La questione ebraica nel XXI secolo o lo stato dell’arte della coscienza politica europea

Il conflitto israelo-palestinese non ha solo frammentato il Medio Oriente: ha riaperto una frattura nel cuore dell’Europa.Perché questa guerra lontana è diventata “la questione” capace di lacerare il continente? Cosa rivela della nostra idea di giustizia, della nostra memoria e della nostra fiducia nell’emancipazione?Ripercorrendo la genealogia delle grandi “questioni” europee – sociali, nazionali, femministe –, Julia Christ invita a un radicale cambiamento di prospettiva: e se ciò che oggi vacilla non fosse solo una posizione politica ma la consapevolezza stessa di ciò che l’Europa significa?

 

Philip Guston, “Hovering”, 1976, wikiart

 

La guerra sembra finita, gli ostaggi ancora in vita sono tornati a casa, a Gaza gli aiuti alimentari arrivano ora con maggiore rapidità; eppure, si percepisce già, in modo confuso, che la vicenda è ben lontana dall’essere conclusa. Restano da condurre indagini, da accertare con precisione le responsabilità e da individuare tribunali capaci di giudicare tanto i crimini di Hamas contro Israele (ma anche senza dubbio contro il popolo di Gaza) quanto quelli commessi dal governo israeliano a Gaza e in Cisgiordania. Soprattutto la vicenda resta aperta perché non si può dimenticare la passione che il 7 ottobre, e poi la guerra a Gaza, hanno suscitato in Europa.

La frattura europea

Da due anni ormai, la questione Israele/Gaza o, più in generale, Israele/Palestina tormenta l’Europa. L’Unione si è divisa tra i governi che hanno riconosciuto l’esistenza di uno Stato palestinese e quelli che preferiscono prima conoscerne le intenzioni prima di concedere il riconoscimento. La frattura attraversa persino la celebre coppia franco-tedesca, che si sta lacerando — senza nominare esplicitamente questa sfida — sul significato stesso dell’Europa post-Shoah.

L’opinione pubblica europea ha trasformato l’adesione al campo filopalestinese o filoisraeliano in una sorta di barriera d’ingresso per qualsiasi dibattito, su qualsiasi tema. Là dove un tempo ci si chiedeva se un interlocutore fosse di sinistra o di destra, oggi ci si domanda apertamente se sia disposto a trascurare le sofferenze del popolo ebraico o quelle del popolo palestinese — e guai a chi non volesse distogliere lo sguardo da nessuna delle due, perché viene subito messo sotto torchio finché si capisca a quale campo appartenga davvero.

Amicizie si sono infrante su questa questione, collaborazioni professionali sono esplose. L’odio, un tempo appannaggio degli estremisti, è diventato un sentimento morale e politico quasi normale. Le comunità ebraiche europee si sono chiuse in se stesse di fronte all’indifferenza generale verso il loro destino, colpite da un antisemitismo trionfante mascherato da buona coscienza. Dall’altra parte, le maggioranze nazionali evitano sempre più ogni contatto con i loro concittadini ebrei, sostenendo che non si può più parlare con loro, che sono diventati tutti ottusi particolaristi e che, in ogni caso, l’accusa di antisemitismo è stata strumentalizzata al punto da rendere impossibile sentirsi al sicuro con gli ebrei, sempre pronti — per un sorriso fuori luogo — a ricorrere ai tribunali.

Là dove un tempo ci si chiedeva se un interlocutore fosse di sinistra o di destra, oggi ci si domanda apertamente se sia disposto a ignorare le sofferenze del popolo ebraico o quelle del popolo palestinese – e guai a chi non voglia distogliere lo sguardo da nessuna delle due.

Niente di tutto questo scomparirà, anche se si riuscisse a raggiungere una pace duratura. Si può fingere che non sia accaduto nulla, che l’esplosione dell’antisemitismo sia stata solo una reazione disperata e maldestra alla condizione della popolazione palestinese sotto i bombardamenti — una reazione che, in fondo, non avrebbe mai avuto come bersaglio la comunità ebraica. Si può cercare di dimenticare il piacere con cui le parole “genocida”, “assassini di bambini”, “nazisti” sono state associate al nome ebraico; si può negare di aver notato la delusione dell’ala più radicale della causa palestinese all’avvicinarsi del cessate il fuoco; si può dichiarare che le esplosioni di violenza a Berna, le conferenze sul tema “non ci pentiamo del 7 ottobre” nelle università francesi dopo la fine dei combattimenti, o l’ondata di libri e articoli che erigono Israele a paradigma di tutto ciò che non va nel mondo, non siano sintomatiche, e nascondere la frustrazione che vi si esprime.

Non quella legata a una pace i cui contorni — già delineati dal presidente Trump — saranno tutt’altro che perfetti per il popolo palestinese, ma quella che nasce dal disagio di sapere che presto, di nuovo, si urlerà per le strade “morte agli ebrei”. In sintesi, si può anche non voler vedere che la questione israelo-palestinese non è un semplice problema di guerra e pace in attesa di soluzione, ma la vera questione europea del momento.

Maggioranza e minoranza: ciò che costituisce una “questione” in Europa

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre innanzitutto ricordare che le questioni europee, in senso proprio, sono rare. Ne esistono di due tipi: quelle che riguardano l’interno e quelle che riguardano l’esterno del continente. Tra le prime, in realtà, ne conosciamo solo alcune fino a oggi: la questione sociale e quella agraria nel XIX secolo; la questione nazionale, o delle nazionalità, tra XIX e XX secolo; la questione femminile e la questione ebraica, ininterrottamente dalla Rivoluzione francese.

Ciò che colpisce, in questo elenco, è la posta in gioco comune a tutte queste “questioni”. Ogni volta che un tema raggiunge la dignità di “questione”, tocca il cuore stesso del progetto politico europeo post-rivoluzionario: l’emancipazione. Che si tratti del movimento operaio dell’Europa occidentale, del movimento contadino nell’Europa meridionale e orientale, della rivendicazione di autodeterminazione dei popoli al momento del crollo degli imperi ottomano e austro-ungarico, o ancora delle richieste avanzate da donne ed ebrei d’Europa perché essa fosse all’altezza della sua promessa di emancipazione universale — di tutti e, quindi, anche di tutte —, in ogni caso ci troviamo di fronte a minoranze che reclamano la loro piena integrazione nei diritti fondamentali.

Questo vale tanto per la vita interna delle società nazionali, che si sono co-costruite a partire dalla Rivoluzione francese, quanto per la vita tra i popoli che hanno scelto di partecipare a quel progetto comune la cui parola d’ordine è, appunto, l’emancipazione.
Su questo piano, una “questione” per l’Europa nasce ogni volta che è in gioco il progetto di emancipazione in società dove esistono minoranze e una maggioranza.

Il concetto di minoranza, nelle questioni che l’Europa si pone, non si riferisce al numero ma all’atteggiamento della maggioranza nei loro confronti, che pensa di sapere di cosa sia composta la società e, di conseguenza, cosa sia assolutamente giusto per essa.

Il concetto di minoranza ha, qui, un significato molto particolare. Né le donne nel loro insieme, né i contadini o gli operai del XIX secolo, ad esempio, costituivano minoranze numeriche all’interno delle società europee. Diverso è il caso delle nazionalità minoritarie all’interno degli imperi in declino — almeno fino al momento in cui acquisiscono uno Stato proprio, diventando numericamente maggioritarie —, così come quello degli ebrei fino al 1948, quando la fondazione dello Stato di Israele ha creato un luogo in cui anche gli ebrei dispongono di una maggioranza numerica. Ciò, tuttavia, non modifica in nulla il carattere minoritario, anche numericamente, degli ebrei della Diaspora nei rispettivi paesi.

Il concetto di minoranza, nelle questioni che l’Europa si pone, non riguarda dunque il numero. È possibile che la minoranza che mette in discussione il progetto europeo di emancipazione — proprio perché ne è esclusa — sia anche numericamente minoritaria, ma non è il numero a renderla tale. A determinarlo è altro: l’atteggiamento della maggioranza nei suoi confronti.

La maggioranza può essere numericamente meno importante delle minoranze, come nel caso della borghesia di fronte ai movimenti operai e contadini. Ciò che conta non è la quantità, ma la posizione di chi si ritiene depositario della verità sulla società nel suo insieme. La maggioranza è il gruppo sociale che pensa di sapere da cosa sia composta la società e, di conseguenza, che cosa sia giusto per essa.

Perché il tessuto sociale, che la maggioranza pretende di essere la sola a comprendere, non è fatto soltanto di bisogni materiali e infrastrutture — se così fosse, basterebbe una conoscenza tecnocratica per elaborare una politica adeguata —, ma di aspettative di giustizia, di ideali e di aspirazioni. La maggioranza è quel gruppo che crede di averle comprese integralmente e di essere, perciò, l’unico in grado di rispondere a tali aspettative e di formulare correttamente l’obiettivo emancipatorio della società.

Ciò che essa nega alle minoranze, o più precisamente a tutti i gruppi che considera tali, è la capacità di elevarsi a quel livello di visione complessiva e orientata alla giustizia e al bene. Ed è proprio questa presunta incapacità che li mantiene in una condizione di minorità giuridica, politica e sociale — in altre parole, che ne rinvia la piena e completa emancipazione.

Le ragioni addotte per giustificare il dubbio sulle capacità epistemiche e cognitive delle minoranze sono molteplici: per le donne, si è spesso invocata la loro “natura”, che impedirebbe loro di accedere a una ragione fredda e neutrale, e quindi a un punto di vista oggettivo sul tutto; ai contadini e agli operai è stata rimproverata la loro arretratezza culturale; quanto ai gruppi nazionali, tra cui gli ebrei, sono sempre stati accusati di avere interessi particolari derivanti dal loro attaccamento esclusivo al proprio gruppo, che impediva loro di considerare realmente la società nel suo insieme. Natura, arretratezza e particolarismo costituiscono, per così dire, il trittico mentale a disposizione della maggioranza per respingere le richieste di emancipazione.

Una «questione» comincia quindi a tormentare l’Europa quando la maggioranza così definita si interroga sui propri pregiudizi nei confronti delle minoranze e sulla loro capacità di abbracciare il tutto con il pensiero. Questa interrogazione non è in genere volontaria: la maggioranza non si sveglia una bella mattina dicendosi che forse ha torto. È spinta alla «questione» dai movimenti di emancipazione delle suddette minoranze, cioè dalle loro richieste di essere considerate come gruppi capaci di formare individui in grado di assumere il punto di vista della totalità e, parallelamente, dai loro tentativi di dimostrare questa capacità di essere maggiorenni.

A questo titolo, le minoranze europee hanno sempre seguito la via kantiana dell’emancipazione: da un lato comprendono che la maggioranza le rende “stupide” e le mantiene volontariamente in uno stato di inferiorità intellettuale; dall’altro si assumono la responsabilità della propria condizione, cercando di dimostrare di essere perfettamente in grado non solo di pensare con la propria testa, ma anche di comprendere nel loro pensiero l’insieme delle questioni sociali – e quindi di contestare il privilegio della conoscenza che la maggioranza si attribuisce.

Ed è proprio questo secondo gesto che è indispensabile affinché un movimento di emancipazione minoritario riesca a trasformare le proprie rivendicazioni in una «questione» per l’intera società. Infatti, solo quando diventa evidente a tutti la capacità di questo movimento di formulare una conoscenza completa della società, contrapposta a quella maggioritaria, la legittimità morale ed epistemologica della tutela esercitata da quest’ultima comincia a sgretolarsi. E solo quando questo processo è in corso la maggioranza inizia a dubitare di un elemento chiave della sua posizione di “sapitore”: la buona coscienza di agire sempre in modo giusto.

D’altra parte, prima del 1945, esisteva un secondo tipo di questione che poteva interessare l’Europa. Si trattava di questioni di politica estera, come la questione d’Oriente nel XIX e all’inizio del XX secolo o la questione coloniale nello stesso periodo. Queste “questioni” venivano dibattute nell’opinione pubblica degli Stati nazionali europei, dove si trattava di valutare, nel primo caso, le opportunità di influenza offerte dal crollo dell’Impero ottomano, e nel secondo, le occasioni di conquista e colonizzazione.

In questo ambito, il termine “questione” copre le sfide della politica estera legate all’ampliamento della sfera d’influenza degli Stati. Se le società si infiammano in queste circostanze, non è per la loro capacità di incarnare un ideale di giustizia e di realizzare l’emancipazione di tutti, ma per i loro interessi in quanto potenze statali. In questo senso, i due tipi di questioni che l’Europa può porsi sono diametralmente opposti. Non comunicano tra loro, se non nel discorso ideologico che presenta come altamente morale ogni impresa di espansione imperiale o coloniale. Il primo tipo di questione riguarda l’approfondimento della giustizia di cui le società moderne sono capaci; il secondo non ha nulla a che vedere con queste considerazioni e si occupa soltanto degli interessi strategici degli Stati.

Politica interna – politica estera

In che modo, dunque, alla luce di ciò che può realmente costituire una «questione» per l’Europa, il conflitto israelo-palestinese può pretendere questo status? Per un attore come il presidente americano, ad esempio, è chiaro che esiste una questione mediorientale legata agli interessi strategici degli Stati Uniti, del tutto indipendente da considerazioni di giustizia. Anche per il governo francese si tratta di una questione strategica cruciale, data l’importanza che la Francia attribuisce alla propria “politica orientale”, ereditata dal generale de Gaulle, e alla volontà di diventare l’interlocutore privilegiato dei paesi arabi dopo la guerra d’Algeria — senza contare gli interessi specifici che Parigi mantiene in Libano.

Per il governo francese, dunque, la guerra a Gaza ha probabilmente incarnato in modo esemplare il significato del termine “questione”. È verosimile che la frattura nella coppia franco-tedesca derivi dal fatto che, per la Germania, il conflitto israelo-palestinese rappresenta una questione di politica interna per l’Europa, mentre per il presidente Macron resta una questione di politica estera francese.

Ciò che questa vicenda ha rivelato è che ormai in Europa è impossibile considerare qualsiasi questione politica, estera o interna, se non in termini di realizzazione della giustizia.

Ma lasciamo da parte le questioni geopolitiche. Ci interessano solo in quanto rivelatrici dello stato dell’Europa. E da questo punto di vista, un fatto è emerso chiaramente: la condanna unanime dell’atteggiamento spietato del presidente Trump, che nei nostri paesi suscita solo disgusto. Ciò che la vicenda ha messo in luce è che oggi in Europa non è più possibile considerare una questione politica — estera o interna che sia — se non in rapporto alla giustizia.

Il presidente francese lo sa bene, tanto da sentirsi obbligato a rivestire la tradizionale politica orientale francese con solenni dichiarazioni morali sul diritto dei popoli. L’opinione pubblica europea, dal canto suo, non discute più delle opportunità di influenza dei propri Stati: il declino oggettivo dell’Europa come potenza mondiale lo rende impossibile, così come lo impone la costruzione europea post-1945, fondata sul diritto internazionale e sul rispetto delle minoranze e dei piccoli Stati.

Il conflitto tra Israele e Palestina non è dunque diventato la “questione” per gran parte dell’opinione pubblica europea a causa del destino economico o strategico degli Stati del continente. Proprio come per l’Ucraina, l’opinione pubblica si rifiuta ostinatamente di prendere in considerazione queste dimensioni e accetta solo di valutare le situazioni portate alla sua attenzione da un punto di vista morale.

Va riconosciuto che questa lettura della realtà, da parte dell’opinione pubblica, è corretta: in Europa, nel conflitto israelo-palestinese e ancor più nella guerra a Gaza, è in gioco soprattutto la giustizia. I governi europei possono mascherare i propri interessi strategici dietro un discorso morale, ma le società europee non sono più in grado di accettare considerazioni puramente strategiche. Sotto questo aspetto — e non si può che rallegrarsene — le società europee attuali sono davvero società post-1945, dove l’argomento dell’interesse o del potere è diventato inaccettabile nel dibattito pubblico ogni volta che contraddice il diritto e la giustizia.

Ma se non sono gli interessi strategici o economici ad appassionare l’Europa, che cosa c’è in gioco in questo conflitto da renderlo la questione del nostro tempo? La risposta più immediata, naturalmente, è che si tratta della questione dell’Europa stessa, perché questo conflitto tocca da vicino l’autocomprensione di un continente che, dopo la Shoah, si è costruito come entità in cui le considerazioni di giustizia prevalgono sempre su quelle di potenza – in breve, un’Europa in cui tutto è diventato politica interna – e che, da questa coscienza morale, resta inorridita di fronte alla distruzione di Gaza.

Questa risposta, per quanto seducente nella sua semplicità, non regge alla prova dei fatti: l’Europa è rimasta muta di fronte alle immagini di Grozny o di Raqqa, e in generale continua a vivere piuttosto serenamente, qualunque cosa i cinesi infliggano agli uiguri, l’Arabia Saudita allo Yemen o i talebani alle donne afghane. Le violazioni del diritto internazionale e della giustizia umana, anche le più gravi, a cui assistiamo quotidianamente, non costituiscono una questione per l’Europa.

La risposta che si sente spesso di fronte a questa evidenza è che il conflitto israelo-palestinese, e in particolare la devastante guerra a Gaza, riguardano l’Europa in modo completamente diverso, perché la violenza è esercitata dallo Stato fondato dopo la Shoah per offrire un rifugio definitivo al popolo vittima del genocidio nazista. E poiché, secondo questo stesso discorso, la Shoah costituisce il fondamento dell’ordine giuridico e morale incarnato oggi dall’Europa, è per essa inaccettabile che coloro la cui quasi totale distruzione l’ha costretta ad autolimitarsi politicamente – cioè a rinunciare alla logica strategica e di potere come motivo legittimo d’azione per i propri Stati – non si limitino a loro volta. La critica è dunque che Israele tradisce la memoria della Shoah, mentre dovrebbe essere, insieme all’Europa, il paese chiamato a portare alle estreme conseguenze politiche la lezione di quel crimine.

Israele non è, agli occhi dell’Europa, una soluzione temporanea alla propria debolezza, ma il segno di una frattura che compromette irrimediabilmente la fiducia dell’Europa nella sua capacità di essere veramente giusta.

È questo l’orizzonte di tutte le esagerazioni verbali che identificano Israele con la Germania nazista o ripetono ossessivamente la parola genocidio, così come delle rappresentazioni pittoriche in cui la Striscia di Gaza appare trasformata in un campo di sterminio, o Anna Frank ritratta con la kefiah palestinese. In tutto ciò si esprime l’incapacità di accettare che Israele, il paese delle vittime, non abbia tratto dalla Shoah le stesse conseguenze dell’Europa, terra dei carnefici. Si esprime anche un rimprovero rivolto agli ebrei della Diaspora, accusati di applicare due pesi e due misure nel sostenere Israele, tradendo così, secondo questa logica, l’idea di una politica post-Shoah coerente.

Ma che cos’è, precisamente, questa politica post-Shoah dell’Europa, non in astratto, ma in relazione a Israele? In altre parole, che cosa significa politica post-Shoah quando si abbandona il piano delle generalità, dove essa si esaurisce nei concetti di “diritti umani”, “diritto internazionale” o nel misterioso mai più, buono a rallegrare più di una serata tra psicoanalisti? È chiaro che, al momento della creazione dello Stato di Israele, preceduta dal voto dell’ONU sul piano di spartizione della Palestina, esisteva un consenso su ciò che significava “politica post-Shoah”: il riconoscimento che nessuna concezione della politica – nemmeno quella che si credeva la più universalista, illuminata e umanista di tutti i tempi, la politica europea moderna fondata sui diritti dell’uomo e del cittadino – era in grado di garantire la sicurezza del popolo ebraico.

Da questo punto di vista, affrontare il futuro criminale dell’umanesimo della cultura tedesca fu tanto doloroso quanto riconoscere la complicità del paese dei diritti umani, la Francia, della madre dell’idea di tolleranza, i Paesi Bassi, o l’indifferenza della democrazia apparentemente più perfetta, la Svizzera. Il sostegno europeo alla creazione dello Stato di Israele non riconosceva un fallimento momentaneo: di fronte alla millenaria storia di persecuzioni degli ebrei in Europa, quel sostegno manifestava la presa d’atto che l’Europa riteneva di non poter mai garantire pienamente la sicurezza di questa minoranza al suo interno.

Israele non è, dunque, agli occhi dell’Europa, una soluzione provvisoria alla sua incapacità, ma il segno di una falla che compromette irrimediabilmente la fiducia dell’Europa nella propria capacità di essere veramente giusta. E più cresce la consapevolezza di questa falla, più l’Europa del dopoguerra diventa l’Europa post-Shoah.

Di conseguenza, per gli ebrei dopo la Shoah, la creazione dello Stato di Israele significava esattamente la stessa cosa: la costruzione di un rifugio sicuro, in ogni tempo. Anche in questo caso, il riconoscimento che non si poteva più avere fiducia cieca nell’Europa e nella sua capacità di essere giusta.

La politica post-Shoah: sostenere la falla

Si percepisce qui che la politica post-Shoah rispetto a Israele non voleva in alcun modo significare la realizzazione del «diritto internazionale» né dei «diritti umani». Non designava nemmeno la capacità morale dei popoli europei di pensare sempre alla «persecuzione del popolo ebraico» sotto il «ciò» del celebre «mai più». Al contrario, ciò che si esprime in questo aspetto della politica post-Shoah è che, anche se l’Europa si impegna a trarre un’altra conseguenza dalla Shoah — vale a dire l’autolimitazione giuridica di ciò che politica e sovranità vogliono dire — e anche se mette in atto una politica della memoria volta a dare al «ciò» del «mai più» un contenuto storico concreto, può sempre accadere che l’Europa non riesca a non perseguitare gli ebrei.

La politica post-Shoah dell’Europa significava quindi due cose: da un lato, la protezione degli ebrei in Europa e tramite Israele — il che implica il sostegno a una sovranità politica ebraica — e, dall’altro, l’autolimitazione della politica moderna tramite il diritto, incluso quello internazionale. Il secondo elemento serve certamente a garantire il primo, ma il primo non si dissolve nel secondo e non potrebbe dissolversi finché l’Europa riconosce di non poter più affermare con certezza di poterlo garantire da sola.

Questa non coincidenza tra i due aspetti della politica post-Shoah spiega perché, per la Germania, la sicurezza di Israele rientri nella «ragion di Stato». Per i tedeschi, appare evidente che la questione di Israele sia effettivamente una questione di politica interna europea, nel senso che spetta alla politica post-Shoah dell’Europa distinguere tra la sottomissione al diritto della sovranità politica in Europa e la creazione di uno spazio sicuro per gli ebrei del mondo.

Distinguere non significa non giudicare Israele alla luce delle norme del diritto, ma significa non cancellare il nome ebraico dalla politica post-1945. In altre parole, significa ricordare che questa politica ha due obiettivi: autolimitarsi in funzione del diritto e fare in modo che la Shoah non possa ripetersi, il che, data la consapevolezza dell’incapacità dell’Europa di garantire pienamente la prevenzione di tale ripetizione, implica garantire che Israele sia al sicuro.

Se la questione israelo-palestinese è diventata oggi la questione dell’Europa, è perché qualcosa in questo conflitto rivela una tensione interna riguardo alla comprensione del proprio progetto di emancipazione.

Poiché la questione israelo-palestinese non può più essere considerata in Europa una questione di politica estera, e poiché resta comunque la questione del nostro tempo, si deve concludere che essa costituisce per l’Europa una questione di politica interna. Si tratta di una di quelle questioni che riguardano il progetto di emancipazione delle società europee. Questo progetto, che il crimine commesso avrebbe potuto rendere obsoleto, è stato mantenuto dopo la Shoah, adeguato agli atti perpetrati: sottomissione al diritto da un lato, sostegno alla costruzione di un rifugio per il popolo ebraico dall’altro.

Se la questione israelo-palestinese è quindi diventata oggi una questione europea, è perché qualcosa in questo conflitto rivela una tensione all’interno dell’Europa riguardo alla comprensione del proprio progetto di emancipazione. Spesso questa tensione non viene definita come tale, ma si manifesta nel dibattito pubblico in modo ridotto, sotto forma di conflitto tra il diritto – in questo caso internazionale – che condanna gli atti di Israele in questa guerra, e il sostegno a Israele. Tuttavia, questo è un modo superficiale di cogliere la questione: attraverso questo conflitto al suo interno, l’Europa discute in realtà se il suo progetto di emancipazione post-rivoluzionario e post-Shoah possa accontentarsi del diritto e dell’approfondimento dei diritti per proseguire, o se debba continuare a dubitare della propria capacità di proteggere gli ebrei mentre avanza sulla via dell’autolimitazione tramite il diritto.

È proprio questa difficile strada che l’Europa ha intrapreso dopo il 1945: da un lato ha costantemente creato nuovi diritti – diritti sociali, diritti delle donne, diritti delle minoranze sessuali, diritti delle minoranze etniche, diritti ecologici – e dall’altro si è sforzata di ricordare che non è certa che, nonostante questa continua emancipazione, sarà in grado di proteggere i suoi ebrei. Israele, per l’Europa, è il nome di questa falla.

È evidente che questo è il motivo per cui lo scoppio dei conflitti nell’opinione pubblica europea non ha atteso l’inizio della guerra israeliana contro Gaza. È proprio il 7 ottobre che si è posta la questione del sostegno a Israele, ed è proprio il 7 ottobre che una parte dell’opinione pubblica illuminata ha respinto l’idea che tale sostegno faccia parte di una politica di giustizia europea. Il 7 ottobre ha posto all’Europa una domanda che, a dire il vero, non si poneva da tempo: la questione se voglia ancora essere un rifugio per gli ebrei, il che implica inevitabilmente la domanda se dubiti ancora di se stessa. E una parte consistente dell’Europa, in questo caso la sua componente progressista, risponde negativamente a questa domanda.

Non si tratta di un rifiuto aperto dello Stato rifugio per gli ebrei – questo “no” si esprime in modo indiretto nella lotta per la liberazione della Palestina –, ma subordinando il proprio sostegno all’esistenza di questo Stato alla sua sottomissione all’unico aspetto del diritto nella concezione europea della politica, essa rifiuta apertamente la necessità di continuare a dubitare di sé stessa. In breve, ciò che il 7 ottobre ha portato alla luce è che una parte dell’Europa ha ormai la coscienza pulita, si sente in possesso di tutti i sostegni necessari per essere assolutamente giusta e ritiene che dubitare di sé riguardo alla capacità di proteggere gli ebrei la renderebbe infedele al progetto di essere portatrice e baluardo dei diritti umani e del diritto internazionale per tutti. Ecco perché la fine della guerra non cambierà nulla della situazione.

Qui si tratta di un dibattito sul significato del progetto di emancipazione dell’Europa. Da un lato c’è la maggioranza – che non deve essere necessariamente numericamente predominante – che pensa di detenere la conoscenza degli ideali di giustizia delle nostre società, invocando il diritto internazionale e umanitario, i cui obblighi valgono, o dovrebbero valere, per tutti. Dall’altro lato ci sono coloro che, certamente minoritari, sostengono che il progetto di emancipazione dell’Europa non può accontentarsi dell’astrazione dei diritti, ma deve continuare a considerare la situazione particolare della minoranza ebraica, mai al sicuro dalla persecuzione.

Questa componente afferma che l’esistenza e la sicurezza di Israele rappresentano una sfida esistenziale per l’Europa, se il continente vuole rimanere una costruzione post-Shoah, ovvero concepire la propria politica come un approfondimento della giustizia che tuttavia non può mai considerarsi del tutto sicura di essere infallibile.

La tentazione di coprire la falla con il diritto

Ciò che risulta intollerabile in questo discorso della minoranza è la presunta eccezionalità rivendicata per un gruppo minoritario, ovvero gli ebrei. In ogni caso, ciò che viene considerato inaccettabile, data la moltitudine di vittime della violenza europea – e qui in primo luogo i popoli un tempo colonizzati – è che al popolo ebraico venga riconosciuto un privilegio tra le vittime. In nome di una simmetrizzazione delle esperienze delle politiche criminali europee, si rifiuta quindi ciò che viene percepito come una priorità accordata agli ebrei.

E lo si fa con maggiore facilità in quanto si ritiene che la creazione dello Stato di Israele sulla terra di Palestina, quindi su una terra non europea, sia stata certamente un effetto della Shoah, quindi di un crimine europeo, ma nella sua realizzazione ribadisce la vecchia logica coloniale dell’Europa, consistente nell’esportare i propri problemi senza alcun riguardo per le popolazioni locali. In breve, si ritiene che l’Europa abbia risposto al suo crimine con un altro crimine, altrettanto costitutivo della politica europea quanto la distruzione del popolo ebraico e che, in quanto tale, getti un’ombra di dubbio sul progetto di emancipazione.

E proprio come il dubbio post-Shoah obbliga l’Europa a volere Israele come potenziale rifugio in caso di un proprio fallimento incontrollato e incontrollabile, il dubbio postcoloniale obbliga l’Europa a chiedersi, a ogni atto di politica estera, se esso non rientri nel registro della colonizzazione – in particolare della colonizzazione epistemica, economica, culturale o giuridica che persiste dopo il ritiro delle potenze europee dai territori precedentemente colonizzati. Ciò che si rimprovera, in questa prospettiva, all’Europa – e quindi a se stessa – è che finché si mantiene il sostegno a Israele proprio in nome del dubbio su se stessa, non si è realmente preso atto dell’altro imperativo che deve guidare la politica estera europea, e cioè quello anticoloniale.

È evidente che la politica post-Shoah e la politica postcoloniale dell’Europa entrano qui in conflitto, se per politica postcoloniale si intende che l’Europa non esporterà mai più i propri bisogni e problemi a scapito dei popoli verso cui li esporta. E il privilegio che si sospetta essere concesso agli ebrei riguarda il fatto che l’Europa attribuisce maggiore importanza al dubbio sulla sua capacità di garantire la sicurezza degli ebrei al suo interno rispetto al dubbio sulla sua capacità di non agire a scapito dei popoli non europei.

Per superare il conflitto tra le esigenze rivolte alla politica europea post-1945, ci si precipita nell’astrazione del diritto, in particolare internazionale, considerato la grande conquista in grado di preservare la politica dal suo futuro criminale. 

La contraddizione tra queste due esigenze rivolte alla politica europea – proteggere gli ebrei e rispettare assolutamente l’autonomia di tutti i popoli e le nazioni del globo – trova, nel discorso maggioritario, la sua soluzione nell’appello al diritto. Perché il minimo comune denominatore dei due crimini è l’effetto di violazione dei diritti. Per superare il conflitto tra le due esigenze rivolte alla politica europea post-1945, ci si precipita quindi nell’astrazione del diritto, in particolare internazionale, ritenuto la grande conquista capace di preservare la politica dal diventare criminale, sia all’interno che all’esterno. A dire il vero, questa concezione della politica di emancipazione che ha seguito la fine della seconda guerra mondiale, per quanto possa sembrare continuista nell’insistere sui diritti e sul loro approfondimento, opera anch’essa con una figura di rottura: il diritto internazionale è concepito come una forma di diritto radicalmente nuova, che vincola gli Stati dall’esterno e garantisce così che il sovrano popolare non possa né sovvertire il diritto emanando leggi ingiuste né agire verso l’esterno secondo una logica di interesse e di potere.

È evidente che un’armonizzazione tra politica post-Shoah e politica postcoloniale sia effettivamente possibile e che si possa tranquillamente eliminare la componente della “necessità di Israele” dalla politica post-Shoah, dal momento che si ritiene di aver raggiunto un livello di autolimitazione politica sufficientemente sicuro da rendere impossibile la persecuzione degli ebrei; si pensa inoltre di averlo raggiunto grazie all’invenzione di questo diritto inedito. In breve, si ritiene che il diritto, danneggiato dal crimine, sia stato riparato non mediante la punizione del crimine — che è il modo di riparare il diritto leso nel caso di crimini commessi da individui — ma, nella misura in cui, per la Shoah come per la colonizzazione, è il diritto stesso a essere diventato criminale, attraverso la sua sostituzione con un diritto migliore. Ed è questo ciò che afferma la maggioranza, quella che ora si oppone all’idea che il sostegno all’esistenza di Israele faccia parte della politica post-1945, sostenendo che qualsiasi politica di emancipazione dell’Europa debba basarsi esclusivamente su questo nuovo ordine giuridico, considerato capace di garantire la giustizia dell’Europa sia all’interno sia all’esterno.

Cosa significa emancipazione

La lotta intorno alla questione di cosa significhi emancipazione non ha quindi nulla a che vedere con una necessaria abolizione dei privilegi. Infatti, l’aspetto della “necessità di Israele” nella politica post-Shoah non riguarda né la concessione di privilegi agli ebrei né il considerarli vittime più importanti di quelle della colonizzazione. Esso afferma semplicemente che è stato commesso un crimine all’interno del corpo sociale e politico europeo e riconosce che l’Europa lo ha commesso nonostante il diritto che già ne limitava la politica interna. Riconosce che il sovrano popolare può calpestare i diritti degli individui e delle minoranze al suo interno, comprese quelle la cui integrazione era stata legalmente sancita; e che queste minoranze hanno quindi bisogno di un luogo dove rifugiarsi qualora ciò dovesse ripetersi.

E poiché la minoranza ebraica era l’unica (insieme alle donne, in realtà) che nel 1945 non ne possedeva uno, la creazione di questo luogo era necessaria in considerazione della falla nella politica moderna che non si poteva ignorare in quel momento, così come era necessaria, in relazione al pericolo potenziale corso dagli individui, la creazione di un diritto di asilo, fissato definitivamente nella Convenzione di Ginevra del 1951.

Certamente Israele e Hamas sono entrambi condannabili dal punto di vista del diritto internazionale. Ma cosa significa, allora, l’entusiasmo per questo strumento particolarmente inefficace nella realtà, l’eccessiva moralizzazione del discorso europeo a cui assistiamo dal 7 ottobre, e la superiorità trasudante di buona coscienza di cui la maggioranza si riveste da due anni quando evoca il diritto internazionale?

Ciò che oggi rende insopportabile il discorso maggioritario non è il «privilegio» che gli ebrei rivendicherebbero, ma la falla insita nel cuore stesso della politica europea post-Shoah, su cui la semplice esistenza dello Stato di Israele mette il dito. Questa falla è stata messa in luce il 7 ottobre, quando la fragilità del rifugio e la barbarie degli aggressori hanno fatto riaffiorare nella mente di tutti il ricordo della Shoah.

Bisogna rendersi conto che, nel rifiuto di vedere le abominazioni commesse da Hamas, nell’immediata accusa a Israele di essere uno Stato coloniale e potenzialmente genocida, e nella glorificazione della resistenza giustificata che Hamas incarnerebbe, non si trattava tanto di demonizzare Israele, quanto di affermare che la solidarietà europea — che implica l’idea stessa di un rifugio per gli ebrei — aveva ceduto il passo a una difesa incondizionata del diritto internazionale. Un indizio importante che conferma questa lettura è il rifiuto ostinato da parte dei sostenitori di questo discorso di interessarsi alla storia della situazione israelo-palestinese, che avrebbe inevitabilmente messo in luce non solo la complessità del conflitto, ma anche la ragione europea per cui si è voluto questo Stato. Tale ragione non si riduce alla famosa «colpa» che l’Europa avrebbe esportato, ma consiste nella sfiducia dell’Europa nei confronti della propria capacità di garantire veramente la propria giustizia.

Questo è l’abisso che la maggioranza non sopporta più di guardare in faccia e che copre con il suo discorso sul diritto internazionale, appena scoperto come garanzia assoluta contro il crimine. Certo, sia Israele sia Hamas sono condannabili dal punto di vista del diritto internazionale. Ma l’entusiasmo per questo strumento — in realtà particolarmente inefficace —, l’eccessiva moralizzazione del discorso europeo a cui assistiamo dal 7 ottobre e la superiorità trasudante di buona coscienza di cui la maggioranza si riveste da due anni evocando il diritto internazionale per condannare Israele tradiscono soprattutto una cosa: che per essa l’epoca della falla è finita, che l’Europa ha trovato la giusta politica post-1945, e questa consiste proprio nel diritto internazionale.

E l’Europa, avendo trovato questa giusta politica, è ormai certa di non perseguitare mai più gli ebrei — da qui, del resto, la completa negazione dell’antisemitismo in Europa. Di conseguenza, non è necessario alcun rifugio altrove per la minoranza ebraica. Quando sarà perseguitata all’interno delle nostre società, lo sarà con l’unico accompagnamento del sussurro che in realtà non lo è.

Il progetto di emancipazione dopo il 1945 era cambiato radicalmente, in quanto ora sapeva di essere fallibile. È di questa fallibilità che la politica post-Shoah ha preso atto, non di una semplice rottura della civiltà che sarebbe individuabile fissando le giuste norme morali e giuridiche. Perché la falla che è stata scoperta risiede nella possibilità che i popoli non rispettino le proprie norme, che cerchino qualcosa di diverso dalla giustizia. E nessun nuovo ordine giuridico potrebbe prevenirlo. Il progetto di emancipazione dell’Europa post-Shoah era inedito in quanto non cedeva sull’emancipazione, pur sapendo che l’Europa non avrebbe mai più potuto essere sicura della propria giustizia.

La questione ebraica del XXI secolo

La «questione» che oggi tormenta l’Europa è se l’inserimento di questa falla nella conoscenza di noi stessi comprometta il progetto di emancipazione. I reazionari di ogni schieramento affermano di sì, sostenendo che è proprio la consapevolezza della propria fallibilità ad aver reso l’Europa debole, che è tempo di ritrovare l’orgoglio per le conquiste della civiltà occidentale e di portare avanti il progetto post-rivoluzionario partendo dalle sue solide basi.

Anche i progressisti che ritengono che il diritto internazionale costituisca l’unica risposta giusta ai crimini della Shoah e della colonizzazione pensano di sì, perché, secondo loro, il problema del diritto internazionale attualmente esistente non è la sua potenziale fallibilità, ma il fatto che non venga applicato. Entrambe le parti ritengono infatti che questa falla non debba più esistere nella coscienza europea né, a maggior ragione, determinarne la politica.

Per i primi, basta tornare alla gloriosa storia delle conquiste europee, anche a costo di chiudere gli occhi su quelli che vengono pudicamente definiti i suoi «episodi bui». Per i secondi, non si deve in alcun caso chiudere gli occhi sui crimini dell’Europa, ma rallegrarsi che sia stato creato un ordine normativo che garantirà in futuro contro tali crimini. Nulla dell’Europa che ha preso atto del suo potenziale criminale e della sua incapacità di garantire che non farà mai più «quello» rimane in questa concezione dell’emancipazione. Di conseguenza, la necessità di Israele perde tutta la sua evidenza.

La questione israelo-palestinese è infatti l’espressione di una contraddizione europea irrisolvibile. L’Europa deve riconoscere attivamente l’autonomia di tutti i popoli di questa terra, e questo imperativo la pone in contraddizione con la creazione di uno Stato ebraico sulla terra storica del popolo ebraico. Riconoscere questa contraddizione significa entrare in una vita politica consapevole della falla che sta alla base della politica moderna post-1945, ma è anche l’unico modo per dare un vero senso all’idea di «ricerca della giustizia».

Se quindi il conflitto israelo-palestinese è diventato la “questione” dell’Europa, è perché essa si sta chiedendo se il suo progetto di emancipazione possa sopportare come orizzonte la possibilità di non riuscirci. Se il fallimento, l’insuccesso, il potenziale naufragio possono coesistere con il tentativo costante di rispondere alle aspettative di giustizia che si formulano nelle nostre società, in altre parole, con l’instancabile ricerca di giustizia propria del progetto di emancipazione dell’Europa. E sembra che siamo arrivati al punto in cui una parte delle nostre società afferma che è troppo difficile lavorare in queste condizioni, mentre un’altra parte — gli ebrei e coloro che rimangono convinti che Israele sia una questione di politica interna per l’Europa — ritiene che l’unica ricerca di giustizia che valga la pena sia quella che tiene conto di tutti i pericoli che la parola ricerca implica. Così la questione di Israele è diventata la questione ebraica del XXI secolo: vogliamo o no ascoltare ciò che gli ebrei hanno da dire sul significato dell’emancipazione nella nostra situazione storica? E ascoltare la voce ebraica oggi significa ascoltare che Israele è parte integrante dell’Europa post-Shoah, di quell’Europa che ha saputo che non poteva garantire la sicurezza degli ebrei. Significa anche ascoltare che non potrà riparare ai suoi crimini coloniali dissociandosi dalla necessità di Israele, il che non significa in alcun modo solidarizzare con tutte le sue politiche.

La questione israelo-palestinese è infatti l’espressione di una contraddizione europea irrisolvibile. L’Europa deve riconoscere attivamente l’autonomia di tutti i popoli di questa terra, e questo imperativo la pone in contraddizione con la creazione di uno Stato ebraico sulla terra storica del popolo ebraico che — data la quasi totale assenza di questo popolo da questa terra per duemila anni — era abitata da altre popolazioni nel momento in cui gli ebrei vi fecero ritorno. E deve riconoscere che questo Stato, su questa terra, è assolutamente adeguato alla situazione, perché sancisce il diritto all’autodeterminazione di questo popolo ed è l’unica entità politica in grado di garantire la sicurezza di tutti gli ebrei del mondo.

Questa contraddizione non è dialettizzabile. Il tentativo di farlo attraverso il discorso anticolonialista basato sul diritto internazionale elimina la necessità dello Stato ebraico; il tentativo di farlo attraverso il discorso sulla grandezza della civiltà occidentale, che in questi casi viene definita «giudaico-cristiana», elimina i diritti dei palestinesi. Riconoscere questa contraddizione significa entrare in una vita politica consapevole della falla che sta alla base della politica moderna post-1945, ma è anche l’unico modo per dare un vero significato all’idea di “ricerca della giustizia”, sapendo che non l’abbiamo ancora trovata.


Julia Christ