Il massacro del 7 ottobre 2023 ha provocato un terremoto la cui onda d’urto non ha smesso di attraversare il mondo ebraico. In Israele ha riattivato lo spettro del pogrom che lo Stato doveva rendere impossibile; nella diaspora ha rivelato la fragilità di una sicurezza che si riteneva acquisita. In una conferenza tenuta a Berna il 9 ottobre, lo storico Jacques Ehrenfreund interroga ciò che questo evento dice del nostro tempo: la fine del dopo-Shoah, la dissoluzione dei punti di riferimento morali europei, e la persistenza di un’ostilità che la storia sembrava aver squalificato.[1]

Nel 1936, Yitzhak Baer, eminente specialista di giudaismo medievale e primo titolare di una cattedra di storia ebraica all’Università Ebraica di Gerusalemme, mise da parte le proprie ricerche per scrivere un breve saggio intitolato Galut (esilio); sconvolto dalla presa di potere da parte dei nazisti tre anni prima, Baer rivolse agli ebrei di Germania un monito di una lucidità agghiacciante. Aveva percepito la natura singolare della minaccia che pesava su di loro e la ricollegava alla lunga storia del popolo ebraico; ciò che ai suoi occhi era in gioco era la possibilità stessa di un’esistenza ebraica nella Diaspora. La storia della Galut è in un vicolo cieco fatale, profetizzava, pochi anni prima dello sterminio sistematico degli ebrei d’Europa.
Nel giugno 1940 di fronte al crollo della Francia, Marc Bloch – un altro medievista – scelse di mettere tra parentesi i propri studi. Appena smobilitato, scrisse con urgenza L’étrange défaite, libro nel quale cercava le radici profonde dell’evento di cui era contemporaneo: perché le élite francesi avevano fallito nel momento più cruciale, come mai la Repubblica si era mostrata incapace di affrontare la sfida posta dal nazismo?
Non avrei l’audacia di paragonarmi a questi due giganti, ma è sotto la loro autorità che mi colloco, per tentare l’esercizio di pensare il presente, con la preoccupazione di farlo in quanto storico. In effetti, la storia è anche un sapere pratico, che deve aiutare a comprendere ciò che ancora non si è mai presentato. Cosa si può dire di ciò che stiamo vivendo, di ciò che ha fatto irruzione in un impeto inaudito di violenza due anni fa?
La mattina del 7 ottobre due interpretazioni antinomiche dell’evento si sono manifestate, facendo emergere una frattura profonda che da allora non ha fatto che approfondirsi, isolando progressivamente gli ebrei. Per la maggioranza di loro, il 7 ottobre ha fatto riemergere istantaneamente lo spettro non così remoto dell’annientamento – nei massacri indiscriminati, nei saccheggi, negli stupri, nelle distruzioni sistematiche dei kibbutz e delle città, nell’accanimento sui corpi vivi o morti, nella cattura sistematica di ostaggi, donne, bambini o anziani, e soprattutto nel giubilo di coloro che compivano tutto ciò e nell’entusiasmo che i loro atti suscitavano nella popolazione palestinese tutti hanno riconosciuto un’autentica pulsione genocidaria.
Il 7 ottobre ha anche riattivato nella memoria ebraica l’incubo del pogrom, quella forma arcaica di odio descritta in modo così spaventoso da Haim Nahman Bialik nel poema Ba’Ir HaHarega del 1903. Eppure Israele era stato concepito come risposta ai pogrom. Lo Stato doveva essere la garanzia che non potesse più accadere, poiché da allora gli ebrei si presumeva fossero capaci di difendersi da soli; e tuttavia è in Israele che il pogrom è riemerso. Questo fatto ha prodotto uno smarrimento e un trauma di cui non si è ancora misurata appieno la portata: il 7 ottobre ha fatto vivere agli israeliani un’esperienza che credevano riservata agli ebrei della Diaspora, una tragedia che il sionismo avrebbe dovuto rendere obsoleta.
Ha fatto eco l’irruzione immediata in Europa e negli Stati Uniti di un’ondata d’ostilità di un’intensità sconosciuta dal 1945 che ha fatto intravedere agli ebrei della Diaspora la precarietà della loro condizione. Credevano che tale vulnerabilità appartenesse al passato e invece era il terreno stesso a mancare sotto i loro piedi.
L’insieme dell’esistenza ebraica, in Israele come nella Diaspora, è stato colpito in pieno da un evento che ha rinsaldato le due parti distinte di questo popolo singolare. Si sono ritrovate di fronte alla stessa sfida, solidali dinanzi alla riemersione di un odio antico che si sperava scomparso, che si chiami giudeofobia, antigiudaismo, antisemitismo o antisionismo.
Il 7 ottobre ha fatto vivere agli israeliani un’esperienza che credevano riservata agli ebrei della Diaspora, una tragedia che il sionismo avrebbe dovuto rendere obsoleta.
Poiché fin dal 7 ottobre si è imposta nello spazio pubblico un’interpretazione antinomica dell’evento, radicalmente diversa dove domina in modo egemonico; contestava la dimensione antisemita dell’azione di Hamas, spiegandola esclusivamente con il carattere coloniale dello Stato d’Israele. Il giorno dopo il massacro, il segretario generale dell’ONU lo condannava a malapena, ma invitava a «ricollocarlo nel suo contesto». Judith Butler, figura di rilievo del pensiero postmoderno e postcoloniale, dichiarava nel marzo 2024 in una conferenza a Parigi: «Penso che sia più onesto, e più corretto storicamente, dire che l’insurrezione del 7 ottobre era un atto di resistenza armata (sic). Non è un attacco terroristico, non è un attacco antisemita: era un attacco contro gli israeliani».
I campus occidentali, compresi quelli svizzeri, si sono immediatamente riempiti di un clamore che ha cancellato e ridefinito il massacro, interpretato come una rivolta dei dominati contro i loro colonizzatori. Israele è stato ritenuto responsabile di ciò che lo aveva colpito, mentre al suo confine settentrionale Hezbollah si univa a Hamas e lanciava attacchi che costringevano centomila israeliani a fuggire dalle loro case e, dall’Iran allo Yemen, le dichiarazioni ostili precedevano i missili e i droni. Ciò che ha prevalso nei campus, sui social network e sulla stampa è stata una lettura postcoloniale dell’azione di Hamas.
Tuttavia, ipotizzare un nesso causale tra la politica coloniale israeliana, per quanto criticabile, e il 7 ottobre significa falsificare la dimensione centrale dell’evento; significa infatti privarlo del significato che i membri di Hamas che lo hanno compiuto hanno voluto dargli, filmando e pubblicando online le loro azioni più crudeli e trasgressive. Ricordiamo che il pogrom è stato compiuto sul territorio di Israele, quello che il diritto internazionale gli riconosce senza contestazioni, non nelle colonie della Cisgiordania. Ciò che è emerso al centro del conflitto israelo-palestinese è quindi un evento in cui gli ebrei vengono attaccati non per ciò che fanno, ma per ciò che sono.
Una lettura anche rapida della Carta di Hamas rivela la centralità del suo antisemitismo, ispirato esplicitamente dai protocolli dei Savi di Sion. Hamas è il ramo palestinese dei Fratelli Musulmani e il suo obiettivo primario è lo sradicamento di Israele. La dimensione redentrice strutturante di questo antisemitismo deriva dal fatto che è proprio da questo sradicamento che dipende la salvezza stessa, ed è proprio questo che guida il movimento e dà senso alla sua azione. Agli occhi di Hamas la scomparsa di Israele conta più della creazione di uno Stato palestinese. Come spiegare altrimenti i miliardi di aiuti umanitari sottratti e investiti nell’incredibile rete di tunnel, accessibili esclusivamente ai membri della milizia, costruiti a scapito del benessere della popolazione dell’enclave e che gravano pesantemente sul suo futuro?
Da quando è salito al potere con le elezioni del 2006, Hamas non ha avuto altra preoccupazione che preparare lo sterminio del suo vicino e, il 7 ottobre, gli assalitori non gridavano «morte ai sionisti» o «morte agli israeliani», ma «morte agli ebrei». Inoltre invitavano esplicitamente ad attaccare gli ebrei in tutto il mondo, e l’attacco alla sinagoga di Manchester della scorsa settimana è solo l’ultimo esempio della mancanza di distinzione tra israeliani ed ebrei agli occhi degli islamisti.
Postulare un nesso causale tra la politica coloniale israeliana, per quanto criticabile, e il 7 ottobre significa falsificare la dimensione centrale dell’evento; significa infatti privarlo del significato che i membri di Hamas che lo hanno compiuto hanno voluto dargli.
È proprio la centralità dell’antisemitismo che i pensatori postcoloniali e i loro numerosi sostenitori hanno voluto imperativamente rendere invisibile. Questa occultamento ha come corollario la premessa di un’essenza coloniale di Israele sin dalla sua fondazione. In questa prospettiva gli ebrei sarebbero una popolazione alloctona senza alcun legame con la Palestina, e il sionismo nient’altro che l’ultima incarnazione del colonialismo europeo o dell’imperialismo americano.
La lettura postcoloniale rivela nel migliore dei casi un’ignoranza abissale della storia ebraica e del legame che si è sviluppato nel corso dei secoli con la terra di Israele. Purtroppo è più probabile che alla base di questa ideologia vi sia una negazione consapevole ed esplicita di questa storia. Spesso essa enuncia esplicitamente una contestazione di principio del diritto all’esistenza di uno Stato ebraico. Lo slogan «From the River to the Sea», punto di riferimento di tutte le manifestazioni dal 7 ottobre in poi, che invita a liberare la Palestina dagli ebrei e dal loro Stato, è una sintesi quasi perfetta dell’anticolonialismo e dell’ignoranza. Questo slogan è poi così diverso da quello che invocava una Europa Judenrein negli anni Trenta?
L’inversione accusatoria è il modus operandi tradizionale dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo; mira a rendere gli ebrei responsabili di ciò che è stato loro fatto o che si fantastica di infliggere loro. Le espulsioni medievali erano precedute da accuse di avvelenamento dei pozzi o di omicidio di bambini per scopi rituali. L’antigiudaismo cristiano culminò nell’accusa di deicidio; accusare gli ebrei della morte di Dio stesso li rendeva i nemici più odiosi, ma anche i più temibili che si potessero immaginare.
L’antisemitismo moderno si è strutturato attorno a teorie cospirative che postulano gli ebrei abbiano il progetto occulto di pervertire e dominare la società e che la violenza nei loro confronti sia quindi solo preventiva o difensiva.
Ciò che prevale nell’antigiudaismo come nell’antisemitismo, al di là delle notevoli differenze tra loro, è il postulato di una pericolosità singolare degli ebrei: essi sono temuti per la loro capacità di nuocere, così come sono disprezzati per la loro presunta ostinazione, ed è questo che contraddistingue questi odi e li differenzia da altre forme di razzismo.
Dal 7 ottobre, l’accusa di genocidio – il crimine dei crimini – ha sostituito quella di deicidio; è ciò che sta alla base di tutte le mobilitazioni e giustifica le violenze, come le azioni più esagerate.
Questa nuova inversione accusatoria non è casuale, ma rimanda a un altro obiettivo centrale del pensiero postcoloniale che vede nella Shoah la chiave della protezione di Israele ,che deve essere eliminata. Le accuse contro lo Stato ebraico di aver commesso un genocidio come lo Stato nazista, è il tentativo di desingolarizzare ossia di banalizzare la distruzione degli ebrei d’Europa; ed è ciò che sta avvenendo da due anni.
A metà ottobre 2023 Omer Bartov, pur essendo uno specialista della Shoah in Ucraina, si è affrettato a contestare la dimensione genocida del 7 ottobre e ad avvertire invece che la risposta di Israele, allora era appena iniziata, lo sarebbe stata. Il 1° novembre 2023, Didier Fassin, eminente sociologo parigino, ha seguito le sue orme e ha pubblicato Lo spettro di un genocidio a Gaza. La tesi è semplice: Israele è una colonia di popolamento, questa forma di dominio produce una legittima resistenza da parte dei colonizzati; i colonizzatori reprimono le rivolte in modo sempre più violento, fino a sradicare completamente gli indigeni. È quindi proprio perché è uno Stato coloniale, che Israele commette un genocidio, e l’atto deriva per così dire dalla natura dello Stato, non necessita di essere documentato.
L’inversione accusatoria legata al termine “genocidio” non è casuale, ma rimanda a un altro obiettivo centrale del pensiero postcoloniale che vede nella Shoah un baluardo di protezione di Israele che deve essere abbattuto.
Questa accusa, che è una demonizzazione e una delegittimazione radicale di Israele, ha ovviamente effetti incommensurabili sugli ebrei. È in nome del genocidio che si giustificano gli appelli al boicottaggio di Israele, delle sue università, dei suoi artisti, dei suoi sportivi, dei suoi insegnanti e persino degli ebrei di altri paesi che si suppone lo sostengano. Quando, recentemente, il proprietario di una sala cinematografica dove da quindici anni si svolge il Festival del cinema ebraico di Ginevra ha giustificato il suo rifiuto di continuare ad affittare la sua sala, ha sostenuto che ciò che stava accadendo a Gaza gettava un’ombra negativa definitiva sull’intera cultura e storia ebraica. Da qualche tempo il confine tra antisionismo e antisemitismo è definitivamente scomparso: quando il sindaco di Losanna dichiara che le autorità comunitarie ebraiche dovrebbero condannare pubblicamente la politica israeliana per combattere l’antisemitismo postula un legame tra le due cose e le rende di fatto corresponsabili di quest’ultimo. Quando in Francia si profana un monumento commemorativo dei Giusti con lo slogan «Free Palestine» e «stop al genocidio», quando si espellono da un aereo spagnolo dei bambini francesi perché cantano in ebraico, quando il primo ministro spagnolo deplora che il suo paese non disponga dell’arma nucleare per «fermare il genocidio», quando in Francia si vieta l’accesso a un parco divertimenti a dei bambini perché sono israeliani, siamo entrati in una nuova era. Ciò che è in atto è ben diverso dalla legittima critica delle azioni eccessive di uno Stato.
La guerra condotta da Israele ha causato un numero considerevole di vittime innocenti, un fatto che mette a dura prova anche i più fedeli amici di Israele. Tutte le vite umane hanno lo stesso valore, questa verità deve essere ricordata e le vittime palestinesi meritano, senza alcuna restrizione, la stessa attenzione e la stessa compassione di tutte le vittime innocenti. Tuttavia definire la guerra israeliana come genocidio significa qualcosa di completamente diverso: è un uso improprio della memoria della Shoah che si ritorce contro gli ebrei e Israele.
Si può quindi temere che il 7 ottobre costituisca la fine di una parentesi nella storia degli ebrei che si era aperta dopo la Shoah: nei decenni successivi alla loro distruzione, l’odio verso gli ebrei, che prima era strutturante, era diventato improvvisamente inaccettabile; «Hitler ha disonorato l’antisemitismo», scriveva George Bernanos alla fine della guerra. Questa strana formula esprime ciò che ha caratterizzato quell’epoca: certamente gli ebrei non erano particolarmente simpatici, postulava Bernanos, ma trattarli come avevano fatto i nazisti e i loro collaboratori, nell’indifferenza della maggioranza, era diventato intollerabile. Il ricordo di ciò che era appena accaduto protesse gli ebrei e assicurò allo Stato di Israele, fondato solo tre anni dopo il genocidio e popolato da sopravvissuti, una simpatia quasi naturale. Cosa ne rimane oggi?
Siamo in un’epoca diversa, c’è da temere che il 7 ottobre segni la fine di una parentesi nella storia degli ebrei che si era aperta dopo la Shoah.
L’Europa si considera modello per il mondo, da quando si odia e si ammira per aver portato avanti e poi espiato lo sterminio degli ebrei. Pensa di aver tratto le giuste lezioni da questa storia entrando in un’epoca che si può definire “post”: è postmoderna, cioè principalmente post-storica, poiché postula che le narrazioni storiche siano miti, è postnazionale perché ai suoi occhi le nazioni sono «costruzioni sociali» che porterebbero necessariamente al nazionalismo e alla guerra, è postcoloniale poiché si pente, a ragione, del dominio che ha imposto a innumerevoli popolazioni che non avevano chiesto nulla. Essa postula che la pace che è riuscita a instaurare tra ex nemici dovrebbe essere un esempio per tutti. Anche lo scoppio della guerra nel cuore dell’Europa nel febbraio 2022 ha scosso solo marginalmente queste certezze. L’Europa pensa tutto questo in gran parte perché è convinta di aver tratto gli unici insegnamenti possibili dalla Shoah.
Gli ebrei, da parte loro, hanno tratto le stesse lezioni dalla loro distruzione? Non del tutto. Hanno istituito uno Stato nel 1948 per porre rimedio alla loro vulnerabilità; questo Stato non esita a usare la forza e persino a fare la guerra per difendersi; concepiscono questo Stato come parte integrante della lunga storia ebraica, che ha origine in un testo antico che mescola narrazione storica e parole religiose. Ma forse, e soprattutto, sia in Israele sia nelle diaspore, gli ebrei ritengono legittimo voler continuare a essere ciò che sono, senza cercare di fondersi in un insieme più ampio. Qui si trovano gli ingredienti di un malinteso crescente, i cui effetti scuotono la vita ebraica.
Il confronto tra Israele e il mondo arabo-musulmano dura da diversi decenni; una prima fase del conflitto è iniziata con il rifiuto del piano di spartizione dell’ONU il 29 novembre 1947. Per trent’anni, tutti gli Stati arabi hanno mantenuto il loro rifiuto di uno Stato ebraico e hanno avviato guerre volte a distruggerlo. L’ultima di queste è iniziata con un’offensiva congiunta di Egitto e Siria nel giorno del Kippur, nel 1973. Israele, attaccato di sorpresa, ha subito inizialmente la sua più grande sconfitta, poi, dopo una reazione molto costosa in termini umani, ha ottenuto una vittoria schiacciante. In seguito a ciò l’Egitto, rendendosi conto dell’impossibilità di distruggere il suo vicino, rinunciò a questo obiettivo e ottenne attraverso i negoziati la restituzione di tutti i territori persi durante la Guerra dei Sei Giorni.
Un secondo ciclo di scontri è iniziato quando la Repubblica islamica dell’Iran ha ripreso nel 1979 il testimone della “resistenza” contro Israele, formando progressivamente “l’asse” costituito da Hamas, Hezbollah, il regime di Assad in Siria, le milizie sciite dell’Iraq e dello Yemen. Il 7 ottobre 2023, giorno di Simchat Torah, è stato scelto per colpire Israele e tentare di raggiungere l’obiettivo che l’“asse della resistenza” si era prefissato: una Palestina islamista “dal fiume al mare”. Quello che era iniziato come il più grande disastro vissuto da Israele dalla sua creazione si sta concludendo in questi giorni con la sconfitta dell’“asse della resistenza”. Questa sconfitta porrà fine a questo secondo ciclo di scontri e consentirà una soluzione pacifica e giusta della questione palestinese?
Sebbene sia stato sconfitto militarmente sui vari fronti mediorientali, l’«asse della resistenza» conta paradossalmente i suoi ultimi alleati in Occidente, che non sembrano disposti a rinunciare alla delegittimazione di Israele, con le profonde ripercussioni di questa politica sugli ebrei d’Europa. È possibile che nel Medio Oriente si inneschi una dinamica virtuosa, ma che la situazione degli ebrei in Europa continui a deteriorarsi.
«Il sionismo, scriveva Hannah Arendt, è stata l’unica risposta politica che gli ebrei abbiano mai trovato all’antisemitismo e l’unica ideologia che abbia tenuto seriamente conto di un’ostilità che avrebbe posto gli ebrei al centro degli eventi mondiali. » Israele e gli ebrei sono senza dubbio oggetto di un’attenzione sproporzionata rispetto al loro peso demografico, qualcosa che di fatto assomiglia a un’ossessione. Il 7 ottobre ha rivelato che l’esistenza di uno Stato ebraico non è ancora scontata. Hamas e “l’asse della resistenza” non hanno rinunciato a distruggere Israele e questa volontà ha trovato sostenitori in un mondo che si credeva immune dall’odio verso gli ebrei. Di fronte a questo scherzo della storia, il sionismo rimane più che mai l’unica risposta seria all’antisemitismo.
Jacques Ehrenfreund
Notes
1 | Questo testo è la versione rielaborata e ampliata di una conferenza tenuta a Berna in occasione di una cerimonia commemorativa del 7 ottobre organizzata dalla “Federazione svizzera delle comunità israelite” e dall’“Associazione Svizzera-Israele”. |