Sono una storica ebrea della Diaspora e non sono mai andata in «gita» a Auschwitz

In Italia, la memoria della Shoah viaggia su binari tortuosi. Le Monde lo segnala senza indulgenza: politica e commemorazione spesso si intrecciano male, e le parole di una ministra hanno acceso polemiche anche oltre confine. Serena Di Nepi, storica della Diaspora, prende un’altra via: racconta perché non ha mai partecipato al Viaggio della Memoria ad Auschwitz, tra esperienza personale e riflessione storica, mettendo a fuoco il cortocircuito tra memoria pubblica e memoria familiare, e mostrando come la memoria ebraica sappia continuare a respirare anche lontano dai riflettori.

 

Viaggio della Memoria 2024 ad Auschwitz-Birkenau – Istoreco

 

Sono una storica ebrea della Diaspora e non sono mai andata in «gita a Auschwitz». Le parole infelici, o quanto meno inutilmente leggere, pronunciate da una ministra della Repubblica Italiana durante un convegno promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per tirare le fila amare del discorso pubblico nel paese su Israele, ebrei e ebraismo, a due anni dal 7 ottobre, hanno chiamato in causa decenni di lavoro sulla memoria. A partire, appunto, dai viaggi. 

Per una serie di casi della vita, non ho mai preso parte a un Viaggio della Memoria, occasioni che pure da tempo segnano innumerevoli appuntamenti della vita civile nella penisola e che, da storica ebrea che si occupa di storia degli ebrei in Italia, avrebbero proprio dovuto riguardarmi. Il primo motivo è, in qualche modo, scientifico: mi occupo di età moderna e quindi sono cronologicamente esentata dagli aspetti più bui e dolorosi del mestiere. L’ho fatto per scelta, quando ho capito che sarei voluta diventare una storica e ho deciso che avrei evitato, per quanto possibile, di avere a che fare professionalmente con il buco nero della Shoah. Poi è capitato che me ne sia occupata, ma mai studiando di giorno e di notte cose che mi avrebbero levato il sonno e preferendo, per l’appunto, i ghetti e l’Inquisizione romana ai nazisti. 

La Shoah era un box nel manuale di storia dell’ultimo anno e poco altro.

Il secondo motivo è generazionale. Mi sono diplomata nel 1998 quando ancora questi viaggi non erano diventati pratica comune e, in generale, nelle scuole italiane di Shoah si parlava poco. Nel 1993 era uscito nelle sale Schindler List, il capolavoro di Steven Spielberg e credo, ma non ne sono poi così sicura, che a un certo punto del mio primo anno in un prestigioso liceo classico del centro di Roma, la mia classe sia stata portata a vederlo. Senza alcuna preparazione prima o dopo, in una di quelle classiche matinè cinematografiche che fanno la gioia di studenti e studentesse, per un giorno liberi dalla versione di greco e da quella di latino. All’epoca, la Shoah era un box nel manuale di storia dell’ultimo anno e poco altro; e non mi pare di ricordare di essere mai stata chiamata a raccontare ai miei compagni la storia della mia famiglia, come invece oggi capita (o meglio capitava) regolarmente agli studenti ebrei nelle scuole pubbliche in occasione degli anniversari del calendario civile. 

Nel tornante degli anni Duemila la svolta fu, appunto, l’istituzione del 27 gennaio come Giorno della Memoria, con una legge votata all’unanimità dal Parlamento italiano il 20 luglio del 2000, con cinque anni di anticipo rispetto al Parlamento Europeo. Due anni più tardi, il Ministero dell’Istruzione, organizzava il primo viaggio ufficiale della Memoria che aveva a bordo studenti, ebrei sopravvissuti ai campi, esponenti del governo e rappresentanti delle istituzioni ebraiche. Non era il primo viaggio d’Italia: nei decenni precedenti spedizioni si erano susseguite su iniziativa di singoli e di un ventaglio di associazioni legate, per l’appunto, alle storie della deportazione. Ma quello del 2002 aveva un suggello istituzionale, annodava i fili di una collaborazione sulla Memoria tra storici, scuole, governo, testimoni e istituzioni ebraiche (che avevano contribuito a progettare l’iniziativa) all’interno di un percorso condiviso di valori e di cittadinanza su cui ci si impegnava a non tornare indietro e che rappresentava un passaggio il cui significato non sfuggì a nessuno. 

Il peso della memoria è addossato sulle vittime e sugli ebrei di oggi chiamati a tenere accesa la fiaccola della Shoah, una certa stanca liturgia della celebrazione e parecchi automatismi (…) utile a lavare le coscienze della società maggioritaria. Ricordiamo una o più volte l’anno – e a questo punto siamo a posto. 

E così, in effetti, è stato. Centinaia di viaggi, migliaia di studenti, riflessioni sulla loro progettazione e sul loro esito, un impegno strenuo – spesso ai limiti del tollerabile – dei testimoni e un posto centrale per le istituzioni ebraiche. Come gli scettici notarono dai primi anni, tutto questo rischiava di diventare qualcosa di diverso da quanto auspicato: il peso della memoria addossato sulle vittime e sugli ebrei di oggi chiamati a tenere accesa la fiaccola della Shoah, una certa stanca liturgia della celebrazione, parecchi automatismi e forse una sorte di inconsapevolezza di fondo utile a lavare le coscienze della società maggioritaria. Ricordiamo una o più volte l’anno – e a questo punto siamo a posto. 

Ci sono docenti che inseriscono la Shoah in percorsi formativi larghi e approfonditi, (…) altri che adempiono al dovere con la proiezione di un film in aula e due parole di circostanza; ce ne sono ancora che non fanno nulla. Il loro numero sembrerebbe in crescita nel mondo del dopo 7 ottobre, tra imbarazzi, un diffuso fastidio per le pretese degli ebrei e molte sovrapposizioni inappropriate. 

Se anche l’intersezione tra l’organizzazione dei viaggi e gli appuntamenti obbligati del 27 gennaio (insieme a quelli locali che ricordano le deportazioni e le razzie cittadine dell’autunno del 1943) ha assunto in qualche caso il tono del rito senza anima e senza coscienza, credo, però, che la valutazione di questo pacchetto imponga di tenere separati i molti piani che lo compongono. In linea di massima, i viaggi sono pensati nella cornice di percorsi lunghi e gli studenti vengono accompagnati ai cancelli di Auschwitz all’interno di un progetto educativo più ampio, che prevede incontri prima e dopo e guide attente e preparate sul posto. È un viaggio difficile e che non si fa a cuor leggero. Certo, le eccezioni sono sempre possibili ma è sufficiente una rapida ricerca su internet per constatare quale e quanta attenzione segni questi progetti, che tutto sono meno che spedizioni in discoteca e all’avventura. Diverso, sicuramente, l’effetto della chiacchierata obbligatoria del 27 gennaio: ci sono docenti che inseriscono la Shoah in percorsi formativi larghi e approfonditi, talvolta di durata annuale e con il coinvolgimento di esperti; ce ne sono altri che adempiono al dovere con la proiezione di un film in aula e due parole di circostanza; ce ne sono ancora che non fanno nulla e il loro numero sembrerebbe in crescita nel mondo del dopo 7 ottobre, tra imbarazzi, un diffuso fastidio per le pretese degli ebrei e molte sovrapposizioni inappropriate. 

Resta il fatto che oggi la scuola fa cose che fino agli anni Novanta non si facevano e che grazie a questo la Shoah è entrata nelle coscienze degli italiani, con tutte le debolezze e le contraddizioni che questo approccio ha portato con sé; ma che, appunto, segna un prima e un dopo, in cui nel prima c’era molto poco (forse niente) e nel dopo c’è moltissimo, anche se con difetti. Negli anni Novanta, la scuola alla me studentessa non ha mai chiesto nulla e i miei amici e conoscenti non ebrei, da adolescente, non si sono preoccupati affatto di capire per quali casi della storia fossi nata e come avessero fatto i miei nonni a sopravvivere alla Shoah. Più volte sono stata interrogata su Israele e sui suoi innumerevoli e sicuri torti; assai di rado su quell’altra parte della mia parecchio sbandierata identità ebraica.

La scuola fa cose che fino agli anni Novanta non si facevano e grazie a questo la Shoah è entrata nelle coscienze degli italiani, con tutte le debolezze e le contraddizioni che questo approccio ha portato con sé; ma, appunto, c’è un prima e un dopo, in cui nel prima c’era molto poco (forse niente) e nel dopo c’è moltissimo.

I miei figli, oggi tra ultimi anni di liceo e primi di università, hanno avuto esperienze diverse una volta approdati nelle scuole pubbliche: i loro compagni di classe avevano letto e studiato le pagine di Primo Levi e di Anna Frank già nei cicli precedenti (quando invece alla scuola ebraica avevano affrontato la questione con estrema prudenza) e con cadenza regolare sono stati invitati calorosamente a raccontare le storie di famiglia il 16 ottobre (l’anniversario della grande deportazione degli ebrei di Roma) e il 27 gennaio. Un’attenzione obbligata, che nelle classi in cui per caso c’è uno studente ebreo risolve il problema della Memoria addossandolo sulle sue giovani spalle di vittima eterna e creando un cortocircuito dalle conseguenze prevedibili e con cui ora si fanno i conti. Ma resta il fatto che, appunto, si registra uno scarto e che questo scarto ha un suo indubbio valore positivo. 

Ma torniamo ai viaggi. Se nel sistema di istruzione pubblico sono comparsi solo negli anni duemila, la Memoria ebraica ha seguito tutte altre vie. Nel 1996 (o forse 1997) in un campeggio invernale del Benè Akiva, in occasione del digiuno del 10 di Tevet, il gruppo di Milano raccontò l’esperienza appena vissuta di un viaggio nei campi, organizzato dalla locale scuola ebraica. E ricordo le foto di Majdanek e il commento agghiacciato di chi, mostrandole, diceva: «là basta spingere un pulsante e le camere e i forni tornano a funzionare in meno di un’ora». Ora, tanti anni più tardi, credo che quella riflessione a alta voce sia uno dei motivi per cui non ho mai trovato il coraggio di partire e di studiare certe questioni: alla fine siamo al mondo per caso e vedere dal vivo e in prima persona la portata di quel caso rischia di rendere ancora più difficile l’impresa di tenere insieme i frammenti di questa dolorosissima consapevolezza. 

Mio marito, che è un po’ più grande di me, ha partecipato giovanissimo alla Marcia della Vita, organizzata annualmente dall’Hashomer Hatzair in ricordo di quella della Morte e che costituisce una tappa nodale del percorso di formazione di questo movimento giovanile. E ricorda quel viaggio come una prova durissima, un passaggio essenziale della sua crescita di ebreo e da fare solo e soltanto in un contesto ebraico di condivisione di storie, emozioni e traumi tra chi può capire e soffrire allo stesso modo. Una delle nostre figlie ha fatto lo stesso viaggio la scorsa primavera, mettendomi ancora una volta di fronte a tutto ciò che ho sempre rifiutato di voler toccare con mano. Buffi incastri hanno voluto che mentre lei e il suo gruppo camminavano attraverso quei luoghi e quelle storie – e tra loro c’erano nipoti di sopravvissuti che hanno viaggiato con i diari dei nonni nello zaino – mi trovassi a un convegno di storici e un collega non ebreo, ma esperto di Shoah e di memoria e che di viaggi ne ha fatti tanti, mi spiegasse passo passo cosa stesse guardando e vivendo quel manipolo di ragazzi ebrei italiani. Mia figlia è tornata provata, straordinariamente determinata, convinta che sia un viaggio da fare una volta (e una sola) nella vita e pronta come mai prima a proteggere la sua diversità ebraica in una società ogni giorno più ostile e pericolosa. Ma questo non significa che la sua identità ebraica sia schiacciata sulla Shoah o limitata ad essa. Siamo ebrei nonostante la Shoah e il nostro ebraismo non dipende dal fatto che qualcuno abbia fatto di tutto per cancellarci dalla storia (e ci sia quasi riuscito). 

Il Giorno della Memoria si è trasformato in un appuntamento ebraico, spesso l’unica occasione dell’anno in cui gli ebrei, le loro istituzioni e la loro storia sono protagonisti indiscussi. 

Mi pare che il cortocircuito stia, in larga misura, proprio in questo viluppo di contraddizioni che mettono in tensione la costruzione memoriale non ebraica e quella ebraica. Da una parte, l’ineluttabile centralità dei sopravvissuti e dei testimoni nella memoria ha finito per tradursi in uno scollamento tra le vittime – nel loro ruolo di e involontari protagonisti di una tragedia senza pari –, i carnefici e il meccanismo dello sterminio nel suo complesso. Il Giorno della Memoria si è trasformato in un appuntamento ebraico, spesso l’unica occasione dell’anno in cui gli ebrei, le loro istituzioni e la loro storia sono protagonisti indiscussi. Impensabile mettere su una cerimonia per il 27 gennaio senza chiamare il rabbino, il presidente della comunità e l’esperto ebreo di turno a raccontare. Il che va benissimo, e sarebbe assai sbagliato non farlo: ma porta con sé ricadute a cascata, tra le quali spicca l’identificazione intuitiva degli ebrei come le vittime per eccellenza, pure e disposte al sacrificio. Nel discorso pubblico, gli ebrei possono solo soffrire, insegnare diritti umani universali e come evitare di commettere altre atrocità, in nome di questa assoluta sofferenza. Un gioco delle emozioni, in cui prevalgono lacrime e ansie ed in cui raramente si ragiona sull’evento in sé, sui carnefici, sui collaborazionisti, sugli ignavi, sui meccanismi giuridici di esclusione e discriminazione e anche sulla lunga storia dell’antiebraismo, con i suoi tornanti, le sue fratture e i suoi terribili elementi di continuità non causale. A riprova di ciò, se ai ragazzi ebrei si chiede di rievocare le storie dei nonni tra persecuzione dei diritti e persecuzione delle vite, a nessuno viene in mente di chiedere ai ragazzi non ebrei che cosa facessero i loro nonni in quegli stessi anni. E le poche volte che se ne parla, escono fuori vicende esemplari di salvataggio, con numeri e cadenza che suscitano qualche dubbio, e mai vicende di denuncia di ebrei alle autorità o esperienze di corresponsabilità di qualunque tipo. Il discorso generalista sulla Shoah è così, per forza di cose, un discorso dai contorni astorici e sfumati, svincolati dalla Prima e dalla Seconda guerra mondiale, dallo stato totalitario e, appunto, dalla radicale trasformazione delle società europee del Novecento. Un qualcosa di orribile che è capitato agli ebrei, che è un po’ più orribile di altre cose orribili e che ci si augura non succeda più a nessuno. 

Nel privato, soprattutto nelle case ebraiche, l’operazione memoria continua a seguire altri schemi, incapsulata come è nei racconti e nel DNA delle famiglie. 

Nel privato, soprattutto nelle case ebraiche, l’operazione memoria continua a seguire altri schemi, incapsulata come è nei racconti e nel DNA delle famiglie. Difficile sia identificare il momento in cui, da bambini, si scopre la Shoah – e le vie che hanno portato nonni e bisnonni a uscirne vivi – sia ricostruire con ragionevole certezza l’occasione in cui quelle vicende sono state raccontate per la prima volta, da genitori, alla nuova generazione perché se ne facesse carico. È qualcosa che fa parte di come si viene cresciuti e che, in quanto tale, si incista nel patrimonio culturale e identitario, insieme alle ricette dei dolci di Pesach e alle canzoncine di Chanukkah

Ma nonostante questo, non è la Shoah a tracciare i contorni delle nostre appartenenze ebraiche e a determinare chi siamo. E l’enorme difficoltà con cui oggi nel discorso pubblico si ragiona sulle devastazioni del tempo presente, sulle migliaia di vittime, sulla guerra e su Israele in qualche modo riflette questo scollamento. Chiamare in causa continuamente un passato che si vuole rileggere in termini politici e attualizzanti, ribaltando retoricamente nomi e ruoli di vittime e carnefici riflette, in parte, proprio questa sfasatura sulla memoria: da una parte, una costruzione narrativa in cui prevalgono il rispetto e la solidarietà con le vittime, che solo vittime possono essere; dall’altra, la strenua e micidiale  consapevolezza che la Shoah non è storia ebraica, è una tragedia cascata addosso agli ebrei dopo innumerevoli altre tragedie e che gli ebrei si sono trovati ad affrontare da soli. Come ha scritto Riccardo Di Segni, il rabbino capo di Roma, in un libro a quattro mani con Gad Lerner, la lettura ebraica di tutto questo non è il semplice (e un po’ banale) «mai più», ma un monito spaventevole che si riassume con «mai più impuniti» .

Tornando ai viaggi che non ho fatto e alle storie che non ho voluto studiare, c’è un aspetto che mi ha molto colpita in questa corsa a richiamare pezzi di passato e di presente ebraico scatenata dal 7 ottobre e dalla guerra che ne è seguita. Si è parlato di crimini, di stragi e di genocidi, si sono accusati gli ebrei di Israele di molte cose e quelli della Diaspora di silenzi corresponsabili e compartecipazione. Toni, parole e frasi inaccettabili pervadono il parlare comune, fino a tradursi, quasi ovunque, nel ritorno a una vita ebraica in condizioni di isolamento, incomprensione e pericolo che si sperava fossero relegate a tempi oscuri e lontani. Non si è invece visto e commentato lo straordinario moto di solidarietà globale e impegno collettivo ebraico sulla sorte degli ostaggi che, invece, solletica la curiosità e la sensibilità degli storici come me, quelli esperti di cose ebraiche assai remote. Gli ebrei del Mediterraneo e d’Europa hanno per secoli accumulato denari per il riscatto dei prigionieri. Gli archivi delle comunità ebraiche, con i loro libri di conto e le loro corrispondenze, tengono traccia del prelievo fiscale a questo scopo, delle raccolte fondi e dell’attivazione di reti finanziarie e diplomatiche nazionali e internazionali per liberare gli ebrei schiavi ovunque fossero tenuti prigionieri. In un libro recente, Adam Teller ha ripercorso la storia straordinaria dell’impegno collettivo ebraico per riscattare uomini, donne e bambini vittime del pogrom del 1656 nel Commonwealth Polacco Lituano, finiti sul mercato schiavistico ottomano e al centro di un’operazione di liberazione senza precedenti per numero dei rapiti, fondi raccolti e convogliati, durate e dimensione dello sforzo generale. Nei giorni immediatamente successivi al pogrom del 7 ottobre, mentre iniziavano a circolare le immagini terrificanti di persone trascinate legate e sanguinanti a Gaza, i miei pensieri sono tornati anche a quei racconti di schiavitù e si sono trovati all’improvviso a caricare di significato la benedizione per la liberazione dei prigionieri, che i più osservanti tra noi recitano tre volte al giorno nelle Diciotto benedizioni. Sembrava un retaggio lontano, un avanzo archeologico di tempi antichi e invece, all’improvviso, tornava d’attualità e dimostrava che il Rinascimento in cui mi ero illusa di trovare rifugio fosse un posto un po’ meno sicuro e protetto di quanto avevo sperato. Nei due anni successivi, fino al cessate il fuoco del 13 ottobre del 2025 e al rilascio degli ultimi ostaggi superstiti, le famiglie in Israele hanno condotto una campagna senza precedenti per la liberazione dei loro cari: hanno fatto pressione sul governo e sul mondo, sono andati a perorare la loro causa in ogni sede che abbia voluto accoglierli, dal Vaticano alle Nazioni Unite alle Convention per le elezioni presidenziali americane. In tante città d’occidente si sono tenute marce e camminate una volta a settimana per ricordare i rapiti e si sono organizzate innumerevoli iniziative per tenere accesa l’attenzione sulla sorte di queste persone intrappolate nei tunnel di Hamas. Spesso, purtroppo, nell’indifferenza generale, che non ha considerato le vittime di Hamas degne della stessa pietà delle altre, troppe, vittime del conflitto.

Gli ebrei del mondo non hanno mai rinunciato e hanno tenuta viva la fiammella della speranza, convinti che alla fine qualcosa di buono e di giusto sarebbe successo.

Eppure, i parenti e gli ebrei del mondo non hanno mai rinunciato e hanno tenuta viva la fiammella della speranza, convinti che alla fine qualcosa di buono e di giusto sarebbe successo. Come poi in effetti è stato. Nel 1984, Yosef Haim Yerushalmi diede alle stampe tre lezioni Toward a History of Jewish Hope, in cui si soffermava sul messianesimo e sulla possibilità di una storia controcorrente della speranza ebraica. Nell’enormità e nell’incommensurabilità dell’orrore del tempo ebraico presente, contro ogni previsione, gli ultimi due anni hanno dato concretezza proprio a quella visione: e forse, se vogliamo provare a uscire dallo schiacciamento sulla figura della vittima perfetta (col suo ritratto speculare e distorto del colpevole ideale) varrebbe la pena di riprendere in mano quella domanda e quel filo di ottimismo che in qualche modo accompagna tutti i capitoli di questa nostra storia degli ebrei così difficile e dolorosa.  


 

Serena Di Nepi

Serena Di Nepi insegna Storia Moderna presso Sapienza Università  di Roma. Si occupa di storia delle minoranze e della differenza religiosa in Italia, con particolare attenzione alla comunità ebraica in età moderna. Tra le sue opere principali: Sopravvivere al ghetto (2013, trad. inglese 2020) e I confini della salvezza (2022). Coordina progetti di ricerca sulla storia degli ebrei in Italia, tra cui l’atlante digitale IN-ITALJA, e ha partecipato alla creazione del portale “1938-Sapienza Leggi razziali” (https://1938-sapienza-leggirazziali.it/Sito/), che ricostruisce l’impatto delle leggi razziali all’interno della Regia Università di Roma. È stata visiting researcher presso istituzioni internazionali in Europa, Israele e negli Stati Uniti