Il 15 luglio 2006 Amos Luzzatto[1] scriveva un’articolata riflessione sulla crisi mondiale in atto. Era appena esplosa la cosiddetta seconda guerra del Libano, scatenata dal rapimento da parte di Hetzbollah di alcuni soldati israeliani. Il presidente dell’Iran all’epoca era Ahmadinejad, un leader che sovvenzionava l’apparato militare di Hetzbollah in Libano e che si era fatto paladino di una campagna propagandistica tesa alla demonizzazione di Israele. In quei giorni si era accentuato l’utilizzo della svastica nazista, equiparata alla stella di Davide, simbolo dello Stato d’Israele e – per esteso – dell’ebraismo. Il tema dell’antisemitismo si imponeva, di conseguenza, come centrale nel determinare l’elaborazione di analisi politiche che prendevano a spunto la crisi mediorientale ma si estendevano su un piano globale.
Amos Luzzatto, che da pochi mesi aveva lasciato la presidenza dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), scriveva il testo di questa conferenza pubblica sintetizzando con accenti che oggi paiono lungimiranti, un quadro sociale e politico/culturale di rara chiarezza.
Amos Luzzatto è scomparso cinque anni fa, il 9 settembre 2020, all’età di 92 anni.
Che il suo ricordo sia di benedizione
Gadi Luzzatto Voghera[2]
A questo mondo esistono anche le coincidenze casuali, ma nello stesso momento in cui si rimprovera Israele della eccessiva severità della risposta militare, si tollera che il Capo di uno Stato diplomaticamente riconosciuto si faccia paladino della scomparsa dalla carte geografica di uno Stato, solo perché, come Stato ebraico, sarebbe un corpo estraneo in un Oriente musulmano; quando ci si permette di equiparare una stella a sei punte, simbolo della religione ebraica, alla svastica hitleriana, consapevoli di arrecare così un insulto inqualificabile a coloro che nei campi di concentramento e di sterminio ci sono materialmente stati, pensare a pure e semplici coincidenze significa vaneggiare.
Io mi pongo la domanda: che cosa si intende dimostrare, sottolineando il carattere ebraico dello Stato di Israele allorquando se ne condanna la politica?
Io mi pongo la domanda: che cosa si intende dimostrare, sottolineando il carattere ebraico dello Stato di Israele allorquando se ne condanna la politica?
Vi può essere una sola risposta: vi sarebbe un carico di aggressività repressa, nella religione e nella tradizione ebraica, che esploderebbe senza vincoli quando gli ebrei sono autodefiniti come uno Stato. Pertanto, bene avrebbero fatto gli antisemiti dei secoli scorsi discriminando e perseguitando gli ebrei, quale autentica profilassi ai pericoli derivanti da una loro acquisizione di potere.
In questo giudizio c’è, implicito, un ottimismo infantile e facilmente smentibile circa “gli altri Stati”, quelli non ebraici, che, nei fatti sono stati tutti, chi più chi meno, molto meno angelici di quanto si vorrebbe.
Esiste veramente questo retaggio di aggressività (e crudeltà)? No, una conoscenza approfondita della cultura e della storia degli ebrei non fornisce questo quadro.
Le frontiere politiche ci sono ancora, ma sono molto meno impermeabili di un tempo.
Se dobbiamo cercare un minimo di regolarità storica, credo che le ondate di antisemitismo abbiano due caratteri che si ripetono monotonicamente: prima di tutto, sono tendenzialmente “senza frontiere”, si ripetono e dilagano come un’onda di piena da un Paese all’altro; in secondo luogo, sono caratteristiche dei periodi di crisi, durante i quali coloro che reggono la cosa pubblica hanno bisogno del sostegno e della mobilitazione della gente, indipendentemente dal grado di tirannia che esibiscono. Il sostegno al potere e questa mobilitazione si ottengono a volte in senso negativo (identificando un nemico, e l’ebreo, eterno forestiero, si presta benissimo allo scopo); altre volte in senso positivo, esaltando senza limiti, con giustificazioni estetiche, intellettuali, morali i meriti della propria gente confrontati con i demeriti degli altri. Veri o, più spesso presunti, entrambi.
Le frontiere politiche ci sono ancora, ma sono molto meno impermeabili di un tempo.
Quanto alla crisi, siamo certamente in un momento di crisi. Le risorse del pianeta vanno consumandosi con una disequità che va crescendo. Una parte del mondo viene depredata di materie prime che, da sole, non producono ricchezza, e trasformate da industrie molto avanzate di Paesi ricchi che fanno loro acquisire un cospicuo valore aggiunto.
Molti altri Paesi non hanno né materie prime né industrie e vivono di prodotti agricoli primari che stanno perdendo qualsiasi valore di scambio. La stessa ricchissima industria della comunicazione ha contribuito in modo determinante a mobilitare il malcontento e la rivolta dei poveri. Mentre nelle generazioni passate il benessere dei Paesi ricchi si vedeva solo recandosi in quei posti privilegiati, cosa che era alla portata di una piccola minoranza, oggi il sistema della comunicazioni ha reso il modo di vivere dei ricchi un fenomeno di dominio pubblico.
Questa è in sintesi la crisi odierna.
Per disgrazia umana le grandi crisi storiche quasi sempre generano scontri violenti, guerre o rivoluzioni. La nostra generazione ci si sta avviando a passi accelerati.
Per disgrazia umana le grandi crisi storiche quasi sempre generano scontri violenti, guerre o rivoluzioni. La nostra generazione ci si sta avviando a passi accelerati.
Ma è paradossalmente difficile che siano le cause che materialmente hanno generato lo scontro ad essere quelle che mobilitano, con passione e con dedizione, le masse umane a partecipare allo scontro stesso. Anche perché difficilmente, tanto per fare un esempio, una crisi del mercato azionario potrebbe, esposta con cognizione di causa, generare una tale partecipazione di massa. Ma vi sono simboli sostitutivi più semplici. La negazione del “posto al sole” da parte delle ricche “plutocrazie” ha potuto a suo tempo mobilitare le masse per le imprese coloniali, fallimentari, dell’Italia “grande proletaria”. Il supposto complotto dell’inesistente internazionale giudaica spiegava la tragica galoppante inflazione della Germania dopo la I Guerra mondiale.
Oggi, paradossalmente, il cosiddetto Occidente offre su un piatto d’argento la motivazione, l’idea-guida al cosiddetto terzo mondo.
L’idea-guida sono i “valori” occidentali. Io non so bene che cosa siano. Se sono i valori della civiltà tecnica, perché non chiamarli “valori della tecnica”? Se sono i valori del Cristianesimo, va detto che si tratta della Trinità e della Transustanziazione, ammesso e non concesso che le masse siano pronte al sacrificio in nome di quest’ultima. Se sono i valori della democrazia rappresentativa, va capito meglio il compito riservato alle minoranze in queste nostre democrazie.
Una cosa è certa, però. Ai valori “occidentali” è facilissimo contrapporre controvalori, quelli delle masse povere la cui povertà, da condizione storica e materiale ancorché non fatalmente necessaria, viene presentata da capi politici del mondo islamico come una scelta spirituale che contrasterebbe l’edonismo occidentale.
Abbiamo così di fatto offerto la carta del fondamentalismo religioso islamico su un piatto d’argento a una classe politica sedicente rivoluzionaria, la quale però nei fatti utilizza proprio il petrolio e il suo mercato come strumento di potere e di contrattazione
Israele è immerso ai confini di questi due mondi, senza appartenere compiutamente né al primo né al secondo, ma rischiando di essere distrutto, come un vaso apparentemente di ferro ma realmente di coccio in uno scontro che si può prospettare spietato.
Credo però che gli uomini di cultura e di scienza dovrebbero unirsi senza perdere ulteriore tempo per una crociata antifondamentalista.
Non possiedo una ricetta da impiegare nel poco tempo rimastoci.
Credo però che gli uomini di cultura e di scienza dovrebbero unirsi senza perdere ulteriore tempo per una crociata antifondamentalista, fermo restando che non esiste un unico fondamentalismo, ma che, al contrario, ne esistono tanti; e, se questo è vero, è evidente che esiste un minimo comune denominatore fra tutti questi: il fanatismo che ritiene di possedere tutta la verità, depositata nelle mani di chi possiede il potere, che rifiuta ogni critica razionale, che rifiuta ogni espressione di dubbio con la minaccia e spesso con la prassi dell’esecuzione capitale.
E se fra questi protagonisti della cultura ci saranno anche gli ebrei, e se per questo diranno che la cultura è un’invenzione ebraica, che la “cultura è “tutta” ebraica, ebbene, lasciamoli dire; se fosse vero, per questa volta almeno questa calunnia potrebbe renderci felici.
Amos Luzzatto
Notes
1 | Amos Luzzatto (Roma, 3 giugno 1928 – Venezia, 9 settembre 2020) è stato un medico, scrittore e intellettuale italiano di origine ebraica. Nato in una famiglia di antica tradizione, è discendente del rabbino e storico Samuel David Luzzatto (Shadal) e del rabbino Dante Lattes. Nel 1939, a causa delle leggi razziali fasciste, emigrò con la madre e i nonni in Palestina, dove visse fino al 1946. Rientrato in Italia, si laureò in medicina e divenne chirurgo, esercitando la professione in vari ospedali italiani. Oltre alla carriera medica, Luzzatto si distinse come scrittore e saggista, con un particolare interesse per la storia e la cultura ebraica. Fu presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) dal 1998 al 2006. Nel corso della sua vita, ha ricoperto anche ruoli significativi nel dialogo interreligioso e nella promozione della memoria storica, in particolare riguardo alla Shoah. Tra le sue opere principali si ricordano Ebrei moderni (1989), Il posto degli ebrei (2003) e Una vita tra ebraismo, scienza e politica (2003). Ha inoltre tradotto e commentato testi biblici come il Cantico dei Cantici (1997) e il Libro di Giobbe (1991). |
2 | Gadi Luzzatto Voghera, veneziano, nato nel 1963, è storico e direttore della Fondazione CDEC di Milano. Studia la storia degli ebrei in Italia, l’antisemitismo e la secolarizzazione ebraica, intrecciando ricerca accademica e impegno nella memoria. Ha insegnato a Ca’ Foscari e al Boston University Study Abroad Program di Padova, e collabora con istituzioni come IHRA e il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah. Autore di libri e articoli, lavora per rendere accessibile a tutti la conoscenza della storia e della cultura ebraica contemporanea. |