Negligenza o connivenza? Nuove ombre sull’attentato alla Sinagoga di Roma (1982)

Simone Disegni / 19 gennaio 2022

Il 9 ottobre 1982 un commando palestinese falcidiò la folla di ebrei romani all’uscita dal Tempio Maggiore, ferendone decine e uccidendo un bimbo di due anni. Alla vigilia del 40esimo anniversario, nuove carte mostrano che i servizi segreti avevano informato le autorità italiane del pericolo imminente, ma nessun dispositivo di sicurezza fu previsto a protezione della Sinagoga. Un libro in uscita conferma l’esistenza di un accordo segreto tra Stato italiano e fazioni palestinesi nel periodo degli Anni di Piombo, ma il legame con l’attentato di Roma resta da provare. E il dossier torna all’attenzione del Parlamento.

 

Il dolore e la rabbia di un’ebrea romana dopo l’attacco alla Sinagoga, il 9 ottobre 1982.

 

Quante volte lo Stato italiano ha voltato le spalle alla “sua” minoranza ebraica, svendendola di fatto ad un attore straniero?

Una, certifica oltre ogni ragionevole dubbio la Storia – quando collaborò attivamente, tra il 1943 e il 1945, all’arresto e alla deportazione di quasi 7mila ebrei verso i campi di sterminio tedeschi.

Due, temono e sussurrano sempre meno timidamente gli ebrei italiani, e romani in particolare, rivolgendo il pensiero al grande “buco nero” nella loro protezione lasciato meno di quattro decenni dopo dalle istituzioni italiane.

Di che si tratta?

Di un evento piuttosto sbiadito nella memoria collettiva nazionale, persa tra i mille fatti di sangue che flagellarono il Paese negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, ma scolpito indelebilmente in quella ebraica: l’attentato alla Sinagoga di Roma avvenuto il 9 ottobre 1982.

All’uscita dalla funzione di Sheminì Atzeret, la penultima delle grandi festività dell’inizio dell’anno ebraico, quella mattina i frequentatori del Tempio Maggiore trovarono ad attenderli un commando di terroristi palestinesi. Le raffiche di mitra e le bombe a mano lanciate sui fedeli lasciarono a terra decine di feriti – alcuni dei quali portano tutt’oggi nel corpo il segno di quelle schegge – e un bimbo di due anni, Stefano Gaj Taché, perse la vita.

A risvegliare i tormenti ebraici di quella mattina di 39 anni fa, e la memoria distratta del resto del Paese, sono ora delle nuove carte pubblicate sulla stampa italiana. Che sembrano dare corpo ai sospetti più tremendi dei sopravvissuti: le autorità italiane avrebbero potuto impedire l’attacco, e non lo fecero.

La sinagoga di Roma oggi (Wikimedia Commons)

Delitto annunciato

Nella coscienza collettiva italiana, il 1982 resta indimenticato soprattutto per un grande evento: la vittoria dei Mondiali di calcio di Spagna, quando coi gol di Paolo Rossi la poco quotata nazionale azzurra abbatté Argentina, Brasile e Germania e conquistò la Coppa del Mondo, sotto gli occhi raggianti del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Pareva l’inizio di una nuova epoca, più moderna e vincente, dopo un decennio di difficoltà economiche, divisioni politiche laceranti e una lunghissima striscia di sangue lasciata dal terrorismo interno degli Anni di Piombo. Ma il vento nuovo degli anni ’80 portava in quegli stessi mesi nei tinelli e nelle strade d’Italia anche altri umori, ben più inquieti, legati agli avvenimenti in Medio Oriente.

L’invasione del Libano lanciata dal governo israeliano guidato da Menachem Begin e Ariel Sharon per sradicare l’Olp ebbe grande eco su stampa e televisioni, e in un senso piuttosto univoco. L’operazione militare preventiva lanciata dalla destra del Likud spostò definitivamente l’immagine d’Israele sul fronte dei “cattivi” agli occhi di buona parte del ceto politico e dell’opinione pubblica, liberati dai complessi dei decenni precedenti. «I media italiani – ricorda Lisa Palmieri-Billig – bombardavano l’opinione pubblica con titoli e vignette cariche di odio che richiamavano l’epoca nazista, raffigurando bombardamenti di “aerei ebraici” con la Stella di David e ripugnanti “israeliani” che si accingevano a torturare allegramente palestinesi innocenti o a crocifiggere un Cristo palestinese».

Il clima abbondantemente dominante filo-arabo e anti-israeliano, a sinistra ma anche tra le fila del partito moderato di governo della Democrazia cristiana, prese tinte via via sempre più inquietanti per gli ebrei italiani. Alla fine di giugno un’ingente manifestazione contro la guerra dei sindacati ebbe una coda macabra, quando alcuni dimostranti si spinsero fino all’antico ghetto di Roma per deporre di fronte alla Sinagoga una bara. Con il propagarsi dello scandalo per il massacro di Sabra e Shatila, e con la visita trionfale di Yasser Arafat a Roma, a settembre il clima si fece ancora più cupo, e nell’imminenza delle feste di inizio anno tra gli ebrei si fece strada il timore di un attacco imminente. Anche perché nell’ultimo biennio attacchi terroristici di frange palestinesi o filo-palestinesi avevano colpito obiettivi ebraici in mezza Europa: Berlino, Anversa, Parigi, Vienna, poi ancora Anversa. E di nuovo Parigi, soltanto poche settimane prima, con l’attentato a un ristorante casher di Rue des Rosiers costato sei vittime e decine di feriti.

Nonostante le richieste di protezione avanzate anche in via ufficiale dall’Unione delle comunità ebraiche, e il “segnale” inequivocabile di un ordigno esploso la notte tra il 29 e il 30 settembre in una sede della Comunità di Milano, la mattina del 9 ottobre il commando palestinese poté agire di fatto indisturbato. Di fronte alla Sinagoga – notarono e riferirono tutti i testimoni – non solo la sorveglianza non era stata rafforzata, ma non stazionava neppure un’auto della polizia.

La prima pagina de La Stampa del 10 ottobre 1982

Sospetti e rivelazioni

Al netto della solidarietà del momento, la rabbia e le proteste degli ebrei romani caddero comunque presto nel vuoto. E così la loro richiesta di giustizia. Gli attentatori – si pensa fossero cinque – fecero perdere le loro tracce. Solo uno dei componenti della banda fu fermato, un mese dopo, ma non in Italia: al confine tra Grecia e Turchia, alla guida di un’auto carica di esplosivi. Si trattava di Abdel Osama Al Zomar, un componente della cellula terroristica palestinese guidata da Abu Nidal. Sei anni dopo la Grecia lo liberò e lo lasciò riparare in Libia. Nel 1991, Al Zomar fu condannato in contumacia da un tribunale italiano. Ma di lui non si seppe più nulla; né di eventuali altre corresponsabilità.

Sino al 2008, quando all’approssimarsi del ventiseiesimo anniversario dell’attentato l’ex presidente del Consiglio e della Repubblica Francesco Cossiga, ormai ottantenne, decise di svuotare il sacco. Prima, in un’intervista al Corriere della Sera, svelò l’esistenza di un accordo segreto tra gli apparati dello Stato italiano e le principali forze palestinesi – indicato come “Lodo Moro”, dal nome dell’ex premier e leader della Dc Aldo Moro – per consentire a queste ultime libero movimento di uomini e armi sul territorio italiano in cambio della protezione del Paese e dei suoi cittadini da azioni terroristiche. Quindi, incalzato dalle domande del corrispondente in Italia del giornale israeliano Yediot Aharonot, precisò che, in effetti, obiettivi sionistici sarebbero stati esclusi dal perimetro di quell’accordo. Gli ebrei italiani, detto altrimenti, avrebbero potuto essere colpiti indisturbati. «Vi abbiamo venduti», sintetizzò lapidario al giornalista israeliano.

Le affermazioni gravissime di Cossiga – che per lunghi anni si era occupato in vari ruoli di governo di servizi segreti e con essi aveva tessuto stretti rapporti – non trovarono comunque riscontri o conferme pubbliche. Da più parti si lasciò anzi intendere che l’ex presidente, che si sarebbe spento due anni dopo, era ormai anziano e poco lucido. Ma quella “bomba politica” sganciata in tarda età da Cossiga è tornata sotto i riflettori nelle ultime settimane, con la pubblicazione sul quotidiano Il Riformista di nuove carte riservate legate all’attentato di Roma.

Francesco Cossiga (1928-2010)

Nei cinque mesi precedenti l’attacco, svelano i nuovi documenti pubblicati, i servizi segreti italiani ricevettero e trasmisero alle autorità ben sedici segnalazioni di un’imminente azione violenta di matrice palestinese. Tre di queste – basati su fonti particolarmente solide – indicavano chiaramente tra i probabili obiettivi le Sinagoghe italiane, quella romana essendo evidentemente la più “ghiotta” sul piano politico. La segnalazione più precisa ed esplicita fu inviata dal Sisde il 25 settembre 1982, per conoscenza anche direttamente al ministero dell’Interno: segnalava la concreta possibilità di «attacchi del gruppo dissidente palestinese guidato da Abu Nidal prima, durante o subito dopo lo Yom Kippur, che quest’anno cadrà il 27 settembre». Esattamente ciò che sarebbe avvenuto due settimane dopo. «Cossiga non era pazzo e i documenti confermano che aveva ragione», ha scritto a corredo dell’inchiesta Il Riformista.

Negligenza o connivenza?

Possibile che lo Stato italiano rinunciò coscientemente a proteggere i “suoi” ebrei – meno di quattro decenni dopo la Shoà – in nome di un accordo sottobanco di politica internazionale? E se sì, a che livello si trovavano le responsabilità? Lo abbiamo chiesto a due tra i (pochi) storici che hanno scoperchiato il pentolone – tuttora non riconosciuto ufficialmente – del “Lodo Moro”.

«Certamente nei servizi e nei ministeri europei di quell’epoca c’era un certo “fastidio” anti-israeliano», osserva Valentine Lomellini, storica dell’Università di Padova che sta per pubblicare in un atteso volume (Il «Lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, Laterza 2022) i frutti dello studio di migliaia di documenti di quella fase storica. «Attenzione però a saltare a conclusioni senza le necessarie prove documentali. Un conto è dire che l’Italia tenne un atteggiamento compiacente verso le fazioni palestinesi lasciando circolare terroristi o armi sul territorio – il cuore del Lodo, su cui le carte parlano chiaro. Altra cosa è sostenere che essa favorì esplicitamente un loro attentato. Così come un conto sarebbe ipotizzare la presenza di un infiltrato nei servizi che riuscì magari nel proprio intento di impedire l’invio quella mattina dell’auto della polizia. Altro conto sostenere una responsabilità diretta del Ministero dell’Interno o del governo in quanto tale nel “lasciar fare” i terroristi palestinesi». Anche perché il governo in quel momento in carica – presieduto dal repubblicano Giovanni Spadolini – era tutt’altro che filo-arabo, ricorda ancora Lomellini.

Sull’incertezza dell’applicabilità dello schema del Lodo Moro all’attentato di Roma richiama l’attenzione anche Giacomo Pacini, che sulle trame di quegli anni, in particolare dentro all’universo dei servizi segreti, ha pubblicato diversi libri, l’ultimo dei quali dedicato a La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati (Einaudi, 2021). «Lo schema del Lodo regge senza dubbio a partire dal 1972-73 e per tutto il decennio – ricorda Pacini – Ma nell’82 il contesto è mutato. Moro, il presunto architetto di quell’accordo, è già morto da quattro anni (ucciso dalle Brigate Rosse nel maggio 1978, ndr), e lo stesso colonnello Stefano Giovannone, che ne era il garante a livello operativo, non è più a capo delle operazioni dei servizi in Medio Oriente a Beirut. Né è al governo in quella fase l’altro grande protettore dei rapporti con i palestinesi, per conto della Dc e dell’Italia, Giulio Andreotti». Ma soprattutto, concordano entrambi gli studiosi, la cellula che si macchia dell’attentato di Roma – quella di Abu Nidal – si muove non solo in autonomia, ma in aperto contrasto con i gruppi “ufficiali” della resistenza palestinese, come l’Olp di Arafat e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habash, ossia i probabili contraenti del patto di non belligeranza con lo Stato italiano.

Il Lodo Moro, insomma, esisteva eccome, e su di esso l’opera di “scavo” storico e politico non è che agli inizi, ma potrebbe non essere la cornice idonea entro cui inquadrare l’attentato di Roma, come aveva indicato Cossiga. Ma che dire allora delle responsabilità dell’Italia per aver lasciato drammaticamente sola la Comunità più antica della Diaspora? «Al livello dello Stato, senza dubbio c’è una grande responsabilità politica, nella perdita di memoria collettiva di quel fatto, se consideriamo che l’inclusione del nome di Stefano Taché nella lista delle vittime italiane del terrorismo avviene addirittura soltanto trent’anni dopo, sotto la presidenza di Giorgio Napolitano. Quanto alle responsabilità dirette in termini di sicurezza, per il momento abbiamo prove evidenti di negligenza; non, però, di connivenza», conclude Lomellini.

Messaggi d’allerta inviati dai servizi segreti italiani nel 1982 e ignorati

Documenti cercansi

Nuove carte e nuove evidenze è però esattamente ciò che sembrano chiedere i vertici della comunità ebraica. «È necessario avviare una immediata indagine che faccia emergere nomi e cognomi di chi ha consentito tutto questo, di chi sapeva e non ha voluto fare», ha tuonato dopo la rivelazione dei nuovi documenti l’ex presidente della Comunità di Roma (e figlio di uno dei feriti più gravi dell’attentato) Riccardo Pacifici. «Presumo che non li potremo mettere in galera, ma almeno portarli, da un punto di vista della storia, di fronte alle loro responsabilità. Se ci sono degli esecutori materiali ci sono anche responsabili morali. E costoro vanno individuati, senza sconti per nessuno».

L’alveo politico-giudiziario entro cui incanalare tale richiesta l’ha indicata negli stessi giorni l’ex presidente della Comunità ebraica di Milano e oggi deputato del Partito Democratico Emanuele Fiano. «Ora lo Stato ed il Parlamento non possono fermarsi. Ora serve chiarire ogni aspetto di questa vicenda. Serve che se ne occupi l’organo parlamentare chiamato a sorvegliare il funzionamento degli apparati di sicurezza del nostro Paese, che può chiamare a testimoniare chi fu protagonista di quella stagione e che è ancora in vita, e che può chiedere ai vertici del governo la desecretazione di altre carte», ha scritto Fiano in una lettera al quotidiano La Repubblica, appellandosi a una nuova iniziativa del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza che vigila sui servizi segreti.

La lapide che ricorda le vittime dell’attentato del 1982 al Ghetto di Roma

Una parte considerevole dei documenti che potrebbero consentire di far luce sulle trame di quegli anni è in effetti ancora coperta dal segreto di Stato. Tra questi, il vasto archivio delle corrispondenze del colonnello Giovannone, atteso con impazienza dagli storici. Altri ancora sono classificati, oppure ancora solo consultabili ma non divulgabili. E ci sono infine – tra i protagonisti di quella stagione sul fronte politico, diplomatico o d’intelligence – esponenti di peso ancora in vita. Tra questi, in particolare, l’allora ministro degli Interni Virginio Rognoni, oggi 97enne, cui un altro appello pubblico comparso su La Repubblica ha chiesto nelle scorse settimane di rompere il decennale silenzio.

Dopo la rivelazione delle nuove carte, almeno due membri del Copasir hanno chiesto al Dipartimento centrale d’intelligence di liberare l’accesso a nuovi documenti, per consentire al Comitato di svolgere nuove indagini, e al Paese, possibilmente, di conoscere la verità sull’attentato di Roma. Magari prima del suo quarantesimo anniversario, il prossimo 9 ottobre.


Simone Disegni

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La rivista « Gli ebrei, l’Europa, il XXI secolo » è disponibile nella sua interezza in inglese e francese.

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