che esista un contributo ebraico alla formazione dell’identità europea, un processo ancora in via di definizione? Di nuovo: credo proprio di sì!

SD : Una minoranza che però appare sempre più scarna – secondo il Jewish Policy Research appena 1,3 milioni di cittadini europei contro i 10 di prima della Shoah – e intimorita. In Francia si è fatto nelle ultime settimane ancor più caldo il dibattito sul rapporto col Paese – se sia cioè sufficientemente sicuro o non sia preferibile la strada dell’emigrazione di massa in Israele; nel Regno Unito ha destato preoccupazione negli ultimi anni lo sdoganamento dell’antisemitismo nel Labour e in alcuni ambienti accademici, in Germania le minacce alla sicurezza culminate nella strage mancata di Halle; per non parlare della deriva in Ungheria e Polonia, dove l’antisemitismo è pressoché esplicitamente sfruttato dai partiti di governo a fini elettorali. Può essere ancora l’Europa il “posto per gli ebrei” nel futuro, oppure dobbiamo rassegnarci al fatto che diventi un luogo di presenza ebraica sempre più minoritaria, di emigrazione?

TZ : Io resto ottimista per gli ebrei europei. È una storia che ha attraversato le più grandi tragedie della storia, eppure prosegue: in qualche modo sopravvivrà anche a questa fase. Credo invece che questa domanda, più che con il futuro degli ebrei europei, che una soluzione in qualche modo la troverebbero, magari muovendosi, interroghi direttamente il futuro dell’Europa: nel mondo di oggi l’Europa deve decidere se interpretare la funzione di una superpotenza globale che riesce a stare insieme e quindi di fatto anche a interagire e competere con gli Stati Uniti, con la Cina e le altre grandi potenze all’orizzonte. Se questa è la sfida, chiaramente l’Europa ha bisogno di una società aperta, multietnica, creativa, lungimirante e volta al futuro, e quindi ha bisogno anche degli ebrei, perché gli ebrei sono in qualche modo un reagente di tutto questo. «Quando gli ebrei se ne vanno è sempre un brutto segnale», mi disse una volta un leader libanese parlando della fuga degli ebrei dal Libano, che in quel Paese precedette di poco la terribile guerra civile. Se l’Europa riuscirà a interpretare questa sfida, che è una sfida geopolitica, economica, culturale, ecologica, allora io sono convinto che il futuro degli ebrei in Europa sarà roseo: dirò di più, che la comunità ebraica europea sarà fondamentale per il futuro dell’Europa. Se così invece non fosse, ovviamente, lo scenario sarebbe negativo per gli ebrei – ma in realtà per tutto il continente – e gli esempi citati dell’Est Europa sono dei segnali pericolosi di questa possibile deriva che dobbiamo a tutti i costi cercare di allontanare. Mi pare però questo anno di pandemia sia riuscito in qualche modo a dare il messaggio di un’idea di un’Europa diversa.

SD : C’è qualcosa su questo terreno che i governi o le istituzioni europee potrebbero fare dal tuo punto di vista per sgombrare il campo dall’equivoco che vi possano essere luoghi in Europa dove gli ebrei non si sentono “a casa”?

TZ : Non sono un esperto di politiche comunitarie legate all’antisemitismo, ma ho la sensazione che le istituzioni facciano il loro dovere. Quello che ancora una volta invece forse manca è a mio avviso un modello europeo di integrazione: oggi in primis integrazione etnica, domani sempre di più anche integrazione sociale e culturale di mondi sempre diversi. Su questo c’è bisogno di un grande lavoro di immaginazione e di cultura, e in questo senso gli ebrei, come dicevo, potrebbero essere utili, ma anche trarne beneficio, perché è chiaro che quando la società è più sana anche gli ebrei stanno meglio.


Simone Disegni 

 

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Notes

1 «Importante, e giusta, iniziativa delle Poste che stampano un francobollo in onore di Ernesto Nathan, sindaco di Roma tra 1907 e 1913.  Visse in un mondo diverso dal nostro, eppure molti dei suoi principi e delle sue scelte politico-amministrative sono ancora attuali: la tutela dell’interesse pubblico, la tenacia nel migliorare i servizi per il cittadino, la tensione all’uguaglianza sociale e l’attenzione sulla scuola fin dalla primissima infanzia. Trasformò Roma, lui che era un figlio dell’Europa e che a Roma fu prima forestiero, neanche del tutto a suo agio con la lingua italiana.  Ancora oggi è un modello a cui tendere, a cui chiunque voglia governare questa città può e deve ispirarsi. Per me – nel mio piccolo – rappresenta un faro politico e culturale», ha commentato Zevi sul suo profilo Facebook.
2 La vita ebraica italiana è oggi organizzata attorno alle 21 Comunità ufficialmente riconosciute, una per ogni città in cui vi è una presenza ebraica – dalle più grandi che contano migliaia di correligionari (Roma e Milano) sino alle più piccole con appena qualche nucleo famigliare. Esse sono poi riunite e rappresentate dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei).

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