Che fine ha fatto Odessa, un tempo soprannominata «stella dell’esilio» da Isaac Babel, dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina? Joseph Roche ci racconta come la comunità ebraica sta cercando di sopravvivere, nonostante la guerra e le partenze.

Sono arrivato per la prima volta a Odessa all’inizio della guerra, nell’aprile 2022. Il vento del mare bruciava ancora il viso dei soldati e squadre di volontari barricavano in fretta i lunghi viali della città. Di fronte alla stazione presa d’assalto da centinaia di profughi, le cupole della chiesa dell’Assunzione, in un riflesso di luce, sembravano occupare il cielo con tre soli. Ad ogni angolo di strada, le bandiere ucraine erano state imbrattate e i soldati mal equipaggiati avevano solo vecchi kalashnikov e la speranza di resistere agli assalti russi. Nelle cantine della città i volontari, per lo più donne e bambini, preparavano a catena centinaia di cocktail Molotov da distribuire alle diverse unità che si erano formate nelle prime settimane di guerra.
I russi, in quel periodo, dopo aver conquistato Kherson, la capitale della regione, stavano cercando di prendere Mykolaïv, a 130 chilometri da Odessa. «Se i russi superano il Bug, il fiume – mi spiegò allora un soldato – potranno prendere la città in una decina di giorni». Il destino dell’Ucraina all’inizio del 2022 sembrava quasi segnato. Le forze russe continuavano a combattere nella periferia di Kiev. Metà delle oblast meridionali erano state conquistate in due notti. Le forze russe, dalla regione di Kharkiv, avevano iniziato il loro lento accerchiamento intorno al Donbass. Il Paese era sull’orlo dell’implosione.
Eppure, in questa atmosfera da fine del mondo, la piccola comunità ebraica di Odessa sembrava esistere di vita propria. Davanti alla sinagoga di via Uspenska, furgoni noleggiati dalla comunità, facevano la spola da Odessa a Berlino carichi di profughi, passando per la Moldavia. Sul sagrato della sinagoga avevo incontrato Zvi Hersh Blinder, uno dei responsabili della sinagoga chabad. Zvi aveva circa cinquant’anni e una lunga barba argentata biforcuta. Di bassa statura, camminava a passo svelto con un sorriso sulle labbra, come se aspettasse l’occasione per fare una battuta o raccontare una barzelletta. «È strano – mi spiegò, – durante la Shoah scappavamo dai tedeschi per andare in Russia. Ora è il contrario: si fugge dai russi per andare in Germania».
Ciò che mi ha colpito, all’inizio della guerra, è stata una sorta di distacco della comunità ebraica rispetto alla questione politica. La Russia o l’Ucraina non interessavano molto. Solo la comunità sembrava importante. Per loro Odessa non era né veramente russa né veramente ucraina ma profondamente ebraica, e doveva rimanere tale. Per molti versi, si consideravano semplicemente intrappolati tra due entità con cui, in fin dei conti, avevano ben poco in comune.
Se la lingua russa continua a strutturare la cultura odessita gli ebrei, da parte loro, hanno sempre parlato una lingua polimorfica con influenze russe, ucraine, yiddish, greche e di tutte le lingue che un tempo approdarono sulle rive del Mar Nero. D’altra parte l’identità ucraina, per loro, si articolava attorno ad alcune personalità inconciliabili. Possiamo citare ad esempio la figura di Bohdan Khmelnytsky, un capo cosacco che nel XVII secolo, nella sua guerra di indipendenza contro il regno polacco, aveva gettato le basi del primo proto-Stato ucraino e, tra l’altro, massacrato più di un terzo della popolazione ebraica. Isaac Bashevis Singer, a questo proposito, scrisse nel suo primo romanzo, Satana a Goraj: «Nel 1648, il terribile hetman ucraino Bohdan Khmelnytsky (…) e i suoi uomini massacrarono ovunque passassero, scorticarono uomini vivi, uccisero bambini piccoli, violentarono donne e, in seguito, sventrarono i loro corpi per cucirvi gatti. Molti fuggirono a Lublino, molti furono battezzati con la forza o venduti come schiavi».
«È strano. Durante la Shoah scappavamo dai tedeschi per andare in Russia. Ora è il contrario: si fugge dai russi per andare in Germania».
Un altro inciampo tra l’identità ebraica e quella ucraina, da comprendere nel contesto degli sconvolgimenti geopolitici causati dalla caduta dell’Impero russo all’inizio del XX secolo, è la collaborazione di alcune fazioni nazionaliste ucraine con l’occupante nazista, in particolare come ausiliari delle truppe tedesche e delle squadre della morte durante lo sterminio nazista. Questa collaborazione di alcuni gruppi nazionalisti ucraini è stata strumentalizzata dal potere sovietico fin dal 1945, per giustificare la deportazione e l’esecuzione di migliaia di oppositori politici, cantanti, poeti e artisti ucraini e per attribuire all’intero popolo ucraino una forma di responsabilità collettiva. Ancora oggi questa narrazione è uno dei punti cardine della propaganda del Cremlino, con cui giustificare la guerra in Ucraina. Eppure, come spiega Zvi Blinder, anche la Russia, dagli zar all’Unione Sovietica ha tra i suoi eroi una schiera di figure antisemite e collaborazioniste che non hanno nulla da invidiare ad alcuni personaggi del Pantheon ucraino.

Davanti alla sinagoga di via Uspenska soldati ebrei ucraini si sono riuniti per un’ultima preghiera prima di raggiungere la loro unità. Alcuni sono assegnati alla difesa della città. Altri partono per Mykolaïv. Sulle strisce di velcro delle loro uniformi hanno apposto ogni tipo di applicazione: una stella di David su sfondo della bandiera nazionalista (la bandiera rossa e nera), una bandiera ucraina con lettere ebraiche, o kippah color mimetico fissate sulla testa. Prima di partire uno dei rabbini della sinagoga li esorta in russo e prega per loro pronunciando, questa volta in ebraico, un’ultima benedizione. Sulla scalinata una giovane donna bacia il marito. Un soldato prende in braccio il figlio. La famiglia parte per la Germania. Lui parte per il fronte.
«La verità è che viviamo molto meglio da quando l’Ucraina è diventata indipendente nel 1991. Abbiamo la nostra libertà e, come ebrei, siamo attivi nella società. Durante l’era sovietica c’era molto antisemitismo di Stato e delle quote che impedivano agli ebrei di accedere all’università. Era persino difficile fare le circoncisioni. Bisognava andare in Uzbekistan, dove era tollerata a causa dell’Islam». Nato in una famiglia laica, Zvi Blinder a causa dell’oppressione sovietica contro l’identità ebraica ha preso coscienza delle sue origini solo in età adulta. «Sono stato arruolato nell’Armata Rossa per andare a combattere in Afghanistan. Tutti i miei compagni mi chiamavano “l’ebreo”. Quando sono tornato in Ucraina, ho fatto ricerche sulla mia famiglia e mi sono unito a una sinagoga. Da allora non ho mai smesso di praticare la mia religione. »
Zvi spiega che l’antisemitismo comune o di Stato è oggi quasi scomparso: «Abbiamo persino un presidente ebreo, e anche l’ex primo ministro (Volodymyr Groysman) era ebreo. Nemmeno gli Stati Uniti hanno mai avuto un presidente ebreo. L’antisemitismo esiste in Ucraina come altrove ma non è una tendenza significativa». L’analisi di Zvi è confermata da uno studio del Pew Research Center del 2018: dimostra che l’Ucraina è il paese meno antisemita dell’Europa orientale, molto dietro all’Ungheria, alla Polonia e alla Russia. «Sono ormai 30 anni che cammino ogni giorno per strada con la mia kippah e la barba. Non sono mai stato insultato una sola volta».
I colori di Odessa
C’è l’Odessa dell’Oriente e quella dell’Occidente. Un insieme di popoli mescolati tra loro, in cui emergono qua e là greci, tartari, ebrei, ottomani, cosacchi, russi e ucraini. C’è l’Odessa del misticismo. Chiese d’oro e d’argento. Moschee dai riflessi moghul e sinagoghe di pietra grigia in cui nessuno prega più. C’è l’Odessa dei padrini malavitosi che, seduti ai tavolini dei caffè, osservano il mare in lontananza. Tra una sigaretta e una parolaccia alcuni si dedicano al backgammon, altri agli scacchi. E poi c’è l’Odessa dei rabbini dall’aspetto patriarcale che, all’angolo del caffè Pushkin, incrociano popi dalla barba brizzolata che dall’alba al tramonto, con metànoia impeccabile recitano tutte le preghiere del loro cuore.
Sotto un pergolato del ristorante Dacha la borghesia odessita si gode l’estate. I camerieri in frac portano piatti di pesce, lo champagne scorre a fiumi e fontane di acqua ghiacciata ospitano enormi angurie che aspettano solo di essere gustate.

A Odessa c’è soprattutto l’aria di mare. Quest’estate, per la prima volta dopo due anni di guerra, le spiagge della città sono state riaperte. I venditori ambulanti offrono zucchero filato rosa. I bambini sulla riva della spiaggia Langeron si tuffano a capofitto nelle onde che li portano al largo. In lontananza si vedono diversi edifici militari. Russi? Ucraini? Nessuno lo sa con certezza. «In ogni caso, tutto il mare è stato minato, cosa cambia?», scherza una passante.
All’angolo di un vicolo ci sono monumenti in onore degli eroi della Grande Guerra Patriottica, sormontati dalla stella di Mosca. Pochi metri più avanti, le foto di giovani soldati ucraini morti quest’anno nell’est del paese.
In Rue d’Italie, dalle finestre del teatro dell’opera arriva un’aria del Faust di Čajkovskij. Più lontano, nel parco Shevchenko, vecchi cosacchi dai baffi cadenti suonano su una bandura le leggende degli hetman morti molto tempo fa in una steppa verde, e sepolti in tombe bianche. Nel torpore delle notti estive, il loro canto si mescola in una polifonia dissonante alle sirene che avvertono del rischio di un attacco. Due missili balistici colpiscono la città. Nessuno si nasconde più. I passanti preferiscono ascoltare.
A pochi minuti a piedi dal teatro dell’opera si concentra la vita ebraica. Qui si trovano la sinagoga rosa, ancora in attività, la sinagoga Brodsky trasformata in archivi e quella di via Uspenska. Ogni strada porta targhe commemorative dedicate a personalità ebraiche che hanno fatto Odessa, e il mondo intero. «Qui ha vissuto Volodymyr Jabotinsky. Qui ha vissuto lo scrittore sovietico Isaac Babel. »

Sono passati quasi due anni e mezzo dall’inizio della guerra. La maggior parte della comunità è fuggita all’estero. Quelli che sono rimasti cercano di salvare l’anima ebraica di Odessa. Ma in due anni, gli ebrei di Odessa e dell’Ucraina si sono battuti. Alcuni sono morti. Altri sono prigionieri. Molti continuano a lottare.
Seduto in fondo alla sinagoga rav Avraham Wolf, rabbino lubavich della città, ha lo sguardo perso nella contemplazione della sua preghiera e si dondola al ritmo di un salmo. Il viso rotondo sormontato da piccoli occhiali accarezza con un movimento secco la lunga barba argentata che, a cascata, si riversa sul libro di preghiere. Accanto a lui, sullo stesso tavolo, seduti ai suoi lati, due studenti ventenni discutono intorno a un vecchio volume del Talmud. Il rav Wolf, con i filatteri avvolti attorno al braccio destro, finisce per portare una mano al viso e, nel caldo umido di fine estate, mormora: «Ascolta, Israele, l’Eterno è il nostro Dio, l’Eterno è uno».
Le prime luci dell’alba, attraverso le finestre della sinagoga, si riflettono sul rotolo d’argento della Torah che uno dei fedeli porta alla bimà. Igor Chatrin, l’assistente del rabbino Wolf, con il volto rivolto verso Gerusalemme intona shachrit. Una ventina di fedeli, in un’armonia dissonante, si unisce a lui per l’amidah. Su un balcone che sovrasta lo spazio centrale donne dai capelli color mogano raccolti a chignon, separate dagli uomini, uniscono le loro voci ai canti, con un forte accento russo. È lunedì mattina e la piccola sinagoga di via Uspenska brulica di gente, come nei giorni di festa.
La resistenza della comunità
«È un miracolo – spiega Avraham Wolf – all’inizio della guerra, oltre il 40 per cento dei nostri membri è partito per l’estero, eppure la sinagoga è più affollata che mai». Nato in Israele, Wolf è arrivato come shaliah (emissario del movimento chabad) a Odessa nel 1992 per aiutare la comunità ebraica a ricostruirsi dopo la caduta dell’Unione Sovietica. «C’è un proverbio ucraino che dice che quando suona l’allarme, la gente non corre ai rifugi, ma corre verso Dio», afferma con un sorriso. Secondo lui questo bisogno di avvicinarsi a Dio di fronte agli orrori della guerra spiega il rinnovamento spirituale di Odessa. Igor Chatrin tempera l’entusiasmo del suo rabbino. «Sono rimasti solo 20 mila ebrei. L’impatto della guerra è stato senza precedenti».
Per gli ebrei Odessa non era né veramente russa né veramente ucraina, bensì profondamente ebraica, e doveva rimanere tale.
Igor, 34 anni, è originario della città: ha il viso giovanile e la barba bionda, e prima di tornare in Ucraina ha vissuto negli Stati Uniti e in Israele. «Molti se ne sono andati e non torneranno. Sono in Israele o in Germania. I loro figli imparano la lingua, vanno a scuola, hanno preso altre abitudini. Non torneranno».
Tra gli edifici neoclassici all’ombra dei platani il viaggiatore può, durante le sue peregrinazioni, intravedere, invaso dal verde, il ricordo glorioso di quella che un tempo era stata soprannominata dallo scrittore ebreo di Odessa Isaac Babel «la stella dell’esilio». «Fin dalla sua fondazione nel XVIII secolo, ebrei provenienti da tutto l’Impero russo, in particolare dalla regione di Brody in Galizia, si stabilirono a Odessa e contribuirono allo sviluppo della città», spiega Isabelle Nemirovski, specialista in studi ebraici all’INALCO di Parigi e autrice del libro Histoire, mémoire et représentation des Juifs d’Odessa: un vieux rêve intime (ed. Honoré Champion, 2022). «Prima della Shoah la popolazione ebraica di Odessa corrispondeva a un terzo degli abitanti, parliamo di circa 200 mila persone».

Duecento anni più tardi, dopo la Seconda guerra mondiale, la Shoah, il terrore stalinista e la caduta dell’Unione Sovietica, ciò che resta della comunità ebraica di Odessa cerca di sopravvivere come può. L’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022 da parte della Russia, che aveva annunciato la conquista di Odessa come uno dei suoi obiettivi di guerra, sembrava aver messo fine, e questa volta per sempre, alla vita ebraica nella città portuale. Fin dalle prime settimane dell’invasione la comunità ebraica aveva organizzato la fuga in Israele e in Germania di migliaia dei suoi membri. «Siamo passati dal 35 per cento di ebrei a Odessa prima della Shoah a meno del 3 per cento oggi», spiega Chatrin con un sospiro. Il rabbino Wolf, che ha dedicato la sua vita a consolidare la vita ebraica della città, concorda a malincuore con l’analisi del suo braccio destro. «È vero – ammette – nessuno tornerà». Eppure paradossalmente la comunità, più che mai, cerca di mantenere le sue tradizioni e la sua identità. «Lo spettro della guerra ha creato una sorta di shock e dato un istinto di sopravvivenza forte a ciò che resta della piccola comunità ebraica di Odessa», spiega Nemirovski.
A poche centinaia di metri da via Uspenska, in un cortile interno con facciate fatiscenti, i bambini dell’orfanotrofio hanno improvvisato un campo da calcio. All’interno dell’edificio una donna davanti a un tavolo di plastica coperto di cibo ha lo sguardo angosciato e discute con la rabbanit. Accanto a lei suo figlio, un bambino di 8 anni, che gioca con una macchinina di plastica regalatagli poco prima da uno dei fedeli. «È il giorno della sua circoncisione. – spiega la moglie del Rav Wolf – A causa dell’Unione Sovietica molte famiglie sono state completamente secolarizzate, arrivando a non far circoncidere i propri figli». Ma da alcuni anni in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica, compresa l’Ucraina, centinaia di famiglie stanno cercando di riappropriarsi delle tradizioni e della fede. «Il fenomeno non ha fatto che intensificarsi, dall’inizio della guerra – dice Aaron Kramer, il circoncisore della comunità, che spiega di essere sommerso dal lavoro – facciamo fino a cinque circoncisioni a settimana».

Con il viso incorniciato da lunghi riccioli, Kramer, sulla quarantina, prepara i suoi strumenti. Indossa una tunica bianca da medico e inizia a disinfettarsi le mani. «Possiamo circoncidere bambini di 8 giorni, come vuole la tradizione, ma anche giovani uomini e persino anziani». Racconta che meno di un anno fa un uomo di 83 anni è venuto da lui per una circoncisione: «Dopo la morte della moglie, è venuto a pregare alla sinagoga per Rosh Hashana. Era la prima volta che entrava in una sinagoga. Poi ha saputo che avremmo circonciso sei uomini di tutte le età e ha chiesto se poteva farlo anche lui».
Questo ritorno all’ebraismo ha ridato speranza al rabbino Wolf: «Paradossalmente la nostra comunità non è mai stata così viva come dall’inizio della guerra. Questo si spiega con la volontà di rivolgersi a Dio in un periodo di crisi, ma anche perché abbiamo assorbito una parte della comunità ebraica di città come Mariupol o Dnipro. – spiega Wolf – Oggi sono quasi un terzo dei nostri fedeli”. Ma Wolf lo sa, gli anni d’oro della Odessa ebraica appartengono a un’altra epoca. Chatrin, dal canto suo, cerca di rassicurare il suo rabbino e si mostra pieno di speranza: «Spero che dopo la guerra Odessa rinascerà più forte che mai, e che alcuni dei nostri fedeli torneranno. In ogni caso senza i suoi ebrei Odessa non è più davvero Odessa».