Non siamo mai altro che il penultimo ebreo

A dicembre 2024 la redazione di K. ha portato la rivista a teatro. Il tema della serata, che ha visto la redazione alternarsi sulle tavole del palcoscenico, era “L’ultimo degli ebrei”. Ci sono state interviste dal vivo, video, letture e interventi musicali, e Ruben Honigmann ha proposto un ragionamento sulla fine infinita. Questo il suo testo.

 

Un uomo ebreo a Kfar Shalem, nel 1969.

 

Converrete che è incongruo parlare di solitudine quando ci si trova in presenza di 600 interlocutori, quanti siete voi in questa sala.
Questa cosa mi riporta alla mente un motto di spirito che circolava nell’Europa dell’Est prima della Shoah: si diceva che il giorno in cui l’ultimo ebreo di Odessa avrebbe lasciato la sua città, in fuga dai pogrom, ci sarebbero sempre stati una cinquantina di ebrei a scortarlo fino alla barca, per salutarlo.

È quanto dimostra Deleuze nel suo famoso abbecedario, alla lettera B di Boisson, bevanda: l’ultimo bicchiere è in verità sempre il penultimo. 

Anche l’ultimo ebreo è sempre il penultimo ebreo.

Allora, visto che io sono l’ultraortodosso del gruppo, e K. è la prima lettera di kippah, vediamo come questa idea dell’ultimo che non è mai veramente l’ultimo si articola in ebraico, la lingua di coloro che fin dal primo giorno della propria esistenza si sono considerati “il minore dei popoli”.[1] In ebraico fine si dice Sof. Per dire infinito, per esempio, si dice Ein-sof, senza fine. D’altra parte, se si vuole dire che una cosa non è solo finita, ma proprio “finita finita” – se qualcosa può essere più finito del finito – si dice sof-sof.

Il problema è che Sof può anche significare l’esatto contrario di fine, ossia “continuazione”, un cosa che in francese capita anche con la parola che, a seconda del contesto, viene pronunciata plu o plus.
Quando lo vediamo per iscritto abbiamo sempre un momento di esitazione: dobbiamo pronunciare la s o no, significa “stop” o “bis”?
In inglese è ancora peggio: last significa ultimo, ma il verbo to last significa resistere, fare in modo che la cosa non vada perduta, che non sia lost.

E non c’è nemmeno bisogno di ricorrere a Raymond Devos per ricordare che la parola rien, etimologicamente, significa “qualcosa”, da cui l’espressione trois fois rien “tre volte niente”, perché anche quando diciamo che non c’è niente c’è almeno qualcuno che lo dice.

Ma torniamo all’ebraico, la radice Sof si trova in un nome molto comune: Giuseppe, in ebraico Yossef, che significa sia continuerà che cesserà.

E non è certo un caso che gli autori dei Vangeli abbiano dato a Gesù un padre di nome Giuseppe.
La radice Sof, infatti, fa regolarmente la sua comparsa nella Torah, preferibilmente in intrecci narrativi dalla forte carica messianica[2], quando la Storia è in procinto di partorire, in momenti di confusione e di abolizione della temporalità. E sistematicamente i commentatori discutono ferocemente: è un prima volta o una ultima, una fine o un inizio, uno one-shot o un avvenimento eterno?

Il momento che cristallizza questa tensione è Purim, la festa che commemora il primo progetto di sterminio degli ebrei. Alla fine della Meghillat Ester (la pergamena che ne racconta la storia), quando il dado è già stato tratto e il genocidio sventato, il testo parla delle sue conseguenze. Che sarà della memoria di questa fine evitata?
Lo yasouf mizaram[3] dice: questa storia non scomparirà tra gli ebrei.
I maestri del Talmud concludono che nell’era messianica tutti i testi saranno obsoleti tranne la storia di Purim, memoria della possibilità di estinzione.
Un modo per dire: lettore, ricordati che ci sono stati altri ultimi prima di te.

Essere ultimi sarebbe allora la condizione stessa dell’eternità. 

Perché, in verità, non c’è forse bisogno di decidere tra la fine e la continuazione: essere ebreo fondamentalmente è essere l’ultimo ebreo. Ogni ebreo, in ogni epoca, è l’ultimo degli ebrei. Ultimo ebreo è un pleonasmo che delinea cosa significa essere ebrei: stare in equilibrio sul margine dell’abisso, a cavallo tra l’estinzione e l’eternità.

Ruben Honigmann, “K. in scena”, al Théâtre de la Concorde, 5 dicembre 2024

Ma è comprensibile che questa tensione possa dare le vertigini, che possa produrre un senso di stanchezza, di cui si può fare un esempio: a volte quando si sta vagando per il testo biblico ci si imbatte in una parola mostruosa.

Succede raramente ma succede, un po’ come quando si incontra un uomo alto due metri e trentacinque. Oppure, fenomeno ancora più raro, quando si incontra qualcuno che riesce a leggere per intero, ogni settimana, i tre testi che compaiono nella newsletter della rivista K.

Per farla breve: questo tipo di parola è chiamata “hapax”, è una parola di cui esiste una sola occorrenza nell’intero corpus biblico. La più nota di queste parole, la conoscete certamente tutti, è tohu-vohu.

Si tratta ovviamente di parole molto difficili da tradurre, perché per cogliere il significato di una parola bisogna essere in grado di confrontarne l’uso in contesti diversi, come fanno i commentatori ogni volta che si imbattono in una parola rara. 

Ma come si può fare quando la parola è unica?

Ebbene, la parola che ci interessa è una di queste: ASAF-SOUF[4]

In asafsouf si trova il raddoppio di sof.

Asafsouf è un gruppo umano un po’ ai margini che ha accompagnato gli Ebrei nel deserto, l’uscita dall’Egitto nella venticinquesima ora, coloro che hanno seguito il movimento.
Letteralmente sono gli ultimi degli ultimi o, come avrete capito, il surplus del surplus, l’eccesso dell’eccesso.

E sono stufi, giustamente, e stanno brontolando: basta con questa vita fuori dal mondo, errante, appesa a un filo, basta con la manna, questo cibo vitale ma volatile che cade ogni giorno dal cielo nel deserto.

Vogliono consistenza, qualcosa di duro da masticare, la garanzia di un domani tangibile: vogliono della carne, con il suo sapore e il suo odore.

Qualcosa di reale in cui affondare i denti, qualcosa di cui si possa dire che esiste davvero.

E ne avranno, ne avranno a palate, di quello che chiedono, fino a soffocare: morti per l’eccesso, saturi della soddisfazione di aver morso la realtà fino in fondo. 

Come nella favola dei fratelli Grimm intitolata Il pescatore e sua moglie: a forza di volere di più non avranno avuto nulla.

Poteri e imperi crollano sotto il loro stesso peso. Questo è lo spirito della festa a cui ci stiamo avvicinando (il testo è stato scritto e messo in scena a inizio dicembre, NdT), che cade sempre nel momento in cui le giornate sono più corte quando il mondo sembra volgere al termine: Chanukkah.
Cosa significa “Chanukkah”? Inaugurazione!
E cosa si canta a Chanukkah? Una canzone, Maoz Tsour, che passa in rassegna tutti i tentativi di eliminare gli ebrei. Ma come tutti sappiamo chi gioca col fuoco finisce per bruciarsi: il Faraone viene affogato, Haman viene impiccato… Alla fine, quando tutti i progetti sono falliti, quando tutto è pronto per farla finita con gli ebrei, ciò che rimane, infine, è la possibilità di cominciare. Essere gli ultimi e rimanere tali, restare appesi a un filo senza timore di romperlo: questo è il compito che ci spetta perseguire, e perpetuare.


Ruben Honigmann

Notes

1 Deuteronomio 7:7: Non certo perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli vi ha prediletto il Signore, e vi ha scelto, perché voi siete i meno numerosi di tutti (Bibbia ebraica a cura di rav Dario Disegni, ed. La Giuntina, 1995)
2 Vedi ad esempio il commento di Rashi su Genesi 38:26 “E non aggiunse”
3 Esther 9,28
4 Nombres 11,4