Palestina: riconoscere, e poi?

Tra sostenitori convinti e detrattori accaniti, il riconoscimento dello Stato palestinese cristallizza posizioni nette. Le rispettive argomentazioni sono difendibili, mirano sia alla sicurezza di Israele che al diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, ma la sfida è capire quali siano le reali conseguenze di un simile gesto: una dichiarazione di principio ha ripercussioni sul futuro?

 

I posti della delegazione israeliana vuoti durante il discorso di Emmanuel Macron alle Nazioni Unite il 22 settembre (Screenshot, BFM TV)

 

La Carta delle Nazioni Unite stabilisce che possono diventare membri della sua assemblea solo gli “Stati pacifici” che si impegnano a rispettare il contenuto della Carta stessa. La Palestina non è certamente pronta a diventare membro a pieno titolo dell’ONU, poiché è prevedibile che il veto degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza continuerà a impedirlo. Tuttavia, ormai la stragrande maggioranza degli Stati membri dell’Assemblea ha riconosciuto unilateralmente lo Stato di Palestina, rafforzando la consapevolezza comune che l’autodeterminazione del popolo palestinese ha oggi la precedenza su ogni altra considerazione. La Francia, ma anche Portogallo, Inghilterra, Australia e Canada, si sono ora uniti a questo gruppo.

L’intenzione di questi ultimi, chiaramente, non è antisionista, nel senso che gli interessi di Israele come Stato sovrano sarebbero, nel loro spirito, minacciati da un simile gesto. Se l’intenzione suscita preoccupazione in gran parte dell’opinione pubblica ebraica, che si interroga sulla scelta del momento, è impossibile non vedere nella gravità della situazione la necessità di impedirne il protrarsi. L’intenzione della dichiarazione di riconoscimento è quella condivisa da tutte le posizioni illuminate al momento attuale: avanzare su una strada attualmente bloccata, far saltare il principale ostacolo al cambiamento di rotta intrapreso in sequenza da Hamas, quando ha perpetrato i crimini del 7 ottobre e dal governo israeliano quando ha perseverato in una guerra diventata criminale. La distruzione di Gaza, la crescente colonizzazione in Cisgiordania e l’ostinazione della politica israeliana in una riprovevole fuga in avanti obbligano la comunità internazionale a impegnarsi non solo affinché la guerra cessi e il potere terroristico intransigente di Gaza deponga le armi e liberi gli ostaggi, ma anche affinché si instauri un altro assetto in cui il conflitto diventi diversamente gestibile su tutti i fronti.

In quest’ottica, l’opzione del riconoscimento dello Stato palestinese è considerata la più pertinente, perché è la più radicale. È radicale in quanto afferma che esiste uno Stato, attualmente sotto il fuoco e l’oppressione di un altro Stato. Si giustifica con la contestazione delle dichiarazioni dei politici israeliani di destra e di estrema destra che affermano che non ci sarà mai uno Stato palestinese. Ma per cambiare davvero le carte in tavola nel conflitto in corso, occorre qualcosa di più di ciò che viene proclamato. Radicale a parole, questa opzione deve ancora essere adeguata ai fatti.

Il divario tra i vincoli imposti dalla realtà e l’obiettivo dichiarato rimane enorme. Ciò che si riconosce vale solo perché lo si dichiara, e ciò che si dichiara è tutt’altro che a portata di mano.

Affinché la configurazione auspicata emerga realmente dal bel gesto, sono necessarie condizioni su cui regna l’incertezza. Nella situazione attuale è certamente necessario un intervento coercitivo. E se fosse raggiunta con certezza la cessazione dei combattimenti e delle atrocità in corso, ovvero l’effetto principale desiderato, ciò basterebbe a giustificare il bel gesto senza la minima esitazione. Ma sappiamo bene che allo stato attuale delle cose non è così. L’argomento della pressione esercitata sull’attuale governo israeliano non regge, fintanto che tale pressione rimane più simbolica che reale e non raggiunge il suo obiettivo specifico, ovvero ostacolare efficacemente l’azione bellica. Azione che, tuttavia, non può vedere erodersi il sostegno di cui gode nell’opinione pubblica israeliana, e più in generale ebraica, se non viene esercitata contemporaneamente un’altra pressione sulle forze palestinesi, da sempre determinate a distruggere lo Stato ebraico. Senza questa simmetria nel modo di intervenire a livello internazionale, permane il rischio di rafforzare Israele nell’isolamento “spartano” e quindi indefinitamente bellicoso proclamato dal suo leader. Se si vuole procedere efficacemente verso la nuova configurazione auspicata, è infatti impossibile non tenere conto dei movimenti che attraversano l’opinione pubblica israeliana. E quest’ultima, anche nella sua parte più progressista e favorevole al rilancio della soluzione dei due Stati, vede per il momento con grande scetticismo il riconoscimento di principio dello Stato palestinese e non può fare a meno di sottolineare che, puntando alla pacificazione con un’attuazione così fragile, è sempre possibile che si verifichi di fatto un nuovo ciclo di violenze.

In queste condizioni le parole pronunciate da Emmanuel Macron il 22 settembre all’ONU ci trovano intrappolati in una posizione ingestibile tra il desiderio e la speranza e, perché non ammetterlo, anche nella redazione stessa di K. ci sono divergenze. La speranza è ovviamente ciò che chi si dichiara vuole esclusivamente vedere e far vedere: «È giunto il momento…». Ma si teme che si tratti solo di un pio desiderio. La speranza è più forte del desiderio, perché mira a qualcosa che si percepisce come realizzabile in un futuro prossimo, a patto che lo si voglia. Il desiderio è più debole, non perché sia meno forte, ma perché sa di poter evocare il suo oggetto solo in modo astratto, in una situazione che dipende da così tante condizioni da tenere come sospesa la sua realizzabilità.

In conformità con la dichiarazione di New York del 29 luglio, preludio all’atto di riconoscimento che ha appena avuto luogo, sono state nuovamente ribadite la necessità della smilitarizzazione, la restituzione degli ostaggi, l’esclusione di Hamas, il trasferimento del potere all’Autorità palestinese e la costituzione di una forza internazionale che la sostenga, la programmazione di elezioni libere entro un anno dall’insediamento del nuovo governo – in breve, si cerca di avvicinarsi il più possibile alle condizioni fissate dall’ONU per definire degli «Stati pacifici». Ma per il momento, il divario tra i vincoli imposti dalla realtà (dal momento che è necessario un cessate il fuoco senza la resa di Hamas, che rimarrebbe quindi al potere a Gaza) e l’obiettivo dichiarato rimane enorme. Ciò che viene riconosciuto si regge solo sul fatto che è stato dichiarato, e ciò che è stato dichiarato è tutt’altro che a portata di mano. Insomma tra il desiderio e la speranza il primo prende inevitabilmente il sopravvento sul secondo non appena si guarda in faccia la realtà. Qualunque cosa si voglia, questo è il limite del gesto compiuto, anche dando credito alle intenzioni che si propone e anche condividendole.


La redazione