Keith Kahn-Harris, autore di Everyday Jews: Why the Jewish people are not who you think they are, mette in discussione, con un pizzico di provocazione, la strana e alienante tendenza ebraica di volersi rendere indispensabili al mondo. E se la risposta più bella all’antisemitismo fosse in fin dei conti arrogarsi il diritto alla frivolezza, concedersi un’esistenza perfettamente superflua?

Anche per me, nato all’inizio degli anni Settanta, c’è stato un periodo degli anni Ottanta in cui “sentivo le mie gambe pregare”.
Sarei dovuto arrivare fino all’età adulta per scoprire la famosa frase pronunciata dal rabbino Abraham Joshua Heschel dopo aver partecipato alla marcia per i diritti civili con Martin Luther King, a Selma nel 1965. E comunque a me pareva che partecipare alle marce di protesta contro le armi nucleari insieme a un gruppo ebraico fosse istintivamente giusto. Mi sembrava qualcosa che gli ebrei come me dovessero fare in quanto ebrei.
Forse ero una specie di precoce sostenitore dell’“azione sociale” ebraica. Anche se durante l’adolescenza sono poi diventato più cinico, ho mantenuto la convinzione che gli ebrei dovrebbero contare, che dovremmo rendere significativa la nostra presenza nel mondo, che dovremmo cercare di rendere la terra un posto migliore. E che, anche al di là della giustizia sociale, gli ebrei dovrebbero dare un contributo distintivo al progetto umano.
Fino a poco tempo fa la mettevo così: gli ebrei dovrebbero aspirare a essere qualcosa più del “gruppo etnico-religioso 27b”; non solo un altro popolo intercambiabile, distinguibile solo da alcuni dettagli superficiali. Se siamo intercambiabili con altri siamo semplicemente inutili.
Anche se la mia formulazione poteva essere idiosincratica, non ero certo l’unico a ritenere che gli ebrei avessero l’obbligo esistenziale di evitare il destino che li avrebbe fatti diventare il gruppo etnico-religioso 27b. Nella mia famiglia mia nonna paterna potrebbe benissimo averla pensata così: era una dei tanti giovani ebrei dell’East End di Londra che, nel periodo prebellico, si erano uniti al partito comunista e aveva creduto in quella promessa, nella speranza di un mondo trasformato. Non era sufficiente esistere al mondo in quanto ebrei, si aveva il dovere di allearsi con altri popoli e di andare a cambiarlo.
Sono sempre stato convinto che gli ebrei dovrebbero contare, che dovremmo rendere significativa la nostra presenza nel mondo, che dovremmo cercare di rendere la terra un posto migliore.
Oggi sappiamo che il comunismo di stampo sovietico alla fine ha portato solo alla dissoluzione forzata dell’identità ebraica (e mia nonna, come molti altri ebrei, ha lasciato il partito a un certo punto, durante la guerra). Sappiamo anche che altri movimenti politici non necessariamente detengono il segreto che può garantire la continuità ebraica a tempo indeterminato: il Bund fu spazzato via durante la Shoah e pochi, nell’immediato dopoguerra, vi annettevano una grande speranza; il liberalismo ebraico e l’integrazione ebbero un successo spettacolare negli Stati Uniti e in alcuni altri paesi nel dopoguerra, ma funzionarono fin “troppo bene” e diedero pochi incentivi a rimanere coinvolti nella vita comunitaria ebraica; anche il sionismo sembrava garantire trionfalmente la sicurezza degli ebrei nel mondo, ma non ha mai risolto le divisioni su cosa dovrebbe essere un ebreo.
Quella che non è cambiata, indipendentemente dall’orientamento politico, è stata la sensazione che il coinvolgimento politico degli ebrei nel mondo sia in qualche modo un dovere.
Il teorico politico Ilan Baron, nella sua opera del 2015 intitolata Obligation in Exile. The Jewish Diaspora, Israel and Critique, pubblicata dalla Edinburgh University Press, sostiene che oggi il rapporto degli ebrei della Diaspora con Israele è caratterizzato da un senso di “obbligo politico transnazionale”, definito tanto dall’esigenza di impegnarsi con Israele quanto dal contenuto effettivo di tale impegno. In altre parole, indipendentemente da ciò che gli ebrei della Diaspora pensano di Israele, devono fare di più che pensare a Israele. Mi chiedo però se questo tipo di obbligo sia solo una parte di un senso molto più ampio di obbligo ebraico: fare qualcosa di più che semplicemente esistere nel mondo. L’obbligo di impegnarsi nel mondo è, in parte, un obbligo verso noi stessi, un lottare per la nostra stessa esistenza. Nel corso del tempo questo tipo di obbligo può espandersi fino a comprendere tutti e tutto; un movimento dall’obbligo alla necessità: gli ebrei diventano obbligati a impegnarsi nel mondo perché in qualche modo siamo necessarial mondo.
*
Scritto nel pieno della ansia ebraica crescente dopo il 7 ottobre, il tanto discusso saggio di Franklin Foer The Golden Age of American Jews Is Ending (ossia: L’età dell’oro degli ebrei americani sta finendo), pubblicato su The Atlantic nel marzo 2024, rifletteva la diffusa preoccupazione che il mondo ci stesse trattando ancora una volta come sacrificabili. Foer ha scritto della straordinaria importanza della cultura ebraica nell’America del dopoguerra, un “periodo d’oro” indissolubilmente legato all’apparente trionfo del liberalismo americano. La recente erosione di quel liberalismo ha significato anche l’erosione di quella straordinaria fioritura della cultura ebraica: “Le forze schierate contro gli ebrei, sia a destra che a sinistra, sono molto più potenti di quanto non fossero cinquant’anni fa. L’ondata di antisemitismo è un sintomo del decadimento delle abitudini democratiche, un indicatore importante dell’ascesa dell’autoritarismo. Quando l’antisemitismo prende piede, le teorie del complotto si cristallizzano in opinioni correnti, radicando la violenza nel pensiero e poi in azioni mortali. Una società che tiene gli ebrei a distanza è probabilmente più intenzionata a dare la caccia a un capro espiatorio che ad affrontare i propri difetti. Sebbene non sia una legge ferrea della storia, simili società sono inclini al declino. Per l’Inghilterra iniziò un lungo periodo buio dopo l’espulsione degli ebrei del 1290. La Russia zarista arrancò verso la rivoluzione dopo i pogrom degli anni Ottanta del XIX secolo. Se l’America persistesse sulla sua strada attuale sarebbe la fine dell’età dell’oro, non solo per gli ebrei, ma anche per il Paese che li ha”.
Questo tipo di argomentazione, che individua la prosperità degli ebrei come necessaria per il mantenimento di un’intera civiltà, non è limitato all’America. Nel 2016 in un discorso al Parlamento europeo Sir Jonathan Sacks, defunto rabbino capo del Regno Unito, ha affermato: “L’odio che inizia con gli ebrei non finisce mai con gli ebrei. Commettiamo un grave errore se pensiamo che l’antisemitismo sia una minaccia solo per gli ebrei. È una minaccia, innanzi tutto, per l’Europa e per le libertà che abbiamo impiegato secoli a conquistare”.
La Strategia dell’Unione europea per combattere l’antisemitismo e promuovere la vita ebraica (2021-2030) ha ripreso la citazione di Sacks e ha proseguito sostenendo: “L’antisemitismo è incompatibile con i valori fondanti dell’Europa. Rappresenta una minaccia non solo per le comunità ebraiche e la vita ebraica, ma anche per una società che vuole essere aperta e diversificata, per la democrazia e per lo stile di vita europeo. L’Unione europea è determinata a porvi fine”[1].
Sebbene si possa sostenere che considerare gli ebrei come un barometro della salute della democrazia liberale rappresenti una straordinaria rivendicazione dell’importanza ebraica, ciò attribuisce agli ebrei una responsabilità straordinaria, persino un fardello. Non possiamo accontentarci di stare al mondo, semplicemente, dobbiamo essere in prima linea nel cambiarlo in meglio. È qui che il conservatorismo ebraico contemporaneo, il radicalismo antisionista e le varie sfumature del sionismo si incontrano: il quietismo parrocchiale non è un’opzione. Anche gli ebrei haredi, che sembrano estremamente quietisti, sono comunque legati alle speranze messianiche per la redenzione del mondo.
I diversi ebraismi sono praticamente concordi su una cosa: il mondo ha bisogno di noi. Non si tratta solo di una forma di autorassicurazione ebraica, è anche un obbligo urgente: dobbiamo agire nel mondo in modo da diventare indispensabili.

La convinzione che gli ebrei debbano cercare l’indispensabilità può essere allo stesso tempo universalista – una preoccupazione per il mondo – e particolarista – una preoccupazione per gli ebrei. E in quanto tale può essere ironica, una forma quasi di sciovinismo mascherato da preoccupazione per il mondo. Nel suo recente libro Being Jewish After the Destruction of Gaza[2], Peter Beinart sostiene che la trasformazione del popolo ebraico non si basa solo sul rifiuto del sionismo ma sull’accettazione del ruolo storico unico degli ebrei: “Parlando dei discendenti di Abramo nel libro della Genesi, Dio dice: ‘In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra’. Forse è questo che significa per il popolo ebraico benedire l’umanità nel nostro tempo. Significa liberarci dalla supremazia in modo da poter aiutare a liberare il mondo, insieme ai palestinesi”.
Allo stesso modo, anche le forme più radicalmente universaliste di azione sociale ebraica contengono spesso il presupposto, nascosto o non così nascosto, che gli ebrei sono essenziali per il mondo. Prendiamo ad esempio Jewish Voice for Peace, il movimento statunitense noto per il suo antisionismo, che proclama: “Come le generazioni di ebrei di sinistra che ci hanno preceduto, lottiamo per la liberazione di tutti i popoli. Crediamo che organizzandoci possiamo smantellare le istituzioni e le strutture che sostengono l’ingiustizia e costruire al loro posto qualcosa di nuovo, gioioso, bello e vitale…”.
Non c’è modo di evitarlo: il fatto stesso di organizzarsi in quanto ebrei e proclamarsi eredi di una tradizione ebraica introduce un particolarismo implicito nella lotta universalista per l’umanità di Jewish Voice for Peace. Eppure, mentre i critici deridono questi gruppi accusandoli di cercare semplicemente l’approvazione degli attivisti non ebrei, non c’è forse anche un terribile fardello nell’accettare questa tradizione?
Tzelem, una coalizione britannica di rabbini che mira a “organizzare le voci del clero ebraico sulle questioni di giustizia sociale ed economica nel Regno Unito”, prende il nome dal “principio ebraico secondo cui siamo tutti creati b’tzelem Elokim – a immagine di Dio [sic]”. Tra i suoi principi c’è il seguente: “Rispondiamo al comando divino di creare una società civile nel Regno Unito che esemplifichi le nostre credenze e i nostri valori come ebrei come richiesto dalle mitzvot, dai nostri profeti, dai nostri rabbini e maestri e dai nostri testi. La nostra Torah ci impone di impegnarci e di preoccuparci della società in generale e delle questioni di giustizia che riguardano i più vulnerabili nella nostra società”.
L’uso del termine “impone” è sorprendente in questo contesto. Lottare per la giustizia sociale nel Regno Unito non è solo una “aggiunta” ebraica, è un comandamento che gli ebrei non possono eludere; è parte del fardello che abbiamo accettato al Sinai (in senso metaforico o letterale, a seconda dei gusti).
Non sorprende che gli ebrei possano volersi rendere indispensabili. Nel corso della nostra storia abbiamo visto cosa significa essere trattati come superflui, usa e getta, inutili. Siamo stati costretti a dimostrare il contrario, a trovare nicchie e professioni troppo utili perché fosse possibile farne a meno.
Ciò che la storia della politica ebraica dopo il 1945 ci mostra è che l’abitudine di garantirci di essere necessari è difficile da eliminare, in tutto lo spettro politico. Proprio come la politica ebraica progressista introduce una tendenza particolarista nel suo universalismo, così i movimenti apparentemente particolaristi si costruiscono come essenziali sia per gli ebrei che per i non ebrei. È, ad esempio, un luogo comune nella hasbara[3] sottolineare le conquiste tecnologiche e mediche di cui Israele è responsabile.
I diversi ebraismi sono praticamente concordi su una cosa: il mondo ha bisogno di noi. Non si tratta solo di una forma di autorassicurazione ebraica, è anche un obbligo urgente: dobbiamo agire nel mondo in modo da diventare indispensabili
Forse, nonostante la nostra diversità politica scismatica, la mente collettiva ebraica ha sempre collaborato a un enorme esercizio di copertura: esistono forme di politica ebraica che attraggono gran parte dello spettro politico. Abbiamo dato a una fetta di umanità senza precedenti buoni motivi per limitare il proprio antisemitismo solo ad alcuni di noi.
*
Viviamo davvero in un mondo in cui gli ebrei sono necessari? E se siamo necessari, dovremmo volerlo essere?
Sebbene possa sembrare banale, è necessario sottolineare che possiamo spingerci solo fino a un certo punto. Non siamo molti, a livello globale, e ci sono vaste aree del mondo in cui non abbiamo alcuna piattaforma o influenza. Non riconoscerlo significherebbe alimentare i miti antisemiti sugli ebrei che controllano il mondo.
In ogni caso, anche se siamo davvero necessari solo in alcuni luoghi e in alcuni momenti, dobbiamo riconoscere che questo senso di obbligo – da parte nostra verso il mondo e dal mondo verso di noi – può avere conseguenze indesiderate. L’obbligo può intrappolarci in una rete di impegni che alla fine riducono l’influenza ebraica.
Non è che l’obbligo non sia profondamente radicato nell’ebraismo: dal culto del Tempio alla rete della Diaspora, dalle regole del sacrificio al mare della halakhah, agli ebrei è sempre stato richiesto di fare alcune cose e di non farne altre. La questione è se gli obblighi politici contemporanei degli ebrei nei confronti del mondo siano essenzialmente diversi da altri tipi di obblighi ebraici. Certamente la legittimazione delle forme contemporanee di azione sociale e politica ebraica dipende spesso dall’insistenza che esse esprimano l’essenza della tradizione ebraica; ad esempio, nel mondo ebraico progressista (cioè riformista e liberale), l’uso di concetti come tikkun olam[4] e di ingiunzioni bibliche come quella di non “opprimere lo straniero” è onnipresente.
Si può certamente affermare che gli interventi sociali e politici ebraici contemporanei hanno una sorta di imminenza materiale che è e che era presente nell’adempimento di altri tipi di obblighi halachici, in particolare nei periodi in cui gli ebrei erano un popolo emarginato con un’influenza politica trascurabile. Le ricompense e le punizioni per l’adempimento o l’inadempienza degli obblighi halachici sono, in tali circostanze, visibili solo nell’ambito più vicino e anche in questo caso in modo appena percettibile. Basti pensare all’ansia generata dall’incertezza sul fatto che il rispetto delle decime del Tempio possa garantire un raccolto abbondante. In modo analogo, gli obblighi che oggi l’ebraismo impone a favore del miglioramento del mondo si fondano su una logica simile a quella dei riti antichi: sono gesti concreti, visibili, udibili, persino tangibili nei loro effetti; il loro esito, positivo o negativo, può essere valutato; si può osservare se gli altri membri della comunità abbiano assolto i propri doveri e, se necessario, richiamarli quando mancano a tali responsabilità.”
Ho amici attivisti in tutto lo spettro politico ebraico e una cosa che mi ha colpito nel periodo successivo al 7 ottobre (e talvolta anche prima) è stata l’intensità dell’impegno in azioni politiche di grande visibilità e l’intensità dei rimproveri rivolti ai compagni ebrei che non vi partecipano. Che si tratti di veglie per gli ostaggi o della partecipazione al “blocco ebraico” nelle manifestazioni filopalestinesi, la ripetizione costante (settimanale e talvolta anche più frequente) è parte integrante del messaggio. Non sto sostenendo che questo tipo di attivismo sia necessariamente inefficace e semplicemente un rituale vuoto. Piuttosto, è l’impegno nella “routine” che mi colpisce. Si tratta di un lavoro, estenuante e implacabile come la parola stessa implica. È solo attraverso questo lavoro che gli ebrei possono adempiere ai loro obblighi e produrre i risultati che desiderano vedere nel mondo.
Gli ebrei prendono il loro posto nella complessa costellazione di organizzazioni che cercano di cambiare il mondo a proprio favore.
Il duro lavoro dell’impegno politico ebraico ci riporta ai nostri antichi antenati, le cui vite erano incatenate al ciclo incessante della semina e del raccolto; essi cercavano, attraverso la corretta esecuzione dei rituali, di esercitare una sorta di controllo su quel ciclo. L’ebraismo, così come esisteva allora, forniva una logica brutale di ricompensa e punizione a questa esistenza vulnerabile: attraverso i rituali del Tempio, gli ebrei cercavano il fine materiale di un’esistenza nell’abbondanza.
Il mondo moderno non ha inventato la logica dei mezzi e dei fini, ma ne ha ampliato le possibilità. È così che l’azione politica ebraica può essere monitorata, valutata e mirata, adattata per ottenere il massimo impatto. Intere burocrazie – l’AIPAC, l’ADL e molte altre – cercano di raggiungere obiettivi complessi riferendo i loro risultati ai finanziatori e alle fondazioni. Piccole iniziative di base crescono fino a diventare sistemi sofisticati in un batter d’occhio. Gli ebrei prendono il loro posto nella complessa costellazione di organizzazioni che cercano di cambiare il mondo a proprio favore.
Se tali sforzi organizzativi sono diventati centrali nei progetti ebraici per cambiare il mondo, lo stesso vale per il lavoro necessario a sostenerli. Che ne è allora delle altre dimensioni della vita ebraica?
I sociologi e i filosofi del XIX e XX secolo hanno cercato di evidenziare le conseguenze della burocratizzazione e dell’estensione della logica dei mezzi e dei fini a sempre più ambiti della vita. E alcuni di loro erano ebrei. Marx, Durkheim, Adorno, Habermas e altri ancora hanno cercato, ciascuno a modo proprio, di evidenziare come la modernità sia dominata da sistemi impersonali il cui bisogno di sostentamento costante ci intrappola nella loro morsa alienante. La logica “strumentale” trasforma le persone in oggetti da organizzare, controllare e (a volte) eliminare razionalmente. In questo contesto la lotta umana diventa – o dovrebbe diventare – quella per mantenere spazi in cui conservare ciò che Habermas definisce il “mondo della vita”, in cui gli esseri umani sono in grado di costruire relazioni e comunicazioni non strumentali; uno spazio in cui le persone possono essere persone piuttosto che oggetti. A modo loro, Buber e Levinas sarebbero d’accordo con questo progetto di conservare le vere relazioni umane in un mondo di sistemi e strutture.
Naturalmente, c’è un altro lato di questo processo e della tradizione intellettuale che cerca di comprenderlo. L’organizzazione può essere significativa oltre che necessaria. Ma gli ebrei farebbero bene a prendere sul serio le conseguenze per il popolo ebraico delle qualità strumentalizzanti dell’azione politica. Se gli ebrei considerano i progetti di cambiamento del mondo come uno scopo centrale – forse lo scopo – della vita ebraica, allora c’è il rischio reale che essere e agire da ebrei diventi semplicemente un mezzo per raggiungere un fine, la cui unica giustificazione è il raggiungimento di una serie di obiettivi.
Quando la trasformazione del mondo diventa l’obiettivo primario, se non unico, della vita ebraica, emerge un rischio: l’identità e le pratiche ebraiche rischiano di ridursi a semplici strumenti.
C’è anche un pericolo ancora maggiore: che l’adempimento dell’obbligo degli ebrei di cambiare il mondo scivoli in una giustificazione dell’esistenza ebraica. Rischiamo di sviluppare un’apologetica della nostra continua esistenza nel mondo basata sui cambiamenti che riusciamo a realizzare al suo interno. Ciò significherebbe tacitamente avallare proprio quella logica che ci ha tanto danneggiato, la logica che considera certe categorie di persone come superflue, ridondanti.
Di solito, però, è tutto inutile. Gli obiettivi non vengono mai completamente raggiunti, né è probabile un fallimento permanente. L’imperativo strumentale intrappola gli ebrei, come altri, nella sua logica di rinvio infinito. E questo non è solo un fenomeno elitario. Si pensi al fenomeno degli attivisti online pro o anti-Israele. Come potrebbe mai essere raggiunto l’obiettivo della “vittoria” su Israele o sui suoi critici su piattaforme dove tutti possono esprimersi? Troppo spesso, questi attivisti diventano solo gusci amari e vuoti, schiavi di un obiettivo permanentemente irraggiungibile.
Gli obiettivi tradizionali ed escatologici sono difficili da raggiungere quanto quelli pro o anti-Israele. L’arrivo del messia è, per definizione, a mala pena immaginabile. Ma forse la sua trascendenza ha reso più facile affrontare il fallimento nel raggiungerlo. I disegni del divino sono così misteriosi che è quasi impossibile misurare il successo o il fallimento nel raggiungimento dei suoi editti. Al contrario, gli obiettivi politici in questo mondo sono fissati dagli esseri umani e quindi ci inducono a credere che possono essere realizzati.
*
Siamo alla deriva in un mare paradossale. Il continuo fermento politico ebraico, in tutta la sua caotica diversità, dimostra solo la vulnerabilità degli ebrei anche se afferma la loro capacità di agire. Il problema non è solo cosa succede se e quando gli ebrei “perdono” le lotte politiche, ma anche “vincere” troppo spesso riduce la loro resilienza. Forse Foer ha ragione quando afferma che l’era del liberalismo americano del dopoguerra è stata sia il prodotto degli sforzi ebraici che un’età dell’oro per tutti. Ma se il liberalismo è il paradiso per gli ebrei, allora è stata un’idea piuttosto stupida abituarsi troppo ad esso. Perché tutte le cose devono finire.
Se gli ebrei hanno bisogno di un certo tipo di società per prosperare, cosa succede quando il mondo assume una struttura diversa? Il liberalismo era destinato a finire. Gli Stati nazionali non esisteranno per sempre. La giustizia sociale potrebbe diventare una moda passeggera. O forse la pietosa disuguaglianza del capitalismo scomparirà. E allora?
Anche quelle tradizioni politiche ebraiche che proclamano la loro indifferenza nei confronti dell’opinione non ebraica non riescono a risolvere il paradosso. Menachem Begin avrà anche dato ai non ebrei prova della sua goffa testardaggine, ma ciononostante aveva ammiratori non ebrei in tutto il mondo; ha certamente offerto un modello agli Stati decolonizzati che cercano di resistere alle tentazioni delle superpotenze. L’apparente insularità della politica haredi non impedisce loro di essere politicamente utili ai politici: basti pensare al rapporto di Chabad con Putin, per non parlare dell’utilità dei partiti haredi nelle coalizioni di governo israeliane. E quando gli ebrei sono utili o rispettati, o entrambe le cose, trovano difficile resistere alla tentazione di diventare dipendenti dalla loro strumentalizzazione.
Non possiamo quindi ritirarci completamente dal mondo, né possiamo esercitare un controllo totale su di esso. Cosa fare allora?
*
C’è un’altra corrente all’interno della tradizione ebraica che resiste alla logica strumentale. Una corrente che esalta non la capacità di creare cambiamenti nelle circostanze umane, ma la gloria assoluta dell’ineffabile. Questo è il giudaismo che considera particolarmente lodevole lo studio della Torah lishma, fine a se stesso; l’ebraismo che studia con particolare fervore le regole del sacrificio nel Tempio anche in momenti in cui la possibilità della sua resurrezione sembrava più che improbabile. Questo è l’ebraismo le cui tradizioni esoteriche sono di un livello di astrusità tale da sembrare appena ancorate al mondo in cui viviamo. In tali tradizioni, la halakhah è la base scontata per raggiungere vette più elevate di ascesa spirituale verso un divino che non può mai essere compreso appieno.
Questo è l’ebraismo che si crogiola nell’oscurità dei suoi “fini”; un ebraismo che è quasi impossibile strumentalizzare
Ma anche qui ci sono paradossi e ironie. Il rifiuto dello scopo mondano può essere scomodo e inquietante. Si pensi al destino di Yeshayahu Leibowitz, il teologo del XX secolo la cui visione della preghiera e delle mitzvot era caratterizzata da un rifiuto totale sia della ricompensa divina che della chiarezza di intenti. La sua teologia era così assoluta che la preghiera spontanea era considerata una forma minore di culto; solo la completa sottomissione al piano incomprensibile del divino costituisce obbedienza.
Eppure l’eredità di Leibowitz nell’immaginario popolare deve tanto, se non di più, ai suoi interventi politici; l’antisionismo idiosincratico che lo portò ad avvertire che i soldati nei territori occupati rischiavano di diventare “giudeo-nazisti”. Forse è più facile comprendere un ebreo che interviene attivamente nel mondo piuttosto che un ebreo che sostiene la negazione dello strumentale.
*
Non so se Yeshayahu Leibowitz sarebbe stato felice che gli ebrei diventassero il gruppo etnico-religioso 27b. Per me, però, questa prospettiva è diventata anche più allettante in un momento di grande importanza per gli ebrei.
Essere solo una variante dei modi in cui gli esseri umani costruiscono l’identità di un popolo…
Essere insignificanti e non straordinari…
Non avere altro scopo che l’esistenza stessa…
Nessuna apologia, nessun valore sociale, nessun obiettivo…
Non è forse questa un’affermazione assoluta della validità dell’esistenza ebraica? Non è forse una piattaforma più solida su cui fondare l’esistenza ebraica rispetto alla lotta senza fine per giustificare noi stessi attraverso il perseguimento di obiettivi strumentali?
Quello che metto in discussione non è l’attivismo ebraico o le lotte politiche, ma se gli ebrei debbano impegnarsi al di là del mondo ebraico organizzato come ebrei.
Nessun essere umano nato in questo mondo dovrebbe passare la propria vita a dimostrare di essere degno di essere nato. Gli esseri umani non possono e non devono giustificare la propria esistenza. E cosa sono i popoli se non un insieme di esseri umani?
Naturalmente, non spetta solo a noi decidere se accettare questa esistenza ebraica priva di scopo. Il mondo ci permetterà mai di essere noiosi e inutili? Al momento, né gli antisemiti né i filosemiti ce lo consentono. Ma possiamo davvero affermare che i nostri strenui sforzi per dimostrare il nostro valore davanti al tribunale dell’opinione pubblica stiano effettivamente “funzionando”? Forse lottare per un’esistenza senza scopo potrebbe essere un modo per combattere l’antisemitismo (e abbandonare l’amore filosemita) che ha un potere sovversivo inaspettato. Siamo superflui come qualsiasi altro popolo, niente di più.
E l’esistenza senza altro scopo che l’esistenza stessa non sarebbe una “ricompensa” per aver sconfitto l’antisemitismo? Un dolce ritiro nell’oscurità mi tenta sicuramente. Un luogo comune ebraico online è l’affermazione “gli ebrei sono stanchi”. Certo che siamo stanchi. Il problema è che questa affermazione è solitamente seguita da un stoico rinnovamento dell’impegno nella routine quotidiana, piuttosto che dall’immaginare che abbandonare il campo possa mai essere una possibilità.
*
Tutto questo sembra un suggerimento stravagante. Ma non lo è. Oltre alla nostra dipendenza dallo strumentalismo dell’azione sociale e politica pubblica, molti o la maggior parte degli ebrei vivono in uno spazio senza scopo per parte del tempo. E questo è sovversivo, almeno in alcuni casi.
Vivo in un Paese in cui la religione organizzata sembra essere in caduta libera, mentre il credo spirituale sembra resistere. La sociologoia ha descritto questo fenomeno come “credere senza appartenere”. È gratificante che gli ebrei sembrino essere l’opposto. Come dimostrano i dati del 2024 dell’Institute for Jewish Policy Research: “Se solo un terzo degli ebrei ha fede in Dio, come descritto nella Bibbia, che ne è dell’ebraismo? È inevitabilmente sulla stessa strada discendente del cristianesimo? Non necessariamente. Un indicatore chiave del declino della religione organizzata in Gran Bretagna è il ‘bums-on-pews'[5], ovvero il fatto che solo le persone che credono in Dio sono propense a frequentare la chiesa. Anche se questo fosse vero, non sembra applicarsi agli ebrei. Nel caso degli ebrei, secondo i dati dell’indagine, più della metà (56%) dei membri paganti della sinagoga non crede in Dio e quasi due ebrei atei su cinque appartengono a una sinagoga. Inoltre, indipendentemente dal fatto che appartengano o meno a una sinagoga, due ebrei su tre (65%) fra quelli che non credono in Dio frequentano la sinagoga almeno durante le festività di Rosh haShana e Yom Kippur. Sembra che gli ebrei si sentano abbastanza a loro agio nell’appartenere senza credere”.
Naturalmente si potrebbe spiegare il “sentirsi parte di qualcosa senza credere” in termini di funzione sociale delle sinagoghe, di piacere di far parte di una comunità e simili. Tuttavia, le sinagoghe non sono gli unici luoghi in grado di offrirlo e noi continuiamo comunque a frequentarle. C’è spesso un divario tra la funzione sociale e lo scopo ufficiale.
A volte, quando frequento la mia sinagoga a Londra, mi colpisce l’impressione che piò dare agli estranei. C’è sempre una persona addetta alla sicurezza che mi accoglie, il cancello è robusto e impenetrabile, le finestre dell’edificio sono rinforzate. Anche la liturgia è permeata dal ricordo dei defunti, dalla preoccupazione per la sicurezza di Israele e i rabbini dalla bimah[6] fanno riferimento alle ultime ansie del nostro popolo. Sembriamo un popolo spaventato e minacciato, e in alcuni momenti lo siamo sicuramente. Ma siamo anche altre cose. Le funzioni nella mia sinagoga non sono solo fonte di conforto per un popolo minacciato, ma sono frequentate anche da machers[7] indaffarati a svolgere le loro mansioni, membri della congregazione che allungano il collo per vedere chi altro c’è, giovani risentiti costretti a partecipare per la loro formazione al Bar/Bat Mitzvah… l’intera gamma delle motivazioni ebraiche. E fuori, la persona addetta alla sicurezza è lì perché è figo sembrare cattivo e duro con un giubbotto antiproiettile ogni tanto, o perché fare la guardia significa non dover partecipare alla funzione, o perché l’addestramento alla sicurezza offre divertenti opportunità di incontrare altri ebrei.
Siamo ebrei perché siamo ebrei. I mezzi possono essere importanti quanto i fini.
C’è un certo piacere sovversivo nel conoscere questo nostro segreto?
*
Se l’attività ebraica senza scopo ha un valore inaspettato che dovremmo apprezzare, cosa succede allora alla politica? Il mondo, dopotutto, ha bisogno di cambiare. Abbiamo bisogno di lottare per i nostri diritti.
E anche il mondo ebraico ha bisogno di cambiare al suo interno. Nessun ebreo dovrebbe essere completamente soddisfatto di ciò che siamo ora. Tutti i gruppi umani devono occuparsi della propria politica. L’indolenza compiaciuta che porta, ad esempio, alla tolleranza degli abusi sessuali o degli illeciti finanziari richiede una vigilanza costante. E questo è politico, che lo vediamo come tale o meno.
Quello che metto in discussione non è l’attivismo ebraico o le lotte politiche, ma se gli ebrei debbano impegnarsi al di là del mondo ebraico organizzato come ebrei. Non tutti i gruppi umani devono sentirsi obbligati ad andare oltre i propri confini. In realtà, esistono intere classi sociali che nessuno penserebbe mai di vedere in prima linea nell’attivismo. Gli appassionati di modellismo ferroviario non sono all’avanguardia dell’attivismo filopalestinese o filoisraeliano e nessuno si aspetta che lo siano. Presumibilmente ci sono singoli appassionati mvv che partecipano alle manifestazioni, e questo va bene ed è prevedibile.
Gli ebrei devono almeno considerare come potrebbe essere inserirsi in una categoria sociale diversa. Perché non dovremmo considerarci un hobby, un passatempo, un insieme di attività piacevolmente arbitrarie?
Il fatto che questo sia in qualche modo impensabile la dice lunga sulla gerarchia implicita delle categorie sociali nel mondo occidentale moderno. Sottovalutiamo certi modi di stare insieme agli altri esseri umani e trattiamo alcuni come più importanti di altri. Eppure, in termini di centralità nella vita di molte persone e di gioia e conforto che forniscono, non è chiaro che le “attività ricreative” siano meno “importanti” delle etnoreligioni e di categorie simili.
Qualunque sia stato il nostro contributo alla civiltà, è tempo di immaginare come sarebbe se ci comportassimo come se fossimo solo un gruppo etnico-religioso 27b.
Sotto certi aspetti, ciò che sembra “relegare” la vita ebraica allo status di hobby è, in realtà, un’elevazione. Scegliere la vita ebraica, o rimanervi legati senza altro scopo che quello di passare il tempo tra la nascita e la morte, ha in sé un assolutismo che può soffocare la strumentalità. Questo tipo di ebraicità non può mai fallire nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Questo tipo di ebraicità rifugge dalla routine e rompe gli schemi.
*
Al momento è difficile immaginare la rottura di un simile circolo vizioso. Il popolo ebraico sta raddoppiando il proprio impegno nell’«obbligo» di intervenire nel mondo di fronte a un futuro che minaccia di ridicolizzare le nostre pretese. Ci siamo abituati all’idea che noi, in quanto ebrei, possiamo intervenire nel mondo. Non dovremmo dare per scontato che sarà sempre così, non perché il risorgere dell’antisemitismo ci priverebbe ancora una volta della nostra capacità di agire (anche se è certamente possibile), ma perché la stessa possibilità di agire è minacciata come mai prima d’ora. Il cambiamento climatico rappresenta una sfida esistenziale all’idea che il destino dell’umanità sia qualcosa che possiamo controllare. Ci attendono futuri plausibili in cui crisi a cascata renderanno la semplice sopravvivenza una sfida impressionante. In tali futuri, che significato avrebbero il tikkun olam o altre dichiarazioni di obbligo ebraico?
In ciò che ci aspetta, potremmo tutti dover diventare particolaristi, che ci piaccia o no. Le nostre comunità ebraiche saranno costrette a chiudersi in se stesse, a prendersi cura di sé stesse se ciò sarà possibile.
O forse no, a seconda dei casi. Forse andrà tutto bene e il mondo rimarrà un luogo in cui gli ebrei potranno aspirare a essere essenziali. Lo sviluppo dell’obbligo politico ebraico è avvenuto durante una modernità in cui il mondo era frammentato ma non troppo; un mondo in cui i vasi della santità erano stati frantumati in frammenti abbastanza grandi da poter essere raccolti. Questo era il mondo in cui Heschel sentiva che le sue gambe pregavano; un mondo in cui i passi potevano causare terremoti. Forse possono ancora farlo. Tuttavia, non vale la pena di scommettere l’intero futuro del popolo ebraico su questa possibilità.
*
In gioventù ho marciato per rimproverare una comunità ebraica che mi sembrava politicamente compiaciuta e apatica. Oggi c’è un diverso tipo di compiacimento, un’autocompiacimento riguardo al nostro valore per il mondo e al peso della nostra impronta. Qualunque sia stato il nostro contributo alla civiltà, è tempo di immaginare come sarebbe se ci comportassimo come se fossimo solo un gruppo etnico-religioso 27b. Ironia della sorte, questo potrebbe insegnare al mondo qualcosa di importante, ossia che l’esistenza umana è assoluta e non può essere ridotta alla logica brutale dello scopo.
Keith Kahn-Harris
L’ultimo libro di Keith Kahn-Harris, che esplora temi di questo saggio, è Everyday Jews: Why the Jewish people are not who you think they are.
Keith Kahn-Harris è ricercatore presso l’Institute for Jewish Policy Research e docente presso il Leo Baeck College. Informazioni dettagliate sui suoi libri e articoli sono disponibili all’indirizzo: kahn-harris.org
Notes
1 | https://www.eesc.europa.eu/fr/our-work/opinions-information-reports/opinions/eu-strategy-combating-antisemitism-and-fostering-jewish-life/related-links-soc-704 |
2 | Alfred A. Knopf (Random House), 2005. |
3 | Il termine hasbara, che in ebraico letteralmente significa “spiegazione”, indica gli sforzi di comunicazione e di pubbliche relazioni messi in atto dallo Stato di Israele per arrivare all’opinione pubblica internazionale e difendere le proprie politiche. |
4 | Tikkun Olam (ebraico: תיקון עולם, letteralmente “riparare il mondo”) è un concetto centrale dell’ebraismo che indica le azioni volte, appunto, a migliorare o riparare il mondo. |
5 | Bums-on-pews significa, letteralmente, “sederi sui banchi” ed è un’espressione usata per indicare il numero di persone sedute in una chiesa e, più in generale, l’affluenza nei luoghi di culto. Un’immagine che serve a valutare la vitalità di una comunità religiosa attraverso la presenza fisica alle funzioni religiose. |
6 | Bimah: elemento centrale della sinagoga, che funge da piattaforma rialzata per la lettura della Torah e per lo svolgimento di alcune funzioni religiose, nonché da pulpito da cui il rabbino pronuncia i suoi sermoni. |
7 | In yiddish un macher è generalmente definito come qualcuno che sistema le cose, che ha connessioni e influenza, una sorta di “facilitatore”. |