Contro la semantica dell’oblio: la Carta di Modena e la lotta all’antisemitismo istituzionale.

Nel dibattito contemporaneo sull’antisemitismo, il rischio maggiore non è l’eccesso di parole, ma la perdita di senso delle parole stesse. La Carta di Modena, al centro della riflessione di Vincenzo Pacillo, nasce da questo punto di frizione: tra la necessità di un linguaggio capace di riconoscere la differenza e la tendenza istituzionale a neutralizzarla. In un tempo in cui la democrazia sembra logorarsi nella fatica del riconoscimento reciproco, Pacillo riporta il discorso giuridico al suo compito più alto: restituire al diritto una semantica della responsabilità, in cui la tutela della libertà religiosa diventa parte essenziale della lotta contro l’oblio e la disumanizzazione.

Ogni ordinamento democratico fonda la propria legittimità non soltanto sulla coerenza formale delle sue norme, ma sulla capacità di queste di ottenere l’assenso critico dei cittadini coinvolti, in un processo di deliberazione che presuppone il riconoscimento reciproco dei soggetti come pari nella dignità e nella voce. In questa prospettiva, l’antisemitismo rappresenta molto più di una forma patologica di pregiudizio: esso è la negazione performativa delle condizioni stesse che rendono possibile un discorso democratico orientato alla verità.

L’antisemitismo non è solo un’aggressione rivolta a una minoranza: è un attacco all’intero edificio democratico, perché colpisce i fondamenti stessi della convivenza civile.

Come è noto, l’antisemitismo non è solo un’aggressione rivolta a una minoranza: è un attacco all’intero edificio democratico, perché colpisce i fondamenti stessi della convivenza civile. È un attacco all’idea che ogni essere umano, indipendentemente dalla sua origine, dalla sua religione o dalla sua appartenenza culturale, abbia diritto alla dignità, alla sicurezza e alla libera espressione della propria identità. In questo senso, l’antisemitismo è il segnale di un cedimento molto più profondo: esso costituisce a distruzione del pluralismo e la negazione del diritto di essere se stessi. Laddove si consente il pregiudizio e l’odio verso gli ebrei, si apre uno spazio per la persecuzione di chiunque venga percepito come “altro” o “diverso”: l’antisemitismo , storicamente, ha agito come un indicatore anticipato di derive autoritarie, perché si nutre della semplificazione identitaria, della retorica del nemico interno e della negazione del principio di uguaglianza, sia formale che sostanziale.

Inoltre, l’antisemitismo mina la fiducia nei meccanismi di mediazione istituzionale: alimenta il sospetto, erode il dibattito pubblico e sostituisce l’argomentazione con il pregiudizio. Per questo, combatterlo non è solo un dovere verso una specifica minoranza: è una responsabilità verso l’intera società, verso il patto costituzionale che regge ogni comunità democratica. Esso può manifestarsi in forme esplicite — come l’odio razziale, le teorie del complotto, la negazione o banalizzazione della Shoah, l’incitamento alla violenza — oppure in modalità più subdole e simboliche, come l’esclusione sociale implicita, la marginalizzazione culturale, la riduzione stereotipata della pluralità ebraica a un’unica identità politica, o l’attribuzione collettiva alle comunità ebraiche delle responsabilità dello Stato d’Israele. 

In ogni caso, ogni atto antisemita – sia esso una scritta offensiva, una minaccia online, un’esclusione velata – colpisce la pluralità su cui si fonda la convivenza. Come insegna Martha Nussbaum, la democrazia non è fatta solo di norme e istituzioni, ma di immaginazione empatica: la capacità di percepire l’altro come legittimo interprete del bene comune. Le università hanno la responsabilità di proteggere questa immaginazione, anche quando è messa alla prova da eventi drammatici: devono farlo non con appelli moralistici, ma con strumenti concettuali e normativi. 

Ogni atto antisemita – sia esso una scritta offensiva, una minaccia online, un’esclusione velata – colpisce la pluralità su cui si fonda la convivenza.

In un tempo segnato dalla crisi della parola pubblica e dall’erosione dei linguaggi condivisi, la lotta all’antisemitismo non può esaurirsi in dichiarazioni di principio o nella mera repressione penale. Essa richiede – come indicato esplicitamente dalla Strategia Nazionale 2025 per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo, adottata in coerenza con la Strategia dell’Unione Europea 2021–2030 – una trasformazione culturale profonda, che investa i linguaggi, gli immaginari, le pratiche formative e le architetture istituzionali. In questo quadro, la Carta delle buone prassi per il rispetto della libertà di religione e di convinzione nei luoghi di lavoro (di seguito anche “Carta di Modena”), elaborata dal gruppo di ricerca dell’Università di Modena e Reggio Emilia guidato da Basira Hussen, si configura non come un semplice vademecum organizzativo, ma come un dispositivo interculturale di traduzione giuridica e simbolica, capace di fornire una cornice concreta a quell’“educazione alla pluralità ” che rappresenta il cuore della lotta all’antisemitismo nella sua forma contemporanea.

La Carta di Modena […] si configura non come un semplice vademecum organizzativo, ma come un dispositivo interculturale di traduzione giuridica e simbolica.

La Carta, inclusa nell’Azione 1.2 della Strategia Nazionale 2025, è destinata a essere integrata, secondo quanto previsto dal documento governativo, nelle linee guida del Dipartimento della Funzione Pubblica, al fine di prevenire fenomeni discriminatori, inclusi quelli di matrice antisemita. Essa propone un modello di laicità sostenibile e generativa, che non si limita a tollerare la pluralità, ma la riconosce come risorsa strutturale della convivenza democratica.

Proprio per questo, essa si presta a diventare un modulo di implementazione concreta della Strategia Nazionale, in almeno tre direzioni coerenti con le indicazioni europee:

  1. a) Formazione e consapevolezza istituzionale

La Strategia dell’Unione Europea per la lotta contro l’antisemitismo e la promozione della vita ebraica (2021–2030) individua tra le sue priorità centrali la necessità di sviluppare, all’interno di enti pubblici e privati, una cultura organizzativa capace di riconoscere e contrastare le forme attuali di antisemitismo, che spesso si manifestano in modalità indirette, simboliche o strutturalmente incorporate nei linguaggi, nei protocolli e nelle relazioni di potere. La Strategia chiede espressamente agli Stati membri di istituire meccanismi di formazione continua e di monitoraggio nei settori pubblico e privato, allo scopo di prevenire atteggiamenti discriminatori anche latenti. In questo contesto, la Carta di Modena rappresenta un esempio di attuazione operativa di tale raccomandazione. Il documento, infatti, non si limita a fissare principi astratti, ma propone un vero e proprio linguaggio normativo intermedio, accessibile sia agli operatori pubblici sia alle imprese private, per promuovere la formazione del personale, la revisione delle pratiche interne e la consapevolezza delle implicazioni culturali del pluralismo religioso. La Carta insiste sulla necessità che i responsabili delle risorse umane, i dirigenti e i formatori ricevano strumenti non solo giuridici, ma anche semiotici e simbolici, per cogliere le micro-esclusioni che possono colpire, anche involontariamente, lavoratori e cittadini ebrei (così come di altre fedi). Questo approccio si allinea pienamente alla Strategia UE, che riconosce come l’antisemitismo oggi assuma forme soft e systemic, come lo stigma implicito, la non-nominazione, l’esclusione dai rituali aziendali, l’ignoranza rispetto ai calendari ebraici, la minimizzazione dei vissuti di discriminazione. La Carta funziona come dispositivo educativo permanente, traducendo le finalità della Strategia UE in un metodo replicabile per la formazione del personale, la revisione dei regolamenti, la mappatura delle criticità, la costruzione di ambienti inclusivi anche sotto il profilo religioso. Non si tratta, quindi, di un protocollo estemporaneo, ma di una tecnica di “pedagogia istituzionale” che fa dell’università un agente attivo nella trasformazione culturale richiesta dalle politiche europee.

b) Traduzione interculturale delle identità: attraverso le pratiche negoziali proposte (calendarizzazione inclusiva, spazi di preghiera, uso dei simboli), la Carta insegna come le identità religiose – compresa quella ebraica – possano essere riconosciute nella loro singolarità senza essere reificate, discriminate o politicizzate. Questo è essenziale per evitare la contaminazione categoriale tra religione e politica di cui parlano Bauman e Kristeva, e per garantire che la critica politica non degeneri in delegittimazione dell’identità. La Carta non chiede all’altro di “adattarsi” a un codice preesistente, ma al contrario – in nome del pluralismo-  sollecita il codice stesso a riconoscere il proprio carattere situato, e a riarticolarsi alla luce delle molteplici narrazioni di senso che emergono nel contatto con visioni del mondo differenti. Esso non agisce come barriera, ma come ponte semantico; non come filtro, ma come strumento di co-costruzione. Il suo compito non è tanto quello di garantire una neutralità formale, quanto quello di costruire uno spazio giuridico in cui le differenze non siano semplicemente tollerate, bensì riconosciute nella loro capacità di incidere sulla forma stessa dell’ordine comune. In questo senso, la Carta rappresenta un passaggio necessario da una logica di inserimento passivo a una logica di partecipazione trasformativa. L’altro non è più colui che si adatta al linguaggio della civiltà, ma colui che concorre a riscriverne le regole; non è ospite, ma co-abitante, e dunque co-autore del lessico condiviso. Ciò implica un ripensamento profondo dell’universalismo giuridico, che non è più un punto di partenza rigido e predefinito, ma un orizzonte in costruzione, continuamente rinegoziato nell’incontro tra forme di vita differenti: la Carta assume che la forma stessa della norma non possa prescindere dal processo interpretativo che la tiene viva, e che tale processo – lungi dall’essere un esercizio puramente tecnico – implichi un confronto costante con pluralità di codici culturali, simbolici e religiosi. 

La norma non è una struttura monolitica che precede l’esperienza, ma un esito dinamico della sua interpretazione: ed è precisamente nell’interazione tra queste interpretazioni che si gioca la sua legittimità democratica. Se l’identità personale è, come si è detto, una componente essenziale della costruzione giuridica della convivenza, allora è necessario che ogni attore del sistema giuridico assuma su di sé una precisa responsabilità nell’attuare questo riconoscimento, traducendolo in pratiche concrete che non si limitino a evitare il travisamento, ma che promuovano attivamente la valorizzazione della differenza come elemento ordinante della vita comune.
​c) Responsabilità semantica come etica organizzativa: la Carta traduce in regole praticabili il principio secondo cui il rispetto interculturale non è solo una questione di semantica giuridica e di struttura democratica. Il linguaggio che usiamo nei contesti istituzionali non è neutro, e può veicolare forme inconsapevoli di ostilità. Coltivare nei luoghi di lavoro – e, per estensione, nei luoghi del sapere – una grammatica della distinzione significa prevenire gli slittamenti semantici che alimentano l’antisemitismo mascherato. La Carta di Modena interviene proprio qui: nel cuore del problema, là dove il diritto e il linguaggio si toccano. Essa promuove una grammatica della distinzione, che consenta di riconoscere le identità ebraiche nella loro pluralità culturale, religiosa e storica, senza ricondurle a paradigmi unificanti o caricature politiche. Il diritto all’identità personale, in questo contesto, viene riconosciuto non  solo come tutela dell’individuo, ma come presidio contro la banalizzazione semantica delle differenze: è garanzia che nessuno venga ridotto a categoria, contaminato da responsabilità collettive, identificato con entità sovrane cui non appartiene. 

Contrastare l’antisemitismo significa, anche, agire sulle categorie con cui pensiamo e parliamo l’alterità.

Contrastare l’antisemitismo significa, anche, agire sulle categorie con cui pensiamo e parliamo l’alterità. Significa costruire un diritto capace di risemantizzare i propri concetti fondamentali, rendendoli porosi al riconoscimento reciproco e alla differenza. Non basta più un approccio procedurale al pluralismo; serve una trasformazione semantica del diritto stesso, una sua apertura alla dimensione relazionale, simbolica e narrativa delle identità. In questo senso, la Carta di Modena afferma che il rispetto dell’identità ebraica – come di ogni identità vulnerabile – non può essere affidato a dichiarazioni di principio, ma deve tradursi in grammatiche condivise, capaci di prevenire la ripetizione inconsapevole dei meccanismi che storicamente hanno condotto all’esclusione e alla persecuzione. L’etica organizzativa richiesta dalla Carta di Modena comporta l’introduzione di programmi formativi per i funzionari pubblici, dirigenti, docenti e dipendenti, che insegnino a riconoscere e decostruire gli automatismi semantici con cui si veicolano stereotipi antisemiti o generalizzazioni culturali. In questo senso, la Carta di Modena rappresenta un prototipo operativo di ciò che la Strategia UE e quella italiana auspicano: un framework normativo-culturale che consenta di costruire ambienti inclusivi senza appiattire le differenze, riconoscere le soggettività senza sacralizzarle, integrare i diritti culturali senza disgregare i vincoli comuni. 

Ecco che la Carta di Modena si colloca nel solco di una razionalità comunicativa che non tollera semplicemente la differenza, ma la assume come condizione di validità discorsiva delle pratiche istituzionali.

In linea con il Decreto Legislativo 125/2024 – che recepisce la Direttiva 2022/2464/UE estendendo la sostenibilità aziendale alla dimensione etico-sociale – la Carta interviene nella catena del valore con direttive pratiche per la tutela della libertà di religione nei contesti lavorativi. Spazi di preghiera, calendarizzazione inclusiva e politiche antidiscriminatorie diventano strumenti concreti di una governance etica orientata alla prevenzione di disuguaglianze latenti, in particolare verso le minoranze religiose storicamente vulnerabili, come quella ebraica.

Nel quadro della Strategia Nazionale contro l’Antisemitismo 2021–2030, essa si propone oggi come dispositivo articolato lungo tre direttrici: (1) il rafforzamento delle pratiche inclusive nel settore privato, con moduli formativi, audit etici e un marchio di conformità; (2) l’estensione al settore pubblico e scolastico tramite un Protocollo parallelo, capace di declinare la libertà religiosa entro i vincoli dell’imparzialità costituzionale; (3) l’attivazione di percorsi educativi che coniughino memoria della Shoah, educazione civica e riconoscimento del patrimonio culturale ebraico come risorsa viva e condivisa.

In questa prospettiva, la Carta intende promuovere l’implementazione di ulteriori strumenti operativi: una piattaforma digitale nazionale (Carta di Modena Lab), laboratori scolastici partecipativi, moduli formativi interculturali, una rete accademica per la valorizzazione del patrimonio ebraico e un osservatorio territoriale permanente. Si propone inoltre la promozione di iniziative pienamente coerenti con i principi e le disposizioni della Legge 133/2020, che ratifica ed esegue la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, adottata a Faro il 27 ottobre 2005.  In particolare, si vuole implementare un protocollo che si propone di riconoscere e valorizzare il patrimonio culturale ebraico – nelle sue dimensioni materiali e immateriali, religiose, storiche e linguistiche – come elemento fondativo della memoria collettiva italiana ed europea. La Convenzione di Faro definisce il patrimonio culturale non come un insieme statico di oggetti, ma come l’insieme delle risorse ereditate dal passato che le persone riconoscono come riflesso e parte della propria identità, dei propri valori, delle proprie credenze e tradizioni, e che desiderano trasmettere alle generazioni future.

Se si segue questa linea di pensiero, la trasmissione attiva della cultura ebraica nelle scuole, nelle università e negli enti pubblici non ha solo un valore educativo e simbolico, ma rappresenta un presidio democratico contro l’antisemitismo, capace di contrastare l’oblio, la marginalizzazione e la riduzione della cultura ebraica a mero oggetto musealizzato o confinato al ricordo della Shoah. Il patrimonio culturale ebraico è invece patrimonio vivente della Repubblica, espressione storica della pluralità italiana e fattore essenziale di quella “responsabilità condivisa” tra cittadini e istituzioni evocata dalla Convenzione di Faro. Promuoverne la conoscenza e la fruizione, integrarlo nei percorsi di educazione civica e valorizzarlo come risorsa per il dialogo interculturale significa rendere la lotta contro l’antisemitismo parte integrante di una politica pubblica per il patrimonio, fondata sulla partecipazione, sul riconoscimento e sull’inclusione.

In tal senso, il protocollo si impegna a incoraggiare progetti di educazione al patrimonio ebraico in chiave contemporanea, coinvolgendo studenti, docenti, funzionari e cittadini nella riscoperta di luoghi, memorie e saperi, con lo scopo di tradurre l’articolo 4 della Convenzione di Faro – sul diritto al patrimonio culturale – in una prassi istituzionale stabile e inclusiva. Questo approccio rende possibile una convergenza virtuosa tra il diritto alla libertà religiosa, la lotta all’antisemitismo e la costruzione di una cittadinanza europea fondata sul valore delle differenze e sulla capacità di riconoscerle come parte comune del futuro. 

Habermas ci ricorda che la democrazia si fonda su un presupposto fragile: che gli attori sociali riconoscano come legittime le norme che li vincolano, non per coazione ma attraverso un processo di deliberazione pubblica. Ma tale processo non si attiva se il mondo vitale – l’insieme delle forme di vita, delle narrazioni e dei simboli in cui i soggetti si riconoscono – viene colonizzato da linguaggi funzionali, indifferenti alla specificità dell’esperienza umana. È precisamente contro questa colonizzazione semantica che la Carta reagisce, proponendo una grammatica interculturale che restituisce voce a ciò che spesso, nelle organizzazioni, resta implicito, silenziato o ridotto a rumore di fondo: le identità credenti, le appartenenze invisibili, i bisogni simbolici che definiscono la persona non solo come lavoratore, ma come soggetto portatore di senso.

Questo è particolarmente evidente nel caso dell’identità ebraica, che nel contesto postmoderno europeo è esposta a forme di disconoscimento non sempre eclatanti, ma profondamente corrosive: la banalizzazione della Shoah, la confusione tra giudaismo e geopolitica, l’invisibilizzazione delle sue pratiche quotidiane nei luoghi della produzione e dell’educazione. L’antisemitismo, oggi, si alimenta proprio di questi slittamenti semantici, di queste distorsioni percettive che delegittimano l’altro senza bisogno di invettive, semplicemente non nominandolo, non vedendolo, non includendolo nei codici condivisi.

È in questo contesto che torna con forza la riflessione di Sergio Della Pergola: la percezione del dolore come criterio etico-politico della cittadinanza. Non il dolore eclatante, spettacolarizzato, ma quello silenzioso e quotidiano, che si consuma nelle soglie dell’invisibilità sociale: un commento ironico, un simbolo deriso, una festività ignorata, un bisogno religioso trattato come capriccio. La democrazia, suggerisce Della Pergola, si misura non sulla base delle dichiarazioni astratte, ma sulla capacità effettiva di ascoltare quel dolore, di riconoscerlo come linguaggio legittimo della convivenza.

La Carta di Modena, in questo senso, si configura come uno strumento di prevenzione epistemica: previene non solo il conflitto, ma l’incomprensione strutturale; non solo la discriminazione, ma l’anestesia semantica con cui si spengono le differenze. Essa non si limita a offrire garanzie formali, ma propone un modello trasformativo di governance, in cui l’identità vulnerabile – e quella ebraica, in particolare – diventa parametro critico per ripensare l’intero edificio normativo.

Contrastare l’antisemitismo significa, allora, costruire dispositivi normativi capaci di far emergere e legittimare la voce del dolore, là dove essa rischia di essere assorbita, neutralizzata o peggio: usata contro chi la esprime. Una società che voglia dirsi democratica deve saper tradurre quel dolore in diritto, senza ridurlo, senza giudicarlo, ma assumendolo come parte della propria grammatica pubblica.


 

Vincenzo Pacillo

 

Vincenzo Pacillo insegna Diritto e religione e Law and Religion all’Università di Modena e Reggio Emilia. Giurista formatosi a Milano e Perugia, ha insegnato in varie università europee — da Leicester a Lugano, fino a Istanbul — e si occupa del rapporto tra diritto, religione e democrazia. Nei suoi studi la laicità non è una parola d’ordine, ma un campo di tensioni da esplorare: uno spazio in cui il diritto misura la propria capacità di comprendere il pluralismo.