Rinnovare i linguaggi

Nelle pieghe di un dibattito ormai logorato dal peso delle sue stesse parole, l’intervento di Gadi Luzzatto Voghera arriva come un tentativo necessario di riallineare lessico e realtà. Se il Novecento ha consegnato alla coscienza collettiva il termine antisemitismo – oggi incapace di restituire la complessità e le metamorfosi dell’odio antiebraico – il presente richiede un nuovo vocabolario. Nel proporre di usare un altro termine – Gadi Luzzatto Voghera propone “J-Hate” – Luzzatto Voghera non compie un atto di rottura ma di responsabilità: riconoscere che le categorie ereditate non bastano più e che solo un linguaggio rinnovato può evitare che l’incomprensione generazionale, politica e culturale diventi una frattura irreparabile.

 

Gadi Luzzatto Voghera

 

Il linguaggio non è mai neutro. Le parole con cui descriviamo la realtà finiscono per determinarla, orientando la nostra percezione dei fenomeni e la possibilità stessa di affrontarli. Per questo, quando una parola invecchia, anche la comprensione di ciò che nomina si irrigidisce, si svuota di senso, diventa inefficace. È quello che sta accadendo al termine “antisemitismo”, un concetto nato nell’Ottocento per nominare l’odio antiebraico, ma ormai inadeguato a descriverne le forme contemporanee.

Il linguaggio non è mai neutro. Le parole con cui descriviamo la realtà finiscono per determinarla, orientando la nostra percezione dei fenomeni e la possibilità stessa di affrontarli.

Dopo numerosi tentativi e diverse opzioni scartate, anche con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, mi sembra di aver individuato un termine internazionalmente accettabile – “J-Hate” – per indicare nel XXI secolo l’ostilità antiebraica in maniera immediata e comunicativa, in alternativa all’ormai vetusto e inappropriato concetto di “antisemitismo”.

Il peso delle parole invecchiate

Già nel 1879, quando Wilhelm Marr lo propose in un articolo divenuto famoso, questo concetto suonava sbagliato, sebbene in seguito la sua fortuna sul piano della comunicazione fu assai rilevante. In effetti non esiste una cosa chiamata “semitismo” (né esisteva allora), per cui far precedere il prefisso oppositivo “anti” a qualcosa che non esiste sembrava impresa inutile e destinata al fallimento. E invece no, ha funzionato, eccome. Il termine è entrato nel linguaggio politico e giuridico, ha ispirato ricerche, leggi, strategie di contrasto. È stato base ideologica per un genocidio. Oggi, tuttavia, credo sia necessario cambiare, prendendo atto della sua inefficacia e inadeguatezza. E lo scrive uno che sull’antisemitismo ha scritto quattro libri e un numero indefinito di articoli. Uno che dirige un centro – la Fondazione CDEC – che al suo interno ha un Osservatorio sull’antisemitismo, che collabora attivamente per l’attuazione della strategia europea e di quella nazionale per il contrasto all’antisemitismo e che siede nel comitato dell’IHRA che si occupa espressamente di questo tema.

“Antisemitismo” evoca un passato chiuso – quello dei pogrom, delle leggi razziste, della Shoah – e fatica a rappresentare le forme nuove, ibride, digitali e globalizzate dell’odio antiebraico. Continuare a usare lo stesso termine significa continuare a leggere il presente con le categorie del passato.

Oggi il suo significato si è logorato. “Antisemitismo” evoca un passato chiuso – quello dei pogrom, delle leggi razziste, della Shoah – e fatica a rappresentare le forme nuove, ibride, digitali e globalizzate dell’odio antiebraico. Continuare a usare lo stesso termine significa continuare a leggere il presente con le categorie del passato.

La stagione delle definizioni

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un grande sforzo di codificazione. La Working Definition dell’IHRA è stata approvata nel 2016 dopo una lunga gestazione e non pochi aggiustamenti, e da allora è divenuta uno strumento importante che ha permesso di attivare azioni concrete messe in essere nel mondo delle democrazie liberali occidentali per contrastare in maniera efficace il diffondersi dell’odio antiebraico. In precedenza, cioè prima di quell’atto ufficiale, l’immobilismo da parte di governi e istituzioni e l’incapacità di riconoscere la crescita forte e non compresa di quel fenomeno era stato allarmante e imbarazzante, contribuendo non poco ad aggravare nella minoranza ebraica un diffuso sentimento di paura e di isolamento. 

L’apparire della definizione IHRA ha tuttavia prodotto anche reazioni critiche, soprattutto nel mondo dell’accademia. Negli anni successivi sono stati elaborati tentativi di definizione alternativi (JDA e Nexus in particolare) che esplicitamente hanno tentato di affrontare in maniera politicamente indirizzata il tema del nesso tra antisemitismo e antisionismo. Non entro qui in argomento, ma mi limito a registrare la sostanziale inefficacia di questi tentativi sul piano istituzionale. Essi non sono riusciti a scalzare la definizione IHRA nella sua funzione di riferimento generalmente accettato, nonostante diversi tentativi effettuati in sede ufficiale sia presso le Nazioni Unite, sia in numerosi dibattiti parlamentari. 

Si continua a operare dentro una parola – “antisemitismo” – che non parla più ai giovani, che risuona come un termine tecnico, legato all’Ottocento e al dopoguerra. Senza parole nuove, non può nascere una nuova consapevolezza.

Tuttavia, anche in questo dibattito, il problema non è solo politico o concettuale: è linguistico. Si continua a operare dentro una parola – “antisemitismo” – che non parla più ai giovani, che risuona come un termine tecnico, legato all’Ottocento e al dopoguerra. Senza parole nuove, non può nascere una nuova consapevolezza.

Quando il vecchio linguaggio non basta più

L’utilizzo e – spesso – l’abuso sulla scena pubblica del termine antisemitismo è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi anni, in particolare a causa di tre crisi epocali che ancora fanno sentire i loro effetti. Parlo dell’epidemia di Covid, del conflitto in Ucraina e della guerra esplosa in Medio Oriente a seguito della strage del 7 ottobre 2023 e al conseguente rapimento di oltre 250 ostaggi da parte delle milizie islamiste. Il concetto è stato utilizzato spesso nell’arena politica, dimostrando una delle sue potenzialità maggiori e certificate da oltre un secolo e mezzo di storia. 

L’antisemitismo rappresenta una minaccia concreta per gli ebrei in carne ed ossa. (…) Si tratta di un fenomeno con il quale non si può scherzare. Non siamo, cioè, autorizzati a prenderlo sottogamba, a considerarlo un non-problema a fronte di emergenze che godono di un maggior rilievo mediatico.

L’antisemitismo è, infatti, essenzialmente un linguaggio politico. I concetti fondamentali di cui è portatore – complottismo, identificazione di un gruppo umano “nemico” e minaccioso, elaborazione di un set di immagini negative utilizzate dalla propaganda pescando nell’immaginario di un radicato antigiudaismo pregiudiziale di natura religiosa – offrono strumenti di straordinaria efficacia anche nella politica contemporanea. Al contempo l’antisemitismo rappresenta una minaccia concreta per gli ebrei in carne ed ossa. Assalti fisici, omicidi, aggressioni a scuole ebraiche, sinagoghe e luoghi di ritrovo, nelle università in tutta Europa e negli Stati Uniti sono cresciuti in maniera esponenziale. Si tratta quindi di un fenomeno con il quale non si può scherzare. Non siamo, cioè, autorizzati a prenderlo sottogamba, a considerarlo un non-problema a fronte di emergenze che godono di un maggior rilievo mediatico.

Lo hanno ribadito a chiare lettere i coordinatori nazionali per la lotta all’antisemitismo riuniti nel 2024 in Argentina, dove – su ispirazione della prof.ssa Deborah Lipstadt – è stato sottoscritto un documento che indica l’antisemitismo come fenomeno da considerare come la spia di un allarmante attacco alle strutture stesse delle democrazie liberali. La libertà di parola, la libertà religiosa, la libertà di movimento, la libertà di espressione, il diritto allo studio sono tutti elementi minacciati dalla crescita dell’ostilità antiebraica.

Il linguaggio come terreno di scontro

Il recente episodio accaduto all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove un gruppo di studenti ha interrotto rumorosamente un dibattito, è un esempio emblematico. Chi ha assistito alla scena ha parlato di antisemitismo. I contestatori, invece, hanno respinto l’accusa come strumentale.

Quando l’ospite d’onore, l’ex deputato Pd Emanuele Fiano chiamato a relazionare sulla situazione in Medio Oriente e sulle prospettive di pace, è stato interrotto da una cinquantina di giovani al grido di “fuori i sionisti dall’università” in maniera aggressiva e incontenibile, questi ha reagito richiamando esplicitamente il termine di “antisemitismo”. Numerosi commentatori intervenuti anche nei giorni successivi su diversi organi di stampa hanno supportato questa accusa diretta ed esplicita. Tuttavia, i protagonisti, o coloro che comunque hanno dato un giudizio positivo alle ragioni dell’azione di disturbo, hanno contestato in maniera decisa questo concetto: “non siamo antisemiti, state strumentalizzando questo concetto”. Si è trattato di un passaggio inedito e per certi versi paradossalmente più maturo rispetto allo slogan, sentito molte volte in questi due anni, che recita: “noi non siamo antisemiti, siamo antisionisti”. Ed è purtroppo corretta l’osservazione che rifiuta l’accusa di antisemitismo mossa a chiunque esprima posizioni di critica o dissenso verso le politiche del governo israeliano. In effetti, diversi esponenti di quel governo di estrema destra e lo stesso premier Netanyahu, non perdono occasione di accusare di antisemitismo un po’ tutti, dai vertici dell’ONU a chiunque manifesti a favore dei civili palestinesi e dei loro diritti. La distorsione e l’abuso di quel termine è evidente, ed è stata più volte contestata anche da molti esponenti del mondo ebraico. 

Ed è purtroppo corretta l’osservazione che rifiuta l’accusa di antisemitismo mossa a chiunque esprima posizioni di critica o dissenso verso le politiche del governo israeliano. (…) La distorsione e l’abuso di quel termine è evidente, ed è stata più volte contestata anche da molti esponenti del mondo ebraico. 

In definitiva, siamo di fronte a una dinamica nella quale il concetto di antisemitismo risulta essere da un lato poco conosciuto, e d’altra parte scarsamente compreso nella sua pericolosità e nei suoi effetti. I ragazzi e le ragazze del cosiddetto fronte della gioventù comunista che si esprimono attraverso il loro organo di stampa Ordine Nuovo (due denominazioni che rimandando al PCd’I gramsciano degli anni Venti) pensano e interpretano i termini di antisemitismo e di sionismo in maniera totalmente difforme da quella pensata e utilizzata dal sottoscritto, dall’on. le Fiano e da altri nostri coetanei che li accusano di pratiche antisemite. Per rendersi conto in maniera visiva di quello che intendo è sufficiente andarsi a rivedere i diversi filmati dei disordini avvenuti a Ca’ Foscari. Una saletta in cui il pubblico a sedere era formato da persone anziane, la maggior parte sopra i sessanta o settant’anni. Attorno, lungo le pareti, ragazze e ragazzi (non sempre universitari) tra i venti e i trent’anni che contestavano e impedivano il dibattito urlando slogan sconclusionati, con qualche deriva minacciosa a richiamare una pistola con la mano tesa. Un esame neutro, senza entrare nel merito delle posizioni politiche, ci mostra con ogni evidenza un netto scontro generazionale. Giovani contro anziani.

Il conflitto, in pratica, va oltre lo scontro politico e diviene linguistico. Le parole “antisemitismo” e “sionismo” non significano la stessa cosa per le generazioni che le usano. Da un lato ci sono adulti e studiosi che interpretano quelle parole attraverso la memoria storica del Novecento; dall’altro giovani che le leggono in chiave geopolitica, mediatica, spesso decontestualizzata.

Il conflitto, in pratica, va oltre lo scontro politico e diviene linguistico. Le parole “antisemitismo” e “sionismo” non significano la stessa cosa per le generazioni che le usano. Da un lato ci sono adulti e studiosi che interpretano quelle parole attraverso la memoria storica del Novecento; dall’altro giovani che le leggono in chiave geopolitica, mediatica, spesso decontestualizzata.

Senza un linguaggio comune, il dialogo è impossibile. Ed è da qui che nasce l’urgenza di rinnovare le parole.

Perché “J-Hate”

La proposta di “J-Hate” non è un esercizio accademico, ma una necessità. È un termine breve, immediato, comprensibile in diversi contesti linguistici. Non trascina con sé il peso semantico e ideologico dell’“antisemitismo”, ma mantiene chiaro il riferimento alla vittima dell’odio – l’ebreo – collocandolo in un orizzonte comunicativo globale, dove l’odio corre in rete, si diffonde in meme, hashtag, slogan. In questa prospettiva, rinnovare i linguaggi non significa rinnegare la storia, ma restituirle attualità. Significa riconoscere che le forme dell’odio cambiano e che solo parole nuove possono renderle visibili.

Nuove parole per la democrazia: una sfida globale

Io vedo alcune questioni prioritarie, che vanno considerate per valutare azioni efficaci, proprio con l’intento di difendere le nostre democrazie, che nel bene e nel male ci hanno assicurato decenni di convivenza pacifica e di assenza di guerra. In forma forzatamente schematica: a) necessario rinnovamento delle parole e dei linguaggi; b) estensione ai mondi non “occidentali” della riflessione sul J-Hate; c) scrittura e azione per una strategia globale di contrasto alla diffusione del linguaggio d’odio, che è premessa necessaria e sufficiente all’esplodere della violenza fisica.

Propongo l’adozione del termine J-Hate al posto di antisemitismo, perché quest’ultimo è ormai un termine obsoleto e legato all’immaginario dell’Ottocento e del Novecento. Non è un caso che il rifiuto dell’accusa di antisemitismo venga formulato sul sito di Ordine Nuovo richiamando l’eredità antifascista di Eugenio Curiel, partigiano ebreo. Non siamo più là, ragazzi. Non è quello l’antisemitismo di cui quei giovani sono stati accusati, anche se il termine è lo stesso. Introdurre linguaggi e parole nuove è una necessità e deve essere una priorità. Significa dare un nome a fenomeni che – sebbene connessi al passato – assumono oggi caratteristiche del tutto inedite. Solo con nuove denominazioni condivise sarà possibile un confronto e un dialogo tra vecchie e giovani generazioni che non degeneri in violenza. E solo partendo da nuovi linguaggi sarà possibile dare un senso attuale alle benemerite ma insufficienti “politiche della Memoria”. 

Introdurre linguaggi e parole nuove è una necessità e deve essere una priorità. Significa dare un nome a fenomeni che – sebbene connessi al passato – assumono oggi caratteristiche del tutto inedite. Solo con nuove denominazioni condivise sarà possibile un confronto e un dialogo tra vecchie e giovani generazioni che non degeneri in violenza. E solo partendo da nuovi linguaggi sarà possibile dare un senso attuale alle benemerite ma insufficienti “politiche della Memoria”. 

D’altra parte, non è più accettabile che il dibattito sul J-Hate si sviluppi senza tenere conto delle dinamiche presenti nelle realtà non occidentali. Non si può tenere al di fuori del dibattito e della conoscenza stessa del fenomeno l’intero mondo musulmano (quasi due miliardi di persone). Un mondo nel quale il J-Hate è diffuso in forme allarmanti, spesso manipolato politicamente, provocando gravi forme di frizione là dove il due mondi – quello islamico e quello occidentale – si incontrano grazie ai fenomeni migratori. Il tappeto sotto cui la polvere di questo problema è stata nascosta non riesce più a contenerla, si sta sfaldando. Il problema va affrontato ora e con urgenza. Come va considerata in maniera non dissimile la realtà del mondo est europeo su cui pesano la rilevanza della Chiesa ortodossa e il permanere di retoriche antiebraiche di lunga e consolidata tradizione. Il J-Hate è un tema centrale nel conflitto con l’Ucraina. Lo è stato da subito, già nel 2014, con il fioccare di accuse reciproche di nazismo e di complotto. Escludere quel mondo – in cui sono stati ideati e scritti i Protocolli dei Savi Anziani di Sion – da una riflessione aperta sul tema, significa tessere trama e ordito di un nuovo tappeto sotto cui nascondere nuova polvere, che non mancherà di sporcare un po’ tutti.

Infine, includere il tema del J-Hate nella più generale e allarmante diffusione di discorsi d’odio. Dal bullismo adolescenziale alla violenza di genere, passando per le pratiche razziste e l’acuirsi di contrapposizioni politiche fatte più di slogan che di riflessione, siamo di fronte a un fenomeno globale agghiacciante e irrefrenabile che comprende a vario titolo il J-Hate. Attivare forme di acculturazione diffusa, lavorare fin dai primi anni della scolarità a una cultura della complessità, sembra essere l’unica strada percorribile per contrapporsi a una deriva che abbiamo il dovere di bloccare. Se non ora, quando?


Gadi Luzzatto Voghera

 

Gadi Luzzatto Voghera, veneziano, nato nel 1963, è storico e direttore della Fondazione CDEC di Milano. Studia la storia degli ebrei in Italia, l’antisemitismo e la secolarizzazione ebraica, intrecciando ricerca accademica e impegno nella memoria. Ha insegnato a Ca’ Foscari e al Boston University Study Abroad Program di Padova, e collabora con istituzioni come IHRA e il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah. Autore di libri e articoli, lavora per rendere accessibile a tutti la conoscenza della storia e della cultura ebraica contemporanea.