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Il massacro del 7 ottobre 2023 ha provocato un terremoto la cui onda d’urto non ha smesso di attraversare il mondo ebraico. In Israele ha riattivato lo spettro del pogrom che lo Stato doveva rendere impossibile; nella diaspora ha rivelato la fragilità di una sicurezza che si riteneva acquisita. In una conferenza tenuta a Berna il 9 ottobre, lo storico Jacques Ehrenfreund interroga ciò che questo evento dice del nostro tempo: la fine del dopo-Shoah, la dissoluzione dei punti di riferimento morali europei, e la persistenza di un’ostilità che la storia sembrava aver squalificato.

Il 7 ottobre non ha soltanto riaperto la ferita del conflitto israelo-palestinese: ha fatto riemergere una frattura sotterranea nella coscienza occidentale, e in modo particolare europea. Ha messo a nudo il legame fra la storia del Vicino Oriente e quella del continente che ne osserva le esplosioni. Perché il 7 ottobre non è stato soltanto importato nei dibattiti europei: vi si è riflesso, rivelando la crisi interna di un’Europa incerta del suo retaggio post-Shoah e postcoloniale, e ormai divisa tra tre narrazioni inconciliabili ‒ l’occidentalista, l’anticoloniale e quella realmente europea. Al centro di questa frattura, una domanda ossessiva: che cosa resta dell’Europa, se non sa più riconoscere cosa significhi, qui come là, la resurrezione dell’antisemitismo?

Essere ebrei è una finzione, una messa in scena? Coinvolto nell’eccentrico gioco tra due mendicanti, Ruben Honigmann si diverte a lasciarsi destabilizzare fino a mettere in discussione la propria identità.

Tra sostenitori convinti e detrattori accaniti, il riconoscimento dello Stato palestinese cristallizza posizioni nette. Le rispettive argomentazioni sono difendibili, mirano sia alla sicurezza di Israele che al diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, ma la sfida è capire quali siano le reali conseguenze di un simile gesto: una dichiarazione di principio ha ripercussioni sul futuro?

L’Institute for Jewish Policy Research è un ente britannico la cui missione è studiare e sostenere la vita ebraica in Europa. In questa intervista, Jonathan Boyd, il suo direttore, discute le principali sfide che l’ebraismo europeo deve affrontare in un momento di cambiamento e riflette su come misurare e comprendere l’aumento dell’antisemitismo.

Il 15 luglio 2006 Amos Luzzatto[1] scriveva un’articolata riflessione sulla crisi mondiale in atto. Era appena esplosa la cosiddetta seconda guerra del Libano, scatenata dal rapimento da parte di Hetzbollah di…

Se il messianismo rappresenta senza dubbio la più grave minaccia interna per il futuro di Israele, esso si declina tuttavia al plurale. Perle Nicolle-Hasid e Sylvaine Bulle l’affrontano qui nella diversità delle sue correnti partendo da una questione fondamentale: il rapporto con il sionismo realizzato, cioè con lo Stato. Ma che si tratti dei realisti che cercano di fare dello Stato uno strumento del messianismo, o che si tratti dei puristi che se ne distaccano per vivere secondo l’Israele ancestrale, il presente della redenzione schiaccia l’orizzonte del sionismo. 

Accusata dal ministro dell’Istruzione israeliano Yoav Kisch di «ideologia anti-israeliana», la sociologa Eva Illouz si è vista contestare l’assegnazione dell’Israel Prize. Torna sulla vicenda, denuncia la deriva autoritaria del governo Netanyahu e difende la sua posizione intellettuale critica, universalista e profondamente legata allo Stato di Israele. Per Illouz «questo governo si comporta come se coloro che lottano affinché Israele non diventi uno Stato paria fossero dei nemici».

In occasione della Giornata internazionale dei diritti delle donne, K. ha pubblicato un testo un po’ anomalo rispetto alla sua linea abituale. Una giovane donna ebrea ci ha inviato un manoscritto che, riprendendo il famoso SCUM Manifesto scritto nel 1967 dall’attivista femminista radicale Valerie Solanas, esprime con virulenza la sua rabbia nei confronti del mondo ebraico, sordo alle richieste di emancipazione delle donne. Questa rabbia è l’espressione politica che otteniamo reprimendo ciò che è pronto ad esplodere. 

Su impulso delle famiglie degli ostaggi e di gran parte della società civile, il 17 agosto sarà sciopero generale, per denunciare la strategia militare a Gaza, considerata un vicolo cieco e un aggravamento delle conseguenze della guerra per i civili palestinesi, per gli ostaggi e per i militari israeliani. Prima mobilitazione di ampia portata dopo la crisi relativa alla riforma giudiziaria nel 2023, fotografa la frattura politica in Israele. Bruno Karsenti vi legge il richiamo a questioni fondamentali: il principio fondante dello Stato ebraico e il futuro del progetto sionista.