Shoah e Gaza: le sfide di un revisionismo contemporaneo

L’intellettuale antisionista indiano Pankaj Mishra è appena entrato nel dibattito pubblico francese con la pubblicazione in francese di Monde après Gaza. Per chiarire la sua posizione – secondo cui Israele sarebbe «il presagio di un mondo [occidentale] in bancarotta e allo stremo» e in cui si tenta di rovesciare la memoria della Shoah contro il sionismo – ripubblichiamo un articolo accademico di Dave Rich, apparso nel gennaio 2025[1]. Inserito nei conflitti politici contemporanei, saturi di riferimenti alla Shoah, Mishra diventa per Rich l’occasione per interrogarsi su come il peso morale attribuito al genocidio degli ebrei influenzi in modo sproporzionato le attuali ricomposizioni politiche.

“Never Again is Now” (Mai più è adesso) proiettato sulla Porta di Brandeburgo a Berlino in occasione dell’85° anniversario della Notte dei cristalli. Crediti: @eurojewcong/vis X (precedentemente Twitter)

Nell’ottobre 2024, Novara Media, sito d’informazione britannico di sinistra, pubblica un articolo della scrittrice palestinese Susan Abulhawa, che traccia un quadro straziante delle sofferenze patite dai palestinesi di Gaza sotto i bombardamenti israeliani. Il testo si chiude con questa frase: «Israele sta commettendo l’olocausto dei nostri tempi, sotto gli occhi di un mondo apparentemente indifferente».

Benché l’articolo rientri pienamente nella linea editoriale di Novara Media, non si tratta affatto di un contributo consueto. In realtà, non era nemmeno destinato a quel sito. Abulhawa aveva ricevuto l’incarico dal Guardian, che avrebbe pubblicato il suo testo se un termine – o, più precisamente, una parola: “olocausto” – non ne avesse impedito l’uscita.

Secondo la scrittrice, la redazione del quotidiano britannico avrebbe subordinato l’uscita del pezzo alla soppressione del termine “olocausto”. Nel corso di uno scambio di e-mail, le sarebbe stato proposto di sostituirlo con “genocidio”, suggerimento che lei rifiutò, perdendo così l’incarico.

«Di fronte alla portata dei crimini, all’orrore senza tregua, alla gioia odiosa e al sadismo manifestati dai nostri carnefici – scriveva in un messaggio indirizzato ai redattori del Guardian – l’unica parola che mi sembra restituire la realtà è “olocausto”. […] Mi rifiuto di partecipare a questo gioco mediatico occidentale che consiste nel risparmiare i sentimenti dei nostri carnefici. I nazisti non erano così crudeli».

Sostenere che gli atti compiuti da Israele a Gaza siano più crudeli di quelli perpetrati dai nazisti durante l’Olocausto non è solo un’affermazione discutibile: a forza di essere ripetuta, diventa anche estenuante. Questa retorica rappresenta, in realtà, una forma indiretta di negazione della Shoah e dovrebbe screditare non solo chi la pronuncia, ma anche i media che la rilanciano.

Ciò che colpisce, tuttavia, è l’inflessibilità di Susan Abulhawa nell’uso del termine “Olocausto” per descrivere gli eventi di Gaza. In un’intervista a Novara Media ha dichiarato di considerare “Olocausto” una parola come un’altra, come se il suo rifiuto di sostituirla con un termine diverso fosse una semplice scelta lessicale – ignorando che gli ebrei furono le vittime dell’Olocausto perpetrato dai nazisti e che ora, secondo la sua visione, sarebbero gli autori di un «Olocausto palestinese». Un simile rovesciamento non può che apparire profondamente disonesto.

Se il dibattito riguardasse soltanto la scelta del linguaggio più adatto a descrivere le evidenti sofferenze degli abitanti di Gaza durante il conflitto, esisterebbero molti termini adeguati e incisivi, senza bisogno di evocare lo sterminio degli ebrei d’Europa. Ma “Olocausto” non è una parola qualsiasi: è un concetto politico e morale di portata senza paragoni nell’Occidente del dopoguerra. In fondo, Abulhawa non è che l’ultima oppositrice di Israele a tentare di strumentalizzare la forza simbolica di un termine il cui significato eccede di gran lunga il semplice ambito del linguaggio.

Un contesto politico sovradeterminato dal riferimento all’Olocausto

I dibattiti sull’antisemitismo ruotano spesso, in modo esplicito o implicito, attorno all’Olocausto. Dopo il 7 ottobre, si è avuta a tratti la sensazione che le reazioni all’attacco terroristico compiuto contro Israele da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi fossero inevitabilmente segnate, in un modo o nell’altro, dall’ombra dell’Olocausto. Per gli israeliani e per gli ebrei di tutto il mondo, quegli eventi hanno riaperto ricordi profondamente dolorosi, talvolta traumatici. Per alcuni, si tratta di memorie ancora vive: quasi 2.500 sopravvissuti alla Shoah vivevano nelle comunità del sud di Israele direttamente colpite dall’attacco di Hamas. Per altri, sono ricordi ereditati, collettivi, che continuano a modellare la sensibilità ebraica contemporanea.

Mentre in quel tragico sabato mattina ebrei inermi venivano massacrati in modo atroce e ostaggi trascinati via dalle loro case, è come se l’intero popolo ebraico si fosse ritrovato, in un istante, proiettato nel cuore della prova più terribile della sua storia.

È comprensibile che gli israeliani, così come gli ebrei di tutto il mondo, abbiano reagito in modo viscerale alle immagini e ai racconti provenienti da Israele quel giorno. Un’emozione autentica e spontanea che avrebbe dovuto forse indurre gli storici a sospendere per un momento il bisogno di sottolineare le differenze tra passato e presente. Purtroppo, questa reazione si è talvolta manifestata in forme ostentate e piuttosto brutali: emblematica, in questo senso, la decisione dei membri della delegazione israeliana alle Nazioni Unite di indossare la stella gialla sulle giacche, come gli ebrei sotto il regime nazista, durante un dibattito dell’Assemblea Generale dedicato al conflitto tra Israele e Gaza.

Resta tuttavia difficile negare la potenza simbolica dello slogan «Nie Wieder ist jetzt» [Mai più, è ora], proiettato sulla Porta di Brandeburgo a Berlino in occasione dell’80º anniversario della Notte dei Cristalli, appena cinque settimane dopo il massacro del 7 ottobre. Le commemorazioni di quell’anniversario si sono svolte sotto forti misure di sicurezza: tre settimane prima, una sinagoga berlinese era stata incendiata in un clima di rinnovata violenza antiebraica seguito agli eventi del 7 ottobre. In quel momento, storia e attualità sembravano intrecciarsi – almeno secondo la percezione di molti ebrei.

Il ricorso all’Olocausto come punto di riferimento nei dibattiti su Israele e sull’antisemitismo, già frequente, è diventato ormai inevitabile. Alcuni difensori di Israele hanno però superato un ulteriore limite: oltre a paragonare le atrocità del 7 ottobre alla Shoah, sostengono che Hamas e i suoi alleati sarebbero ancora più antisemiti, più sanguinari e meno trattenuti da scrupoli morali di quanto lo fossero i nazisti. A loro avviso, il fatto stesso che Hamas abbia registrato e diffuso in tempo reale le proprie violenze sulla scena internazionale – mentre i nazisti cercavano di occultare i loro crimini di massa – ne sarebbe la prova. Per questi commentatori, la segretezza delle SS testimonierebbe una sorta di pudore, in contrasto con l’esaltazione ostentata dai combattenti di Hamas[2].

A prima vista, questo ragionamento sembra plausibile: è vero che i nazisti si adoperarono per nascondere i propri crimini, mentre Hamas li ha deliberatamente messi in mostra. Tuttavia, la differenza non risiede in un ipotetico senso di vergogna dei nazisti: l’occultamento era infatti parte integrante del funzionamento stesso del loro apparato di morte. La logistica dello sterminio di sei milioni di ebrei – eseguito con un numero relativamente limitato di SS e di ausiliari locali – si basava sul controllo assoluto delle popolazioni destinate alla deportazione e all’uccisione. Per evitare panico e disordine, che avrebbero potuto compromettere la catena dello sterminio, i nazisti fecero di tutto per rassicurare le loro vittime fino all’ultimo momento. Hamas, al contrario, mirava a produrre il massimo terrore possibile: il 7 ottobre diffuse le immagini dei propri crimini sui canali social, inaugurando una guerra psicologica volta a spaventare l’intera società israeliana.

Affermare che Hamas superi i nazisti in barbarie significa, indirettamente, relativizzare la portata e l’orrore senza precedenti delle atrocità naziste.

I nazisti non provavano più vergogna per i loro omicidi di massa di quanta ne provi oggi Hamas: erano convinti di servire l’umanità. Heinrich Himmler, capo delle SS, lo espresse con chiarezza nel 1943, parlando ai vertici del suo ordine durante una riunione dedicata allo “sradicamento del popolo ebraico” (sic): «È un capitolo glorioso della nostra storia, che non è mai stato scritto e non lo sarà mai… Abbiamo compiuto questo compito difficilissimo per amore del nostro popolo. E non abbiamo subito alcun danno al nostro io interiore, alla nostra anima, al nostro carattere, agendo in questo modo». Nessun segno di vergogna, dunque.

Quanto ai tentativi di distruggere le prove alla fine della guerra – lo smantellamento dei campi di sterminio, le marce della morte per allontanare i sopravvissuti dal fronte – essi derivavano da puro istinto di sopravvivenza, non da rimorso: i nazisti sapevano che le rappresaglie erano inevitabili. La maggior parte dei criminali di guerra nazisti fu impiccata o si tolse la vita senza mostrare il minimo pentimento, convinta di aver combattuto una guerra giusta contro un presunto nemico ebraico.

Non sorprende, dunque, che oggi Hamas neghi di aver deliberatamente assassinato civili il 7 ottobre, nonostante le prove video. Neppure Hamas conosce la vergogna; sa soltanto che ammettere la verità le costerebbe troppo.

Come dimostra il nostro esempio, questo tipo di paragone storico, anche se mosso da un intento apparentemente lodevole – sostenere Israele e condannare l’antisemitismo – finisce sempre per distorcere o sminuire qualche aspetto dell’Olocausto. Affermare che Hamas superi i nazisti in barbarie significa, anche involontariamente, relativizzare la portata e l’orrore senza precedenti delle atrocità naziste, pur senza che tale relativizzazione sia consapevole o esplicitamente dichiarata.

La nazificazione di Israele nel discorso antisionista

Eppure, i paragoni storici falsati o fuorvianti avanzati da alcuni sostenitori di Israele non reggono il confronto con la valanga incessante di distorsioni, abusi di malafede, manipolazioni e ignoranza riguardo all’Olocausto che sono diventati moneta corrente nel discorso anti-israeliano. Ogni manifestazione contro Israele si accompagna ormai a una moltitudine di cartelli che associano Israele alla Germania nazista, i suoi leader a Hitler e Gaza ad Auschwitz. Questa retorica si insinua nei programmi radiofonici, nei talk show televisivi, e l’hashtag #GazaHolocaust continua a diffondersi sul web.

Neppure i musei e gli archivi dedicati alla memoria della Shoah ne restano immuni: nel novembre 2023, l’insegna della Wiener Holocaust Library di Londra è stata imbrattata con la scritta “Gaza”, mentre una manifestazione filopalestinese prevista davanti al Memoriale dell’Olocausto a Washington D.C. è stata annullata a causa delle proteste. Questa retorica pervade anche i vertici della politica palestinese: nel 2022 Mahmoud Abbas ha accusato Israele di aver commesso «cinquanta olocausti» e, l’anno successivo, davanti alle Nazioni Unite, ha paragonato Israele a Joseph Goebbels, il capo della propaganda nazista. Nella sua Carta, Hamas accusa Israele di infliggere ai palestinesi un «trattamento nazista».

È quasi impossibile misurare fino a che punto questa visione si sia radicata, al punto da diventare un dogma indiscutibile nei circoli anti-israeliani. Potrebbe sembrare un fenomeno marginale, se non fosse per la sua incoerenza profonda, che lascia sconcertati[3].

Le motivazioni di tale atteggiamento sono molteplici. Alcune nascono da un intento ingenuamente nobile: l’idea di trasformare lo slogan “Mai più” in un appello universale alla pace e all’umanità. Ma questa è l’eccezione, non la regola. Più spesso, quando l’Olocausto viene evocato per attaccare Israele, le ragioni sono meno onorevoli. Per alcuni, si tratta di stigmatizzare gli ebrei come se non avessero imparato nulla dal proprio sterminio. Altri provano un certo sollievo nel non sentirli più parlare dell’Olocausto, e persino una soddisfazione nell’accusarli di comportarsi oggi come i loro antichi carnefici.

Vi è poi, in certi casi, la volontà – esplicita o implicita – di ridimensionare lo status degli ebrei come vittime storiche, spinti dalla convinzione che i benefici simbolici e politici legati a quella memoria debbano spettare ad altri gruppi ritenuti più meritevoli o legittimati. A tutto ciò si aggiunge il piacere quasi banale di violare un tabù, di compiere un gesto gravemente offensivo sotto la copertura della lotta al razzismo e in nome dei diritti umani.

Paradossalmente, l’unico contesto in cui una persona che si dichiara di sinistra può esibire una svastica senza compromettere la propria immagine “progressista” è proprio una manifestazione contro l’unico Stato ebraico del mondo. Così, alcuni autoproclamati antirazzisti si concedono, per un giorno, il brivido trasgressivo di fingersi simbolicamente nazisti.

Esiste una versione meno enfatica, ma altrettanto diffusa, dell’accusa secondo cui Israele starebbe commettendo un genocidio a Gaza. Questa tesi è ora oggetto di un procedimento formale davanti alla Corte internazionale di giustizia, che dovrà seguire il proprio iter prima di pronunciarsi. I discorsi che parlano di un “genocidio a Gaza” sono emersi pochi giorni dopo l’attacco del 7 ottobre, spesso rilanciati da voci che da anni denunciano un presunto “genocidio lento” dei palestinesi da parte di Israele. Si è avuto l’impressione che il discorso precedesse i fatti, più che trarne ispirazione.

“La Shoah dopo Gaza”: l’esempio di Pankaj Mishra

Dietro questi paragoni con il nazismo e queste accuse di genocidio si intravede un tentativo intellettuale di dimostrare che le colpe di Israele sarebbero tali da privare il popolo ebraico – o almeno gli ebrei identificati con il sionismo – di ogni legittimità morale nel presentarsi come custode della memoria dell’Olocausto. L’esempio più serio e articolato in questo senso si trova forse in un saggio di 7.500 parole pubblicato nel marzo 2024 sulla London Review of Books, scritto dall’autore indiano Pankaj Mishra e intitolato “The Shoah after Gaza”[4].

Basandosi sugli scritti di sopravvissuti alla Shoah come Primo Levi e, soprattutto, Jean Améry, ma anche su quelli di intellettuali israeliani come Boaz Evron e Yeshayahu Leibowitz, Mishra descrive Israele come una nazione prigioniera di una vittimizzazione paranoica e di un’“etica nazionale spietata” che riprodurrebbe gli aspetti più oscuri della storia umana. Secondo lui, Israele avrebbe “trasformato l’uccisione di sei milioni di ebrei in un’intensa preoccupazione nazionale”. Cita Leibowitz, che metteva in guardia contro la «nazificazione» dello Stato ebraico, ed Evron, che denunciava i suoi «atteggiamenti razzisti nazisti». Mishra stesso parla della “liquidazione di Gaza”, un’espressione che richiama direttamente la “liquidazione” nazista dei ghetti ebraici durante l’Olocausto.

Pankaj Mishra

Parallelamente, egli sostiene che dagli anni Sessanta la diaspora ebraica – in particolare, ma non esclusivamente, quella statunitense – abbia consapevolmente accettato la strumentalizzazione della memoria della Shoah, ponendola al servizio non solo del sionismo, ma anche dell’ordine politico occidentale del dopoguerra.

Dopo aver delineato questo quadro, Mishra passa a descrivere la catastrofe che si è abbattuta su Gaza dopo il 7 ottobre, definendola un massacro di violenza inaudita perpetrato dall’esercito israeliano. Seguendo la sua logica, risulta difficile sfuggire alla conclusione che tale tragedia sia il prodotto della psicosi nazionale israeliana, prigioniera di una memoria distorta della Shoah. Secondo Mishra, infatti, è proprio questa “coscienza distorta della Shoah” ad aver condotto al 7 ottobre, poiché “le vittime di Israele, incapaci di sopportare oltre le loro sofferenze, si sono ribellate contro i loro oppressori con inevitabile ferocia”.

Solo Israele incarnerebbe «il presagio di un mondo in bancarotta e allo stremo».

Secondo Mishra, l’attuale conflitto rappresenta una rottura profonda e disastrosa: «Israele sta minando le fondamenta dell’ordine internazionale costruito dopo il 1945», provocando quello che egli definisce «il crollo del mondo libero». Mishra sottolinea che questa guerra ha conseguenze particolari, a differenza di conflitti come quelli che devastano Yemen, Siria o Sudan, che hanno provocato un numero di vittime molto superiore. Ciò sarebbe dovuto al fatto che la Shoah e l’antisemitismo sono diventati riferimenti universali nel diritto internazionale e negli organismi di tutela dei diritti umani creati dopo la Seconda guerra mondiale. Se oggi questo sistema basato sulle regole si indebolisse, le azioni di Israele rischierebbero di arrecare danni più gravi di qualsiasi altra guerra o violazione dei diritti umani.

«Netanyahu e i suoi accoliti compromettono le fondamenta dell’ordine mondiale costruito dopo la rivelazione dei crimini nazisti», scrive Mishra, perché proprio a quella rivelazione l’ordine morale del dopoguerra deve la propria esistenza. La dimensione ebraica di Israele, secondo lui, conferirebbe allo Stato un ruolo particolare, in virtù del suo rapporto singolare con la memoria della Shoah.

Per fare un confronto, Mishra osserva la guerra nello Yemen, che ha già causato circa 380.000 morti e viene condotta da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, sostenuti militarmente e politicamente da un Occidente largamente dipendente dalle loro risorse di petrolio e gas. Pur rappresentando una grave catastrofe umanitaria, secondo Mishra questa guerra non ha scosso l’ordine internazionale in modo comparabile. Allo stesso modo, l’invasione russa dell’Ucraina, pur costituita da una flagrante violazione del principio dell’integrità territoriale degli Stati sovrani, avrebbe “soltanto scosso” le istituzioni internazionali, mentre solo Israele incarnerebbe «il presagio di un mondo in bancarotta e allo stremo».

Jean Améry in salsa antisionista

La sua argomentazione merita di essere esaminata con attenzione. Mishra seleziona alcune testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah per supportare la propria tesi, facendo particolare affidamento sugli scritti di filosofi sopravvissuti alla catastrofe – in particolare Jean Améry – ma utilizzandoli in maniera circoscritta, solo quando concordano con il suo ragionamento. I passaggi di Améry citati da Mishra riguardano in particolare le critiche virulente che il filosofo formulò alla deriva bellicista e sciovinista di Israele durante il suo unico soggiorno nel paese negli anni ’70, nonché il suo profondo sgomento di fronte alle testimonianze relative agli atti di tortura inflitti ai detenuti arabi nelle prigioni israeliane[5].

È vero che Améry non nutrisse alcuna affinità particolare né con la cultura e la società israeliane, né con le tradizioni religiose ebraiche, assenti dalla sua educazione e a lui estranee. Tuttavia, il filosofo riconosceva che Israele rappresentava una necessità imperativa: non solo per garantire la sopravvivenza degli ebrei, ma anche per tutelarne la dignità e l’orgoglio. Mishra trascura questa dimensione essenziale e coerente del pensiero di Améry; non solo si astiene dal considerarla, ma la esclude a priori, senza interrogarsi sul significato della sua affermazione secondo cui è l’antisemitismo a renderlo ebreo – e che essere ebreo, per Améry, significava «schierarsi con Israele quando le cose vanno male».

Améry non ha forse scritto nel 1973 che «chiunque metta in discussione il diritto di Israele ad esistere è troppo stupido per capire che contribuisce a un super-Auschwitz, oppure lo promuove intenzionalmente»?

Améry non era sionista, ma era decisamente anti-antisionista e affermava che «l’antisionismo non è altro che l’attualizzazione dell’odio ancestrale, visibilmente irradicabile e assolutamente irrazionale nei confronti degli ebrei». Non è privo di ironia il fatto che Mishra citi favorevolmente Améry, pur deplorando che Israele e la diaspora ebraica – o, secondo le sue stesse parole, «le organizzazioni ebraiche tristemente famose per aver controllato l’opinione pubblica sul sionismo» – abbiano strumentalizzato la Shoah a vantaggio del progetto sionista, anche se si potrebbe sostenere che lo stesso Améry abbia agito in questo modo in diverse occasioni. Non ha forse scritto nel 1973 che «chiunque metta in discussione il diritto di Israele ad esistere è troppo stupido per capire che contribuisce a un super-Auschwitz, oppure lo promuove intenzionalmente»?

Quattro anni prima, nel 1969, aveva ammesso, in un saggio intitolato L’antisemitismo onorevole, che «ogni amico di sinistra mi dirà che anch’io mi sono schierato nella grande armata di coloro che esercitano un ricatto dell’opinione con sei milioni (o, per quanto mi riguarda, qualcosa come cinque o quattro milioni) di persone assassinate. Questo rischio va corso: è minore dell’altro proposto dagli amici quando invocano il sacrificio di Israele “sionista”».

Mishra respinge queste considerazioni per mobilitare Améry come garante morale delle sue affermazioni. Vale la pena interrogarsi ulteriormente sul motivo per cui il suo articolo si fonda così pesantemente sui sopravvissuti alla Shoah: non per ciò che dicono della loro esperienza sotto il regime nazista, ma per le loro posizioni politiche su Israele, diversi decenni dopo.

David Nirenberg, il cui libro Antijudaïsme resta un riferimento imprescindibile per chiunque voglia comprendere e spiegare l’antisemitismo attraverso i secoli, ha messo in guardia dal fatto che «non possiamo essere certi che la nostra comprensione del mondo non sia essa stessa plasmata da vecchie abitudini di pensiero, comprese quelle che io chiamo antijudaïsme». In quest’ottica, e seguendo questa linea guida, esamineremo il modo in cui il saggio di Mishra fa effettivamente eco ad alcune di queste «vecchie abitudini di pensiero».

Chi può pretendere di trarre legittimità morale dalla Shoah?

Viviamo in un’epoca in cui, in particolare – ma non solo – a sinistra, la figura della vittima è investita di un’autorità morale senza pari. Questo status conferisce a chi lo detiene un’autorità indiscutibile, e i sopravvissuti all’Olocausto rappresentano, per ovvie ragioni, le vittime archetipiche del XX secolo. Avendo attraversato le sofferenze più atroci, essi sono percepiti come portatori di una saggezza tanto più virtuosa. La memoria della Shoah è ormai parte integrante della nostra coscienza nazionale; in questo contesto, i sopravvissuti appaiono non solo come testimoni inconfutabili del male – cosa che indubbiamente sono stati –, ma anche come incarnazioni moderne dell’idea che la sofferenza generi una forma di purificazione morale, conferendo così alla loro testimonianza un’aura quasi sacra.

Va ricordato che questa venerazione della sofferenza non è un’invenzione recente della sinistra politica: affonda le proprie radici nella teologia cristiana e nella figura di Cristo sofferente sulla croce. Il cristianesimo continua così a fornire l’armatura morale del nostro mondo secolarizzato, che oggi si esprime attraverso il linguaggio dei diritti umani più che attraverso l’insegnamento religioso, e in questo modo continua a plasmare il nostro pensiero, anche su figure che nulla hanno a che fare con il cristianesimo.

Nell’universo morale contemporaneo, i sopravvissuti all’Olocausto sono giustamente percepiti come le vittime paradigmatiche del XX secolo. Ma gli ebrei – o almeno la maggioranza di coloro che attribuiscono importanza all’esistenza di Israele – hanno fatto un’altra scelta: riporre la loro fiducia non nella sacra fragilità dello status di vittima, ma nella potenza materiale dello Stato ebraico. Per dirla senza mezzi termini: tenetevi la vostra purezza di vittime; noi preferiamo gli F-35 e i carri armati Merkava.

Agli occhi di gran parte della sinistra, questa preferenza rappresenta una colpa morale, rendendo gli ebrei sionisti un popolo decaduto. Questo costituisce il cuore dell’argomentazione di Mishra: le lezioni che Israele ha tratto dal tentativo nazista di sterminare gli ebrei hanno, paradossalmente, contribuito a minare il ruolo dell’Olocausto come riferimento morale universale. «Il divario che percepiamo tra passato e presente è in realtà il divario dell’autorità morale del mondo dal 1945, quel momento zero in cui la Shoah era stata istituita come evento cardine e misura universale», scrive.

Scegliendo di fondare la propria legittimità sulla forza armata – presentata come una «esigenza di sicurezza totale e permanente santificata dalla Shoah» – piuttosto che sul potere morale derivante dalla sofferenza e dalla vittimizzazione, Israele – e con esso gran parte della diaspora – sembra aver tradito la propria vocazione più alta.

Ma non è tutto. Se Israele – e con esso la maggioranza degli ebrei della diaspora acquisiti al sionismo – ha rinunciato al suo ruolo morale di custode della memoria della Shoah, allora qualcun altro deve assumersi il pesante compito di «redimere [questa] memoria». E chi indica Mishra per svolgere questa nobile missione, assumendosi «la responsabilità morale nei confronti dei deboli e dei perseguitati»? Nientemeno che i manifestanti che ogni settimana invadono le città occidentali per sfilare a favore di Gaza. Sì, avete letto bene: quelle stesse marce in cui si vedono cartelli che paragonano Israele alla Germania nazista, accompagnati da appelli alla scomparsa dello Stato ebraico, in linea con gli obiettivi politici e gli slogan di Hamas, un’organizzazione violentemente antisemita, e che spesso mostrano un sostegno implicito, se non esplicito, al massacro del 7 ottobre; un movimento politico che offre un ambiente favorevole a un antisemitismo aperto e che incontra poca resistenza o disapprovazione. Solo questo movimento e i suoi manifestanti, scrive Mishra, «possono salvare la Shoah […] e universalizzarne nuovamente il significato morale».

Questo è il cuore dell’argomentazione di Mishra: le lezioni che Israele ha tratto dal tentativo nazista di sterminare gli ebrei hanno, paradossalmente, contribuito a minare il ruolo dell’Olocausto come riferimento morale universale.

Si tratta di un’argomentazione che inevitabilmente riecheggia la teologia della sostituzione. L’idea che Israele sia un popolo decaduto, il cui comportamento colpevole delegittima la sua presa sulla memoria della Shoah, trova un evidente parallelo nell’idea, molto più antica, secondo cui gli ebrei, con i loro peccati, avrebbero tradito la loro alleanza con Dio e, come punizione, sarebbero stati sostituiti come popolo eletto da altri popoli ritenuti più degni. L’affermazione di Mishra, che colloca l’eredità morale della Shoah non nella ricerca della sicurezza ebraica, ma nell’aspirazione dei palestinesi alla libertà, si inserisce direttamente in questa tradizione di pensiero.

Inoltre, nell’argomentazione di Mishra secondo cui Israele distruggerebbe egoisticamente l’ordine internazionale costruito inizialmente per prevenire una nuova Shoah, si percepiscono tracce di un vecchio rimprovero ripetuto da generazioni: quello secondo cui gli ebrei privilegerebbero ostinatamente i loro interessi particolari a scapito di un messaggio universale promosso dall’umanità. Questa era l’accusa mossa nel Medioevo contro gli ebrei che rifiutavano la salvezza di Cristo rifiutandosi di convertirsi al cristianesimo. Tale accusa è stata ripresa dai filosofi europei dell’Illuminismo, che non capivano perché gli ebrei si aggrappassero alle loro antiche superstizioni invece di abbandonarle per abbracciare il nuovo razionalismo moderno. Nel XX secolo, alcuni membri della sinistra hanno espresso una critica simile, frustrati dal fatto che così tanti ebrei avessero scelto il nazionalismo piuttosto che il socialismo come mezzo per garantire la loro sicurezza e libertà.

Il denominatore comune di questi riferimenti storici, in particolare nel periodo post-Olocausto e sionista dell’esistenza ebraica, è il rifiuto categorico da parte del sionismo della virtù della vittimizzazione. Questa profonda dissonanza morale è alla base di gran parte dell’incomprensione reciproca che caratterizza l’attuale dibattito su Israele e Palestina. Si osservano spesso persone non ebree identificarsi, o identificare la loro causa, con la figura di Anna Frank, spesso rappresentata in modo immediatamente riconoscibile, con indosso una kefiah palestinese. Tuttavia, gli ebrei, che condividono il tragico destino di Anna Frank, considerano la sua storia come un appello a non rivivere mai più un simile destino. Anne Frank incarna la sacra innocenza della sofferenza, forse più di qualsiasi altra figura del XX secolo. Tuttavia, se gli ebrei onorano la sua memoria, la lezione che ne traggono è meno quella di perpetuare un’identità di vittima che quella di sfuggire a un destino simile.

Il sionismo, nella sua essenza, rifiuta la virtù della vittimizzazione a favore di una sopravvivenza assicurata dalla forza, il che costituisce un affronto alla morale di sinistra, così come lo è stato in passato al pensiero cristiano. L’arte di strada e i meme online anti-israeliani spesso rappresentano Anne Frank come una palestinese. Quanto alla sua statua ad Amsterdam, è stata vandalizzata da manifestanti antisionisti: le mani sono state ricoperte di vernice rossa, che evoca il sangue, come se quella povera ragazza – che non aveva chiesto nulla – fosse retrospettivamente responsabile della morte dei palestinesi.

Questo doppio sguardo su Anne Frank, che la mostra alternativamente come vittima del genocidio e carnefice simbolico, suggerisce che se fosse sopravvissuta alla Shoah e avesse trovato rifugio in Israele insieme a tanti altri sopravvissuti, avrebbe subito una trasformazione morale, passando dal ruolo di vittima esemplare a quello di oppressore emblematico. Questa immagine metaforica illustra perfettamente i paradossi irrisolvibili che la sinistra anti-israeliana proietta sul sionismo, sull’Olocausto, su Israele e sulla storia ebraica contemporanea.

Rilettura della storia e politica anticolonialista

Questa riscrittura della storia non riguarda soltanto Israele o il popolo ebraico, né si limita a modificare la nostra comprensione del passato. Il suo scopo principale è usare la storia come leva per plasmare il futuro. In particolare, mira ad allineare l’interpretazione dell’Olocausto all’anticolonialismo, divenuto il fulcro della politica progressista e antirazzista della generazione attuale.

Mishra si spinge oltre questi due ambiti, descrivendo il nazismo come il «gemello radicale dell’imperialismo» e ponendo Auschwitz e Hiroshima come simboli paralleli delle atrocità compiute dall’Occidente. Secondo lui, «esiste un legame evidente tra il massacro imperialista delle popolazioni indigene nelle colonie e i terrori genocidari perpetrati contro gli ebrei in Europa». Mentre il mondo commemora ossessivamente la Shoah, «i numerosi olocausti verificatisi alla fine dell’epoca vittoriana in Asia e in Africa» restano quasi del tutto oscurati.

È vero che esistono connessioni storiche tra l’Olocausto e le violenze genocidarie tedesche in Namibia, precedenti alla Prima guerra mondiale. Ma l’argomentazione di Mishra va ben oltre questo nesso specifico. Egli la inserisce in una riflessione più ampia, che interpreta la Shoah attraverso il prisma della conquista coloniale e dello sterminio delle popolazioni indigene da parte delle potenze imperialiste occidentali nel loro complesso.

L’idea che l’Olocausto sia meglio comprensibile come una manifestazione del colonialismo europeo rivolto al proprio continente, anziché come un fenomeno esportato oltreoceano, è diffusa in certa parte del pensiero di sinistra. Tuttavia, questa teoria tende a sminuire il ruolo centrale dell’antisemitismo nell’ideologia nazista, riducendo la persecuzione degli ebrei a una forma accidentale di pulizia etnica, simile a quella subita dagli slavi o da altri popoli ritenuti inferiori.

Un’interpretazione di questo tipo lascia però aperte vistose lacune. Il progetto nazista di eliminare le cosiddette razze inferiori nei territori orientali non spiega perché gli ebrei di Parigi, Amsterdam o Salonicco siano stati deportati per centinaia di chilometri verso quei luoghi per essere poi sterminati, né perché fosse necessario cancellare completamente le comunità ebraiche di Francia, dei Paesi Bassi o della Grecia.

Considerare la Shoah come una semplice emanazione del colonialismo europeo risulta dunque riduttivo e impreciso, insufficiente a fornire un’analisi storica convincente. Resta il fatto che questa interpretazione risponde a obiettivi politici — oggi più evidenti che mai — e non a un’autentica esigenza di comprensione storica.

Per la sinistra anti-israeliana, l’Olocausto e lo Stato ebraico nato dalle sue ceneri rappresentano due creazioni gemelle del peccato originale del colonialismo occidentale.

Lo spirito anticolonialista contemporaneo ha dato nuovo vigore a questa particolare forma di relativizzazione dell’Olocausto da parte della sinistra antisionista. Dopo il 7 ottobre, il discorso del movimento anti-israeliano insiste più che mai sulla necessità di tornare al 1948 per mettere in discussione la nascita di Israele in nome della decolonizzazione. All’interno di questo fronte è ormai quasi unanimemente accettata l’idea che Israele non sia altro che un residuo del colonialismo europeo, uno Stato coloniale privo di legittimità intrinseca o di autenticità indigena, paragonabile — in questa lettura — all’Algeria francese o alla Rhodesia britannica.

Una simile affermazione comporta una distorsione profonda, se non una vera e propria negazione, della storia ebraica antica e della cultura ebraica moderna, elementi che di per sé dovrebbero smentire tale argomentazione. Tuttavia, nella strategia della sinistra anti-israeliana è funzionale considerare l’Olocausto e lo Stato ebraico come esiti paralleli del colonialismo occidentale: due manifestazioni, in fondo, dello stesso peccato originale. In questa prospettiva, sia la lotta per l’eradicazione di Israele sia la commemorazione della Shoah verrebbero presentate come espressioni complementari del medesimo ideale: costruire un mondo libero da razzismo, colonialismo e genocidio.

Nel momento in cui l’Occidente si confronta con le eredità — spesso conflittuali — della Shoah e dell’Impero, questo approccio appare come un tentativo di conciliare due memorie fondatrici, entrambe cruciali per l’identità delle società pluraliste e multiculturali contemporanee. Eppure, il compromesso ha un costo rilevante per Israele e per i suoi sostenitori nella diaspora ebraica, che si ritrovano al centro delle fratture aperte da narrazioni storiche inconciliabili.

Se la Shoah costituisce il fondamento morale dell’ordine mondiale del dopoguerra e il sionismo rappresenta il movimento nazionale legittimo delle sue principali vittime, allora la garanzia dell’esistenza di Israele appare come un dovere fondamentale verso il futuro del popolo ebraico. Ma se la decolonizzazione prende il posto della Shoah come evento fondatore dell’ordine mondiale, e Israele viene ridefinito come Stato colonialista mentre il sionismo è assimilato a una forma di razzismo, allora l’esistenza stessa di Israele, nella sua configurazione attuale, diventa problematica e perfino insostenibile.

L’argomento secondo cui la Shoah sarebbe una manifestazione del colonialismo europeo tenta di unificare queste due visioni, ma lo fa al prezzo di una distorsione inaccettabile dei fatti storici, guidata più da considerazioni ideologiche e politiche che da una reale ricerca di verità.

Un revisionismo d’atmosfera: il caso Churchill

Questa rivalutazione della memoria storica si colloca in un contesto in cui la storia della Seconda guerra mondiale è oggetto di contestazioni tanto da destra quanto da sinistra. Un esempio emblematico della convergenza tra queste due correnti revisioniste è rappresentato dalla loro comune rilettura della figura di Winston Churchill, personaggio simbolico che incarna al tempo stesso il mito e la realtà della resistenza occidentale di fronte all’aggressione nazista.

È ormai nota la rilettura proposta da una parte della sinistra, che non vede più in Churchill il salvatore della democrazia, ma un attore razzista e imperialista. Va tuttavia segnalata anche l’esistenza di una corrente parallela a destra, che talvolta attinge alle stesse fonti. A settembre, Tucker Carlson ha trasmesso una lunga intervista a Darryl Cooper, podcaster e blogger presentato come “il miglior e più onesto storico popolare” degli Stati Uniti[6]. Nel corso della conversazione — che al momento della stesura di questo testo aveva già superato i 35 milioni di visualizzazioni — Cooper sostiene che Winston Churchill sarebbe «il grande cattivo della Seconda guerra mondiale», poiché avrebbe «la responsabilità principale per la piega che prese il conflitto»[7]. Secondo lui, «il leader più determinato a scatenare questa guerra» non sarebbe stato Hitler, ma proprio Churchill.

Una simile affermazione, che identifica in Churchill il principale responsabile della guerra, comporta una relativizzazione implicita del ruolo di Hitler. Essa si inserisce in una tradizione consolidata nella destra paleoconservatrice americana, dove figure come Joseph Sobran hanno descritto Churchill come un antieroe, rimproverandogli la sua preferenza per Stalin piuttosto che per Hitler. Inoltre, Cooper è stato accusato di negazionismo, poiché nella stessa intervista ha sostenuto che i milioni di morti nei campi nazisti dopo l’invasione dell’Unione Sovietica sarebbero stati il risultato di “errori logistici” e non di un piano genocidario.

Questo caso mostra in che modo il negazionismo possa insinuarsi nei dibattiti pubblici contemporanei sulla Seconda guerra mondiale, soprattutto quando non viene più esplicitamente rivendicato in forma neonazista.

Il giorno successivo alla diffusione dell’intervista, si è scatenata una tempesta di critiche contro Cooper e Carlson, spingendo il primo a pubblicare su X un lungo thread per giustificare le proprie posizioni. Colpisce, in quel testo, il ricorso a una citazione frequentemente ripresa ma sistematicamente estrapolata dal contesto: una frase risalente agli anni Venti, in cui Churchill raccomandava «l’uso di gas tossici contro le tribù non civilizzate» in Iraq[8]. Tale citazione viene spesso utilizzata dai detrattori di sinistra per accusarlo di aver invocato il genocidio delle popolazioni indigene mediante gas; in questo caso, tuttavia, è stata strumentalizzata da un esponente della destra.

In realtà, Churchill si riferiva all’impiego di gas lacrimogeni non letali per disperdere le rivolte, ritenendolo un metodo meno cruento rispetto ad altre armi. Al di là della critica più generale — e spesso fondata — alle sue idee imperialiste e talvolta razziste, resta significativo il fatto che destra e sinistra convergano nell’utilizzo della stessa fonte per screditare la figura di Churchill.

La domanda che sorge, dunque, è inevitabile: perché schieramenti politici così opposti condividono oggi l’interesse di demolire la figura più emblematica della resistenza democratica al totalitarismo nel XX secolo?

Gli ebrei coinvolti nella tempesta dell’Occidente

La risposta, come osserva giustamente Pankaj Mishra, risiede nel fatto che le norme e le istituzioni internazionali nate dalla Seconda guerra mondiale – molte delle quali concepite in risposta all’Olocausto – sono oggi sottoposte a una forte pressione, insieme ai valori democratici liberali a esse strettamente legati. Le crisi sono molteplici: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, l’ascesa della Cina, il declino dell’Europa occidentale e l’indebolimento della potenza americana.

Mishra pone al vertice di questo elenco la guerra condotta da Israele a Gaza, con tutte le sue implicazioni regionali, anche se il conflitto tra lo Stato ebraico e i suoi vicini non è nuovo e potrebbe apparire, a prima vista, un elemento meno decisivo per spiegare l’attuale mutamento dell’ordine mondiale. Se queste norme e istituzioni dovessero crollare, si aprirebbe una competizione accesa per sostituirle. In realtà, con l’ascesa globale del populismo e dell’autoritarismo, si potrebbe dire che questa competizione sia già in corso.

La battaglia per il controllo della memoria e dell’eredità della Shoah è percepita come una sfida chiave nella definizione del futuro ordine mondiale.

È in questo complesso scenario geopolitico che assumono pieno significato i tentativi di sottrarre a Israele – e, per estensione, al popolo ebraico – l’eredità morale e simbolica dell’Olocausto. Il mondo sta attraversando una fase di profondi sconvolgimenti politici, segnati da tensioni che riguardano non solo la sfera economica e militare, ma anche e soprattutto le narrazioni.

L’idea secondo cui le vere vittime morali e politiche (se non materiali) dell’Olocausto sarebbero oggi i palestinesi non rappresenta soltanto una critica al sionismo, ma anche una contestazione più ampia dell’egemonia politica dell’Occidente. La battaglia per il controllo della memoria e dell’eredità della Shoah è dunque vista come un terreno decisivo nella costruzione del nuovo ordine mondiale.

Per quanto tale prospettiva possa sembrare ambiziosa, se non discutibile, essa ricorda tuttavia come il popolo ebraico sia spesso oggetto di strumentalizzazione, a cui viene attribuito un ruolo sproporzionato – e talvolta improprio – nei processi attraverso cui altri popoli definiscono la propria identità storica e la propria collocazione nel mondo. Da questo punto di vista, come in molti altri, la Shoah non fa eccezione.

L’Olocausto incarna un paradosso profondo: da un lato grava sulla nostra coscienza morale con tale peso da imporci di trarne insegnamento; dall’altro, la sua natura unica rende ogni paragone potenzialmente fuorviante. L’imperativo categorico formulato da Theodor Adorno ci esorta a «pensare e agire in modo che Auschwitz non si ripeta mai più, affinché nulla di simile accada».

Questa esigenza di responsabilità storica e morale non deve mai essere intesa come una licenza per distorcere o strumentalizzare la Shoah in funzione di agende politiche contemporanee. Tuttavia, di fronte alla vastità della posta in gioco, il dovere di vigilanza evocato da Adorno rischia di apparire, oggi, come una speranza fragile e forse ingenua.


David Rich

Dave Rich è autore di Everyday Hate: How Antisemitism Is Built Into Our World and How You Can Change It (Biteback, 2024) e di The Left’s Jewish Problem: Jeremy Corbyn, Israel and Antisemitism (Biteback, 2018). Ricopre il ruolo di direttore strategico presso il Community Security Trust, un’organizzazione senza scopo di lucro dedicata alla protezione della comunità ebraica del Regno Unito dall’antisemitismo, dal terrorismo e dall’estremismo. Ricercatore affiliato al London Centre for the Study of Contemporary Antisemitism, fa anche parte del comitato editoriale del Journal of Contemporary Antisemitism. I suoi lavori accademici riguardano i crimini d’odio, le teorie del complotto, la strumentalizzazione della memoria della Shoah, le campagne di boicottaggio contro Israele, l’antisemitismo nei campus universitari e la mobilitazione a favore degli ebrei sovietici. Dave Rich pubblica regolarmente le sue riflessioni sull’antisemitismo e su tematiche correlate sul suo blog: everydayhate.substack.com

Notes

1 Rich, Dave. 2025. “Shoah Revisionism After Gaza.” ISCA Research Paper 2025-1.
2 Vedi, per esempio, Andrew Roberts, “What Makes Hamas Worse Than the Nazis”, Washington Free Beacon, 24 novembre 2023.
3 Philip Oltermann, “Uproar after Mahmoud Abbas in Berlin accuses Israel of 50 Holocausts’’, The Guardian, 17 agosto 2022.
4 Pankaj Mishra, “The Shoah After Gaza”, London Review of Books, vol. 46, N°6, 21 marzo 2024. Tutte le altre citazioni dell’autore sono prese da questa stessa fonte.
5 Améry, che per un po’ ha fatto parte della resistenza belga, è stato torturato dalla Gestapo prima di essere deportato ad Auschwitz. Il suo impegno contro il regime nazista in Belgio si limitò alla redazione e alla diffusione di volantini clandestini, il che contrasta profondamente con gli omicidi, gli stupri e i rapimenti che hanno caratterizzato la cosiddetta «resistenza» di Hamas contro Israele il 7 ottobre.
6 https://x.com/TuckerCarlson/status/1830652074746409246
7 https://x.com/martyrmade/status/1831069832676008098
8 https://x.com/martyrmade/status/1831070959559925993