L’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York: un momento di svolta per gli ebrei americani

L’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York, che ne fa il primo sindaco apertamente antisionista della metropoli, va ben oltre i confini della politica municipale. Questo successo, sostenuto da una gioventù progressista e da una parte significativa degli ebrei americani, rivela la profondità delle fratture generazionali e ideologiche all’interno dell’ebraismo americano. Tra il crescente distacco da Israele, l’aumento dell’antisemitismo e la trasformazione del Partito Democratico, la vittoria di Mamdani agisce come un rivelatore impietoso di un mondo ebraico americano in piena crisi d’identità.

 

Zohran Mamdani, Wikimedia Commons

 

Zohran Mamdani è stato appena eletto sindaco di New York. Sconosciuto fino a un anno fa, questo socialista deve la sua vittoria al suo indiscutibile talento nel mobilitare e unire le energie intorno a sé, in particolare quelle dei più giovani. Ha costruito la propria campagna – e il proprio successo – sul tema del costo della vita, ormai insostenibile a New York, ma anche su questioni come gli abusi della polizia e il razzismo. Il suo antisionismo dichiarato, più volte messo in risalto dagli avversari per indebolirlo politicamente (senza riuscirci) che da lui stesso, è stato comunque uno degli elementi della campagna.

La vittoria di un candidato apertamente antisionista nella più grande città ebraica d’America rappresenta un simbolo potente per i rapporti tra la più vasta diaspora e lo Stato di Israele, e solleva interrogativi sul futuro del sionismo liberale e democratico nella diaspora.

L’attaccamento degli ebrei americani a Israele: un contrasto tra generazioni

Secondo i dati del 2021 del Pew Research Center, il 60 per cento degli ebrei americani dichiara di sentirsi emotivamente legato a Israele; tra i 18-29enni questa percentuale scende al 48 per cento, mentre tra gli over 60 sale al 67 per cento. Nello stesso studio, l’82 per cento degli ebrei americani considera Israele un elemento importante della propria identità ebraica, ma anche in questo caso il divario generazionale è evidente: il 71 per cento tra i 18-29enni contro l’89 per cento tra gli over 65.

Il 40 per cento degli ebrei americani ritiene che Israele abbia commesso un genocidio a Gaza, una percentuale che raggiunge il 50 per cento tra i 18-34enni. È plausibile che, tra i giovani ebrei americani non ortodossi, la cifra si avvicini al 60 per cento. Molti di loro sono dunque fortemente critici nei confronti della guerra in generale, e attribuiscono a Israele una responsabilità sproporzionata nella risposta militare. In altre parole, se la maggioranza degli ebrei americani resta sionista e legata a Israele, questo legame è assai più debole tra i giovani, molti dei quali sono stati profondamente turbati dal proseguimento della guerra a Gaza.

Il governo israeliano porta una parte di responsabilità in questa disaffezione, ben prima del conflitto a Gaza. Da anni, sotto l’influenza degli ambienti ultraortodossi, molti ebrei americani vengono apertamente disprezzati, e la loro ebraicità talvolta persino messa in discussione. Un esempio emblematico è il divieto imposto alle Women of the Wall, il gruppo di donne ebree che desiderano pregare e indossare il talled al Muro del Pianto. È inoltre significativo che le rabbine favorevoli a Mamdani siano state spesso poste in primo piano nella sua campagna elettorale, dopo essere state a lungo oggetto di disprezzo da parte dell’establishment rabbinico israeliano.

L’evoluzione politica e diplomatica di Israele, in particolare con l’accelerazione dello sviluppo degli insediamenti in Cisgiordania, lo ha progressivamente allontanato dagli ebrei americani favorevoli ai diritti dei palestinesi e a una soluzione politica del conflitto. Questo distacco si è aggravato con la riforma giudiziaria del 2023, volta a modificare profondamente la natura democratica dello Stato. Il rispetto della democrazia e dello Stato di diritto è, tuttavia, un valore centrale per gli ebrei americani e per i democratici in generale, e la deriva illiberale di Israele ha contribuito a rafforzare il loro allontanamento.

Alcuni giovani ebrei americani, già disincantati nei confronti di Israele e scoraggiati dall’evoluzione illiberale del Paese e dalla gestione del conflitto con i palestinesi, hanno partecipato a manifestazioni filopalestinesi nei campus universitari.

Inoltre, i segnali sempre più evidenti del ministro della Diaspora e della responsabilità nella lotta contro l’antisemitismo di avvicinamento all’estrema destra europea – comprese formazioni radicali come l’AfD tedesca o il movimento di Tommy Robinson in Inghilterra – hanno profondamente respinto la parte più liberale degli ebrei nel mondo, in particolare negli Stati Uniti.

La guerra di Gaza rappresenta, naturalmente, il fattore decisivo che ha accelerato l’evoluzione del rapporto con Israele, sia tra gli ebrei americani sia, più in generale, tra l’opinione pubblica americana.

La svolta della guerra di Gaza

Negli ultimi due anni si sono svolte numerose manifestazioni filopalestinesi negli Stati Uniti, soprattutto nei campus universitari. Alcune avevano connotati antisionisti radicali e persino apertamente antisemiti, mentre altre erano motivate dal sostegno diplomatico, politico e militare garantito agli Stati Uniti nei confronti di Israele, prima sotto Biden e poi sotto Trump.

Per molti aspetti, la guerra condotta da Israele contro Hamas in risposta agli eventi del 7 ottobre è stata percepita anche come una guerra americana, il che spiega almeno in parte l’attenzione molto più intensa degli americani rispetto a conflitti come quelli in Sudan o la questione degli uiguri. L’antisemitismo e l’ossessione di attribuire a Israele le colpe degli ebrei hanno avuto un ruolo rilevante, ma ridurre l’emozione e la partecipazione degli americani, soprattutto dei più giovani, a questo solo fattore sarebbe riduttivo. Lo slogan «No Jews, no news» è quindi corretto, ma incompleto.

Alcuni giovani ebrei americani, già provati da un certo distacco nei confronti di Israele e scoraggiati dall’evoluzione illiberale del Paese e dalla gestione del conflitto con i palestinesi, hanno partecipato a queste manifestazioni nei campus. La spiegazione psicologica basata sull’“odio verso se stessi” è stata spesso evocata, ma anche in questo caso risulta parziale: non coglie la complessità del rapporto di questi giovani con la loro doppia identità, ebraica e americana. Per loro, lo slogan “non a nostro nome” brandito nelle manifestazioni filopalestinesi esprimeva un turbamento sia come ebrei sia come cittadini americani.

È in questo contesto particolare che Mamdani è emerso sulla scena politica locale e nazionale, ponendo gli ebrei americani di fronte a scelte difficili.

Le domande che Mamdani pone agli ebrei newyorkesi e americani

Gli ebrei americani vivono un momento particolarmente delicato: la loro sicurezza fisica è minacciata dall’aumento degli atti antisemiti, il loro sostegno a un Israele ebraico e democratico è complicato dall’evoluzione del Paese, e la fiducia nella forza e nella resilienza delle istituzioni americane è fortemente scossa dai colpi inferti dall’era Trump.

Le statistiche sull’antisemitismo negli Stati Uniti, e in particolare a New York, sono impietose. Secondo l’ADL, l’antisemitismo ha continuato a crescere nel 2025, con una quota significativa attribuibile all’antisionismo.

Da quando ha avviato la sua campagna elettorale, soprattutto dopo la vittoria alle primarie democratiche di giugno, Mamdani ha moltiplicato gli incontri con tutte le denominazioni ebraiche di New York, dai più liberali agli ultraortodossi. Si è circondato di consiglieri ebrei e si è impegnato a combattere in maniera massiccia l’antisemitismo. Ha inoltre espresso il desiderio che la storia del sionismo sia integrata nei programmi scolastici, riconoscendo l’importanza del sionismo nell’esperienza ebraica contemporanea.

È quindi ingiusto paragonare Mamdani a La France Insoumise, e l’uso opportunistico della sua vittoria da parte di questo partito non deve far credere il contrario. Se è difficile accusare Mamdani di antisemitismo, non è tuttavia esente da critiche su questo tema. Non ha compreso la gravità del momento e l’inquietudine degli ebrei americani, o non ha voluto comprenderla, senza dubbio per ragioni elettorali. Mamdani non è riuscito a rassicurare gli ebrei, mentre il legame tra antisionismo e antisemitismo è indiscutibile. La retorica antisionista estrema è spesso accompagnata da atti antisemiti: trattare qualcuno come un «sporco sionista» o impedire ai sionisti di partecipare a una riunione o a un’attività non è una critica a Israele, ma puro antisemitismo. Mamdani non ha saputo o voluto distinguere il proprio antisionismo «ideologico» da quello generalizzato, diffuso soprattutto nei campus universitari e spesso indissociabile dall’antisemitismo.

L’antisionismo di Mamdani potrebbe diventare la norma nel discorso politico americano di domani, e questo rappresenta il pericolo maggiore per gli ebrei americani legati a Israele. Peggio ancora, complica notevolmente il compito dei sionisti liberali.

Per molti ebrei newyorkesi, l’antisionismo di Mamdani sarebbe stato meno preoccupante in un contesto più tranquillo, con un livello di antisemitismo basso come quello registrato fino al 2015 o “relativamente sotto controllo” fino al massacro del 7 ottobre.

L’elettorato ebraico è stato attentamente monitorato durante queste elezioni, con sondaggi frequenti e variabili: tra il 16 per cento e il 38 per cento di sostegno a Mamdani tra gli ebrei, secondo diversi istituti di rilevazione. Un altro sondaggio condotto a luglio indicava il 44 per cento di sostegno a Mamdani tra gli ebrei della città, percentuale che saliva al 67 per cento tra i 18-44enni. Si può stimare che tra i giovani ebrei non Haredim questa cifra raggiunga senza dubbio l’80 per cento, a dimostrazione del divario generazionale che si sta creando tra gli ebrei americani, in particolare riguardo al loro rapporto con lo Stato di Israele. In questo senso, queste elezioni rivelano le profonde divisioni tra gli ebrei americani, soprattutto per generazione e grado di pratica religiosa.

L’antisionismo di Mamdani potrebbe diventare la norma nel discorso politico americano del futuro, e questo rappresenta il pericolo maggiore per gli ebrei americani legati a Israele. Peggio ancora, complica notevolmente il lavoro dei sionisti liberali, che hanno sempre difeso una visione di sionismo democratico e un attaccamento critico ma saldo a Israele. È proprio questo legame incondizionato al Paese, ma consapevole della sua politica, che oggi viene messo in discussione.

Il timore riguarda anche la possibilità che il Partito Democratico, la casa politica naturale degli ebrei americani (per quanto ancora?), segua l’esempio di Mamdani, introducendo politiche sempre più critiche nei confronti di Israele, non tanto per le sue scelte politiche quanto per la sua stessa legittimità. Mamdani ha aperto una breccia, e non è escluso che voci apertamente antisioniste spingano verso un approccio molto più radicale.

Un’evoluzione irreversibile del Partito Democratico?

La vittoria di Mamdani potrebbe quindi accelerare la trasformazione del Partito Democratico. Il grande timore di molti ebrei americani è che il partito, la loro casa politica, subisca un’evoluzione simile a quella del Partito Repubblicano con l’avvento di Donald Trump. Quando Trump entrò nell’arena politica, il partito lo ignorò inizialmente, poi minimizzò la sua influenza, fino a riconoscerne l’inevitabile ascesa. Oggi il GOP è completamente trumpizzato, sia nella forma sia nella sostanza. Partito storicamente favorevole al libero scambio, alla diffusione dei valori democratici, al capitalismo deregolamentato e all’immigrazione, ha operato una svolta radicale, dichiarando obsoleta la sua piattaforma programmatica per abbracciare tutte le idee di Trump, per quanto contraddittorie o assurde fossero.

Il Partito Democratico è oggi in piena crisi d’identità, con una significativa perdita di consenso tra gli elettori popolari, che cerca di riconquistare a ogni costo.

New York non è l’America, e sarebbe eccessivo estrapolare il successo di Mamdani a livello nazionale. Tuttavia, un mix di populismo economico, sfruttamento dei temi identitari e inasprimento della questione israelo-palestinese potrebbe rappresentare una strada allettante per il Partito Democratico, utile a riconquistare da un lato le classi popolari e dall’altro i giovani. In uno scenario del genere, alcuni ebrei americani si sentirebbero orfani, privati della loro casa politica e della ragione da anni, se il partito dovesse radicalizzarsi, soprattutto su temi che molti di loro non condividono.

Israele sta assumendo un ruolo sempre più centrale nella politica americana, diventando l’equivalente, a sinistra, di ciò che l’aborto è a destra.

Più in generale, la vittoria di Mamdani, sostenuto da due figure di spicco dell’ala sinistra del Partito, Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders, è un simbolo dell’accelerata polarizzazione della politica americana. Per gli ebrei americani, questa situazione è nuova e pericolosa. Dopo che il Partito Repubblicano è diventato nativista sotto l’influenza dei cristiani evangelici e ha progressivamente rifiutato lo Stato di diritto, una trasformazione del Partito Democratico in un partito di sinistra più o meno radicale, sia sui temi economici sia su quelli sociali, rappresenterebbe uno sviluppo molto preoccupante.

Qual è il rapporto tra il Partito Democratico e Israele?

Israele sta diventando un punto di riferimento nella politica americana, l’equivalente a sinistra di ciò che l’aborto è a destra. Fino agli anni ’90, molti repubblicani sostenevano la libertà di scelta delle donne, ma oggi è praticamente impossibile ottenere la minima candidatura, locale o nazionale, difendendo il diritto all’aborto. Allo stesso modo, di fronte alla crescente sfiducia nei confronti di Israele tra gli elettori democratici – il 77 per cento dei quali ritiene che Israele abbia commesso un genocidio a Gaza – è possibile che Israele diventi, per i Democratici, un “test definitivo” per qualsiasi candidato del partito, soprattutto per chi aspira a una carriera nazionale.

Quando un politico centrista come Seth Moulton denuncia ufficialmente l’AIPAC, la principale lobby pro-Israele, e annuncia di restituire i contributi ricevuti da questa organizzazione – difensore incondizionato del governo israeliano, al contrario di J Street, che combina la difesa di Israele con la critica delle politiche del suo governo – il significato del momento è chiaro a tutti. Si tratta di una svolta assolutamente fondamentale nella politica americana e nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele, almeno all’interno del Partito Democratico.

È esattamente questo ciò che è in gioco con la vittoria di Mamdani, che rimescola le carte in modo spettacolare per il Partito Democratico. Oltre all’evoluzione sostanziale della politica di Israele, in particolare riguardo alla difesa delle sue istituzioni democratiche, i leader israeliani, attuali e futuri, devono tenere assolutamente presente questa nuova situazione, per evitarla e ricostruire legami solidi con il Partito Democratico. Ne va del futuro del sostegno americano a Israele, che non può dipendere esclusivamente dal Partito Repubblicano, a sua volta esposto a forze antisioniste e persino apertamente antisemite.

Il manicheismo post-7 ottobre

Presentare la vittoria di Mamdani come la prova della deriva estremista del Partito Democratico e l’annuncio di giorni bui per gli ebrei americani non è del tutto inesatto, ma rimane molto riduttivo. È impossibile ignorare il contesto che ha reso possibile questa vittoria, incluso il sostegno non trascurabile di una parte degli ebrei della città.

In questo senso, la vittoria di Mamdani riflette i tormenti del mondo ebraico post-7 ottobre. L’aumento degli atti antisemiti, l’ossessione di gran parte dell’estrema sinistra di attribuire a Israele tutti i mali del mondo, e l’eccessiva semplificazione della realtà attraverso il prisma del dominante e del dominato hanno determinato a loro volta una perdita di sfumature. La critica al governo israeliano è diventata, per molti nel mondo ebraico, un’impresa quasi impossibile e persino un tradimento, una concessione inaccettabile allo spirito del tempo e, ancor più, ai veri nemici di Israele e degli ebrei.

Lo stesso schema si ritrova nella vittoria di Mamdani. Questa vittoria è sufficientemente problematica da non essere caricaturizzata, da non essere trasformata nell’avvento della jihad a City Hall, né da rappresentare l’ingenuità degli ebrei newyorkesi come prossima alla stupidità, o addirittura al tradimento. Questa mancanza di sfumature ha caratterizzato le ultime settimane della campagna, con un effetto praticamente nullo, e soprattutto impedisce di riflettere sulle cause che hanno portato alla vittoria di questo candidato complesso, al di là delle sue posizioni su Israele e sul sionismo.

Israele non è più considerato, nemmeno dagli ebrei americani, come un piccolo paese minacciato, ma come una superpotenza. 

Per gli ebrei e i sostenitori di Israele, questa vittoria impone una riflessione sulla crescente impopolarità di Israele, che non è dovuta solo all’antisemitismo o ai radicali del cosiddetto “terzo mondo” – i quali esistono davvero. Questo interrogativo deve coinvolgere anche i leader israeliani, che non possono nascondersi dietro il solo antisemitismo per spiegare la propria emarginazione. Lo stesso Itzhak Rabin aveva sostenuto che lo status di Israele dipendesse anche dal suo comportamento, senza negare in alcun modo l’antisemitismo ossessivo di alcuni che non perdoneranno mai nulla allo Stato di Israele e alla rappresentanza ebraica.

Per i democratici ragionevoli, sostenitori di un liberalismo regolato e giusto – e non di un’economia gestita con soluzioni demagogiche – la vittoria di Mamdani deve essere un momento di riflessione sull’aumento delle disuguaglianze, sulle profonde ingiustizie della società americana e sulle falle del modello democratico statunitense, in particolare a livello istituzionale. Senza questa introspezione, la vittoria non rappresenterà un segnale d’allarme, ma il preludio a un divorzio definitivo tra il Partito Democratico e Israele, a un profondo allontanamento tra gli ebrei americani e Israele sullo sfondo di un divorzio intergenerazionale, e all’avvento di un Partito Democratico populista e demagogico, che potrebbe trascinare gli Stati Uniti in una grave instabilità e, divisi tra gli estremi, persino nella violenza.

In questo contesto, la vittoria di Mamdani rappresenta un momento potenzialmente decisivo per la politica americana e per il futuro delle relazioni tra gli ebrei della più grande diaspora al mondo e Israele.

Un nuovo rapporto tra gli ebrei americani e Israele?

Il fatto che tra il 30 e il 50 per cento degli ebrei non ortodossi e tra il 50 e l’80 per cento dei giovani ebrei non ortodossi della città abbiano votato per un candidato antisionista mette inevitabilmente in discussione il rapporto degli ebrei americani con Israele. La lobby AIPAC si mostra del tutto inadeguata nel rispondere a queste nuove sfide. I professionisti americani dell’hasbara, che giustificano incondizionatamente tutte le azioni del governo israeliano credendo di difendere Israele e garantirne la centralità nel mondo ebraico, ottengono invece l’effetto contrario, allontanando molti ebrei liberali dal Paese.

L’amore per Israele e la difesa del sionismo devono passare attraverso un nuovo rapporto tra la diaspora e lo Stato ebraico, fondato meno sul pathos e più sulla reale comprensione. Non sarà più sufficiente invocare il sostegno incondizionato e finanziario a un Paese percepito come minacciato dai suoi vicini arabi. Israele non è più considerato, nemmeno dagli ebrei americani, un piccolo Paese sotto minaccia, ma una superpotenza. In questo scenario, il rapporto tra israeliani ed ebrei americani deve essere maturo ed equilibrato, e non quello di un bambino che chiede sostegno incondizionato ai genitori, anche sul piano finanziario. La tradizionale scatola blu del KKL deve fare spazio a un approccio nuovo, il che rappresenta una buona notizia: indica il formidabile successo dell’economia israeliana nel liberarsi dalla dipendenza finanziaria.

Questo nuovo rapporto più equilibrato passa attraverso l’indebolimento dell’establishment haredi, che ha ostacolato la maggior parte degli ebrei americani, e la creazione di nuovi legami con i giovani ebrei americani al di là della tradizionale hasbara, attraverso programmi come Birthright, scambi più intensi con viaggi di giovani ebrei americani in Israele e di giovani israeliani negli Stati Uniti.

Tra gli elettori ebrei di Mamdani, una parte significativa si definisce sionista, sostenitrice di uno Stato ebraico e democratico. Se alcuni hanno votato per Mamdani per mancanza di alternative, altri lo hanno fatto con entusiasmo, ritenendo a volte che fosse giunto il momento di una nuova alleanza tra sionisti liberali e antisionisti.

La maggioranza degli ebrei americani è già turbata dall’aumento degli atti antisemiti, preoccupata per Trump e le sue violazioni della democrazia americana e contraria a Netanyahu. Mamdani, con la sua demagogia e il suo sfruttamento dell’evoluzione di Israele per affermare il suo antisionismo, rappresenta una nuova prova da affrontare.

È un’idea a priori bizzarra quella espressa da Brad Lander, responsabile delle finanze nel comune uscente e figura ebraica di primo piano. Intervistato in un lungo articolo del Guardian sulla candidatura di Mamdani, la sua opinione risulta preziosa per comprendere cosa sta accadendo tra gli ebrei americani intorno al nuovo sindaco. Lander ritiene che i sionisti liberali debbano poter collaborare con gli antisionisti, così come questi ultimi dovrebbero smettere di definire razzisti i sostenitori di una soluzione a due Stati per due popoli. Questa alleanza è del resto promossa in Israele da una parte della sinistra sionista, convinta che sia giunto il momento di stringere un’alleanza con i partiti arabi antisionisti.

Per gli ebrei di età superiore ai 50 anni, questa coesistenza non è scontata, mentre per i più giovani, apertamente liberali, appare quasi naturale. In questa prospettiva si può comprendere il successo di Mamdani tra i giovani ebrei: per questi ultimi, l’antisionismo non è eliminatorio, non costituisce un problema, ma rappresenta una variazione del loro rapporto con Israele e, per alcuni, è semplicemente la loro opinione personale. Questa porosità tra sionismo liberale e antisionismo “soft” deve spingere a ripensare il sionismo liberale nella diaspora, per difenderlo meglio e rivendicare con forza la bandiera sionista, così come i manifestanti contrari alla riforma giudiziaria si sono riappropriati della bandiera israeliana.

C’è spazio per il sionismo liberale nella diaspora?

L’attuale governo israeliano non ha fatto nulla per unificare il popolo ebraico o gli israeliani. Pronto ad allearsi con gli antisemiti in nome della difesa di Israele, non propone una visione positiva del sionismo, snaturandolo e rischiando così di normalizzare l’antisionismo. Questo governo difende ancora l’idea di uno Stato del popolo ebraico, o di uno Stato riservato a certi ebrei, nazionalisti sul piano politico e tradizionalisti o ortodossi sul piano religioso? Il segreto giubilo del governo nel vedere un numero record di israeliani, spesso istruiti e liberali, lasciare il Paese solleva interrogativi, così come il disprezzo mostrato nei confronti degli ebrei liberali, sia sul piano politico sia su quello religioso.

A questo titolo, la responsabilità del governo israeliano è schiacciante, non tanto per l’aumento dell’antisemitismo quanto per la normalizzazione e l’accettabilità dell’antisionismo, anche tra gli ebrei americani, in particolare tra i più giovani.

Le dichiarazioni evasive di Mamdani sul disarmo di Hamas e le ambiguità sullo slogan “Globalize the intifada” hanno suscitato un certo clamore, di cui lui è certamente il primo responsabile, e che i suoi avversari politici hanno cercato di sfruttare senza successo. Questa sequenza ricorda anche l’incapacità dei Democratici di denunciare l’antisemitismo nei campus universitari, sfruttata dai Repubblicani nel 2024. Mamdani ha così trovato un alleato oggettivo nell’attuale governo israeliano, che tende a giustificare l’antisionismo di cui si vanta il nuovo sindaco di New York.

La maggioranza degli ebrei americani è già turbata dall’aumento degli atti antisemiti, preoccupata per Trump e le sue violazioni della democrazia americana, e contraria a Netanyahu e alla direzione che sta imprimendo a Israele. Mamdani, con la sua demagogia e il suo sfruttamento dell’evoluzione di Israele per affermare il proprio antisionismo, rappresenta una nuova prova da affrontare. In questo senso, questa elezione costituisce per loro un nuovo indicatore di malessere, una presa di coscienza e forse un invito all’azione, per riprendere la parola e riaffermare la propria identità e il proprio attaccamento a un sionismo liberale e democratico. Si tratta di un vasto programma da portare avanti insieme alla maggioranza degli israeliani preoccupati dall’evoluzione del loro Paese…


Sébastien Levi

Sébastien Levi è vicepresidente di J Street (sezione di New York) e responsabile delle relazioni con i membri del Congresso. Le opinioni espresse nell’articolo sono esclusivamente quelle dell’autore.