In Pogrom. Kishinev and the Tilt of History pubblicato da Liveright nel 2018 e da poco uscito in francese per i tipi di Éditions Flammarion, Steven J. Zipperstein ripercorre la storia del massacro di Chișinău, una questione locale trasformatasi in un trauma globale che ha segnato la coscienza ebraica moderna. Non semplice storia di un episodio violento, il testo di Zipperstein racconta come un pogrom – ampiamente pubblicizzato, interpretato e anche mitizzato – abbia condizionato la storia ebraica contemporanea. Il massacro di Chișinău ha spinto l’ascesa del sionismo, innescato una mobilitazione globale, e dopo aver ispirato letteratura e stampa si è trasformato in paradigma della vulnerabilità ebraica. Lo storico americano usa microstoria e analisi culturale, smontando ogni interpretazione semplicistica e mettendo in discussione la distorsione della memoria spiega come un singolo dramma ha cristallizzato le principali tensioni politiche, sociali e simboliche del XX secolo ebraico.

K. :Perché dedicarsi a questo tema più di 100 anni dopo il pogrom?
Steven Zipperstein: Non avevo l’intenzione di scrivere questo libro, in verità. Avevo firmato un contratto con un editore specializzato per produrre una storia completa della vita ebraica dell’Europa orientale e della Russia, dal XVIII secolo a oggi. E ho suddiviso il lavoro costringendomi a leggere tutto quello che trovavo su ogni specifico argomento per tre o quattro settimane. Uno di questi era il pogrom di Chișinău.
A indirizzarmi verso la storia più imteressante sono state, curiosamente, le trascrizioni del secondo congresso del Partito operaio socialdemocratico russo. Mi sono reso conto che Lenin l’aveva strutturato in modo tale che diventò l’incontro che segnò l’ascesa dei bolscevichi. Vinse una votazione sull’organizzazione e la centralizzazione del partito. Nell’agosto e settembre 1903 capì che il Bund, che si sentiva vincolato a difendere gli ebrei, non poteva accettare la centralizzazione, soprattutto dopo il pogrom di Chișinău.
Il Bund non poteva dichiarare apertamente che difendeva tutti gli ebrei, perché si trattava di un’organizzazione di classe ufficialmente impegnata solo a proteggere i lavoratori ebrei. In realtà, la sua preoccupazione e le sue azioni si estendevano ben oltre, a tutta la comunità ebraica ma Lenin, che era perspicace, sapeva che il Bund stava combattendo con le mani legate dietro la schiena. Sono giunto alla conclusione che in sala la presenza non dichiarata (in una delle riunioni marxiste più significative prima del 1917) era proprio il pogrom di Chișinău. È lì che è iniziato tutto. Quando ho approfondito le ricerche mi sono reso conto che il materiale era straordinario.
Ho sempre avuto interesse per l’intersezione tra mito e storia e ho esplorato questa relazione in vari modi. Tuttavia non avevo mai avuto l’opportunità di approfondire l’argomento quanto mi ha permesso di farlo questo caso specifico. Chiunque abbia studiato questo specifico pogrom sa che si tratta probabilmente dell’evento meglio documentato della storia recente dell’ebraismo russo, sia in russo che in altre lingue. Ci sono state commissioni ufficiali; indagini su ogni casa che è stata attaccata, con registrazioni dettagliate dei danni fino agli elenchi dei singoli mobili. Ne è emersa una interazione notevole tra l’abbondanza di informazioni fattuali e la simultanea costruzione di un mito.
La memoria resta quando è consolidata dalle istituzioni. Senza, gli eventi tendono a farsi evanescenti, nella coscienza collettiva. Nel caso del pogrom di Chișinău, ogni grande istituzione ad esso collegata – ebraica, non ebraica e persino antisemita – aveva un suo interesse nel preservarne la memoria. All’interno dei circoli ebraici nel 1903 il movimento sionista era al suo apice. Herzl è morto nel 1904. Dopo la rivoluzione del 1905-1906, il Bund aveva raggiunto i 30.000 iscritti, anche se presto sarebbe diventato un movimento molto più piccolo.
In quel momento, il sionismo era fondamentalmente un movimento laico, anche se la maggior parte dei suoi aderenti erano ebrei religiosi. Cercavano un modo per creare una cultura che fosse ricca e significativa quanto l’ebraismo religioso.

K.: Il poema di Bialik ha avuto un ruolo importante in questo contesto…
Assolutamente. Un ruolo fondamentale. Per i sionisti il poema di Bialik era la prova che le loro idee potevano portare a qualcosa di altrettanto potente e significativo quanto le scritture bibliche. Beir Ha-Harigah (Nella città del massacro) è stato letto come un testo finalmente in grado di rivaleggiare con il Kohelet (l’Ecclesiaste). Ma non fu “adottato” solo dai sionisti: anche dai territorialisti, dai socialisti ebrei e perfino dagli antisemiti. Ognuno lo vedeva come una prova a sostegno della propria narrazione. Contribuì a fare del pogrom il simbolo di una realtà profonda. A differenza di altri, dimenticati o messi in secondo piano, il pogrom di Chișinău è diventato un simbolo. Per gli ebrei, ad esempio, servì a convalidare l’affermazione secondo cui il governo russo era direttamente responsabile delle violenza contro di loro. Dopo la diffusione della “Lettera Plehve” (dal nome del Ministro degli interni, Vyacheslav von Plehve), che avrebbe dovuto dimostrare come il governo russo fosse responsabile degli omicidi e degli stupri di ebrei nelle strade, molti credevano di avere la prova definitiva che lo Stato russo avesse la piena responsabilità del massacro. Questa interpretazione contribuì a innescare un’ondata di immigrazione ebraica negli Stati Uniti. Eppure la lettera di Plehve era in realtà un falso…
K.: Lei afferma che anche gli antisemiti avevano interesse a preservare la memoria del pogrom di Chișinău? Perché questo evento era così importante per loro?
Innanzitutto per la sua immediata visibilità internazionale. I giornali di tutto il mondo, in particolare quelli del gruppo Hearst, negli Stati Uniti, dedicarono a molto spazio al pogrom di Chișinău. Per gli antisemiti questo confermava confermare che gli ebrei avevano il controllo dei media. All’epoca, William Randolph Hearst stava per diventare il candidato democratico alla carica di governatore di New York, e aspirava alla presidenza. Era, per molti versi, un precursore di Trump. Utilizzò il pogrom come mezzo per guadagnarsi il sostegno della comunità ebraica di New York. Per gli antisemiti, sembrava essere la conferma che gli ebrei controllavano la scena mondiale.
K.: Perché il pogrom di Chișinău ha avuto subito una tale risonanza? Perché una importanza simbolica tale da persistere ancora oggi nella memoria? Perché proprio questo pogrom, che ha avuto un numero di vittime relativamente basso, e non un altro?
Ci sono diverse ragioni. Una è ciò che in ebraico si chiama roshem, impronta ed è collegata proprio al numero relativamente basso di morti. La fotografia esisteva già, ma era stata usata raramente nei notiziari, a causa dei costi elevati. Questo fu il primo evento ebraico la cui cronaca è stata accompagnata da fotografie. E in una sola immagine potevano entrare tutti e 49 gli ebrei uccisi. È un caso analogo a quello di Anna Frank: le storie individuali aiutano a comprendere tragedie immani. Non si possono fotografare 600 ebrei che sono stati massacrati, come a Odessa nel 1905, ma se ne possono riprendere 49. Certo, è solo una delle ragioni…
L’idea di un’inevitabilità storica che spinge i non ebrei a rivoltarsi contro gli ebrei – indipendentemente dal luogo o dalla situazione – è una visione mitica.
La cronologia ha un ruolo. È stato il primo pogrom del XX secolo, un secolo che molti speravano avrebbe portato la pace. C’è anche la geografia: Chișinău era situata vicino alla frontiera rumena, considerata facilmente corruttibile, e divenne la sede dell’Ufficio di corrispondenza del movimento sionista. Molti telegrammi inviati a Londra partivano da Odessa e passavano per Chișinău. Come spiego nel libro, se gli stessi eventi si fossero svolti 150 km più a est – a Odessa – probabilmente avrebbero avuto altrettanta risonanza.

Ciò che mi affascina nell’interazione tra mito e storia è che la Storia è piena di incidenti, interruzioni e casualità. Nel libro ricordo che nel secondo e più violento giorno del pogrom piovve fino alle 5 del mattino. I pogrom e le rivoluzioni di solito non vanno d’accordo col cattivo tempo. Se avesse continuato a piovere forse la violenza non sarebbe aumentata in quella maniera. Il mito è fluido e coerente; la storia è aspra e irregolare. Quando ho pubblicato il libro Trump era in campagna elettorale. Durante le presentazioni ho afferato che la storia suona come Jeb Bush: balbetta ed esita; il mito suona come Trump: assertivo, semplice, coerente. Tutto funziona. Tutti sono contro di te. È facile da capire. Il mito non ha contraddizioni. Questa analogia, tratta dalla tradizione interpretativa ebraica – halakhah contro midrash – mi ha aiutato a inquadrare il pogrom di Chișinău come un evento storico e simbolico. Volevo usarlo per fare affermazioni più ampie sulla fragilità della comprensione storica, e sul modo in cui il mito spesso tende a eclissarla.
K.: Il libro dimostra che il pogrom di Chișinău, al di là dell’orrore immediato che suscitò, ha segnato l’inizio di un certo immaginario. La cristallizzazione di un destino ebraico che in Europa sarebbe inevitabile, tragico e ineluttabile. Al punto che alcuni lo considerano una prefigurazione della Shoah. In che modo il pogrom di Chișinău ha definito la coscienza ebraica, e in particolare la traiettoria sionista e americana? Come ha potuto fissare l’immagine di un’Europa condannata, maledetta, e influenzare la rappresentazione del futuro ebraico fino a oggi?
Credo che questa interpretazione si basi sull’idea che, indipendentemente dal luogo in cui gli ebrei vivono o dalle loro vite, i non ebrei si rivolteranno inevitabilmente contro di loro. Non è una conclusione a cui sono giunto studiando questo pogrom. È stato senza dubbio un evento orribile e brutale. Ma come spesso capita la realtà è più complessa di così. Quello che ho osservato, e che assomiglia all’argomentazione portata avanti da Jan Gross nel suo eccellente libro Neighbors: The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland (Vicini: la distruzione della comunità ebraica a Jedwabne, Polonia), è che eventi come questo rivelano una connessione tra familiarità e ferocia. In altre parole sembra esserci un legame inquietante tra la conoscenza personale di una persona e il modo brutale in cui la si può attaccare o uccidere. Eppure allo stesso tempo sappiamo – anche se i numeri precisi non sono chiari – che molti ebrei si rifugiarono nelle case di non ebrei che li nascosero correndo un rischio personale considerevole.
Cosa ci insegna questo sul concetto di “antisemitismo eterno”? Uvarov, il governatore della regione, non era un rabbioso antisemita; era molto più interessato ai problemi creati dalle prostitute che all’odio per gli ebrei. Il suo successore, il generale Várov, era filosemita. Il principale giornalista che coprì il pogrom in una lingua occidentale, Michael Davitt, aveva qualche simpatia per le idee antisemite ma era molto sensibile rispetto alla condizione degli ebrei.
La storia è molto più complicata di quanto molti vorrebbero credere.
K: Quindi c’è l’idea che l’Europa stessa fosse maledetta – condannata – e che questa fosse una maledizione che eravamo destinati a sopportare.
Bisogna considerare l’impatto della lettera di Plehve, di cui abbiamo già parlato, che sembrava mostrare come il governo russo stesse attivamente cospirando per uccidere gli ebrei. È vero che lo Stato russo non nutriva alcuna benevolenza nei confronti della sua popolazione ebraica. Ma la preoccupazione, più che per gli ebrei, era rivolta all’anarchia di massa e ai disordini fra i civili. La maggior parte dei disordini si verificò nelle aree rurali e in definitiva il governo russo aveva ragione a temere tali rivolte: nel febbraio 1917, una rivolta di massa portò al suo crollo. L’idea che il conservatorismo politico, e il governo russo in particolare, fosse intrinsecamente antisemita si è intrecciata al mito del pogrom di Chișinău. Lo faccio notare perché, come storico di orientamento liberale, molto di ciò che studio mette in discussione le mie convinzioni, ma l’onestà intellettuale richiede di seguire le prove ovunque esse portino. Questo mito, rafforzato dalla lettera di Plehve, ha consolidato la convinzione che lo Stato russo – il più grande impero d’Europa, casa della maggior parte degli ebrei del mondo – fosse in guerra con la sua popolazione ebraica. Prima di Chișinău non c’erano prove certe, e dopo… la gente ha creduto ci fossero. Una convinzione che si radicò profondamente nella coscienza ebraica americana. Resistette durante l’era di Franklin Delano Roosevelt e fino a John F. Kennedy e continua, per molti versi, fino ai giorni nostri. Indipendentemente da quanto Donald Trump abbia cercato di corteggiare gli elettori ebrei, il 70 per cennto degli ebrei americani ha votato per Kamala Harris.
K.: Per molti versi, il pogrom di Chișinău ha rafforzato l’associazione tra liberalismo, anticonservatorismo e identità ebraica.
Sì. C’è anche la percezione che, soprattutto, la sinistra ebraica sia stata galvanizzata e rimodellata da questo evento.
D: Eppure, la sinistra ebraica è stata coinvolta attivamente negli eventi di Kishinev?
Non proprio. Il Bund era più forte nelle regioni industriali in cui c’erano le fabbriche. A Chișinău, con le sue piccole officine, mancava una presenza ebraica di sinistra significativa. Anche gli atti di resistenza durante il pogrom non furono guidati da organizzazioni di sinistra. Questo sarebbe avvenuto più tardi, in particolare a Gomel nel settembre 1903. Ma nonostante la mancanza di un coinvolgimento diretto, il pogrom divenne una metafora potente per la sinistra ebraica. Servì da lezione: se non resistete, sarete distrutti. Questo è il messaggio che si trae da Kishinev.
K.: Una delle conseguenze più significative del pogrom di Chișinău fu l’emergere del movimento di autodifesa ebraica.
Sì, e questo ha portato, poi, alla formazione della Haganah. Ma attenzione, bisogna essere precisi: uno degli aspetti curiosi di Chișinău – sottolineato proprio dal famoso poema di Bialik – è la percezione che gli ebrei non abbiano reagito. Sappiamo che questo non è esatto. Bialik stesso ha documentato diversi episodi di resistenza. Il pogrom fu una sorpresa totale: non c’era né il Bund né un’altra organizzazione ebraica socialista a Chișinău, nulla che potesse organizzare una difesa formale.
Eppure, sappiamo che ci furono significative azioni di autodifesa. In verità uno degli argomenti principali addotti dagli antisemiti che furono poi portati in tribunale – il procedimento proseguì fino a dicembre a Odessa – fu che gli ebrei erano troppo aggressivi. Una caratteristica distintiva dei pogrom è che gli ebrei vengono sempre incolpati. Nel 1881, la narrazione si concentrava sugli ebrei come sfruttatori, soprattutto dal punto di vista economico. In altri casi sono stati accusati di essere dei rivoluzionari. Il punto è che gli ebrei sono sempre stati considerati responsabili. Dal punto di vista dei “pogromisti” e dei loro difensori, gli ebrei venivano dipinti come eccessivamente aggressivi. Al contrario, il documento culturale più influente emerso dal pogrom – il testo di Bialik – dipingeva gli ebrei come codardi.
La contrapposizione tra l’ebreo effeminato e passivo della diaspora (Galut) e l’ebreo forte e virile di Sion risale a Chișinău.
Le due figure più significative che documentarono il pogrom furono Bialik e Michael Davitt. Davitt, rivoluzionario irlandese e giornalista affermato, era noto per essere meticoloso e perché prendere nota di tutto. Sono riuscito a rintracciare i suoi appunti al Trinity College, a Dublino, dove si trovano i suoi documenti. Con mia grande sorpresa, le note private di Davitt facevano eco alla descrizione di Bialik: anche lui descriveva gli ebrei come codardi. Tuttavia, non pubblicò mai queste osservazioni, né sui giornali né nel libro basato sul suo reportage, che divenne un’opera importante. Io credo che quando si tratta di comunità particolarmente vulnerabili alcune verità vengono tenute nascoste. Non si rendono pubbliche realtà scomode su tali gruppi, soprattutto subito dopo un evento traumatico come il pogrom di Chișinău. Bialik si sentì libero di includere queste osservazioni in un testo poetico, ma non nel reportage o nella saggistica. Questa discrepanza, questa imprecisione, è stata fondamentale nel dare forma all’impegno ebraico per l’autodifesa post-pogrom. È giustamente considerato il punto di origine di quello che sarebbe diventato l’esercito israeliano. In questa nuova ideologia era insito un contrasto: l’ebreo effeminato e passivo della Diaspora (Galut) contro l’ebreo forte e virile di Sion. Un quadro che risale a Chisinau.
E direi che le due rivelazioni più sorprendenti del mio libro sono le connessioni che ho trovato tra il pogrom di Kishinev e i Protocolli degli Anziani di Sion e il movimento contro il linciaggio negli Stati Uniti.
K.: Se questa immagine dell’ebreo passivo è una costruzione successiva, qual era la situazione nella realtà? Come reagivano gli ebrei alla violenza, prima di Chișinău, nei secoli precedenti?
Gli ebrei nel Medioevo cercavano di difendersi ogni volta che venivano attaccati, per quanto possibile. L’idea che gli ebrei si siano intrinsecamente astenuti dal resistere allo stato è una costruzione moderna. Nasce dalla convinzione che gli ebrei si sarebbero emancipati. Incolpare gli ebrei della modernità di non aver combattuto contro lo stato significa essenzialmente rimproverarli di aver riposto la loro fede nei valori moderni. Si tratta di un’idea profondamente sbagliata.
Credevano che lo stato, col tempo, avrebbe concesso loro pieni diritti. Molti ebrei russi nutrivano la stessa speranza. Questo patto è stato rotto con la lettera di Plehve ma è rimasto importante, soprattutto in luoghi come la Francia e la Germania dove alla fine l’emancipazione è arrivata. Anche in Russia c’era speranza e nel 1917 arrivò, anche se tragicamente in ritardo. Colpevolizzare gli ebrei per aver creduto nello Stato significa colpevolizzarli per essere stati razionali. Tacciarli di pacifismo come se fosse qualcosa di intrinsecamente ebraico è sbagliato. Quando gli ebrei sono stati attaccati nel Medioevo – prima delle idee moderne di nazione e di pari cittadinanza – hanno reagito. Non c’è nulla di intrinseco o essenziale nell’identità ebraica che suggerisca gli ebrei al di fuori della terra d’Israele non fossero fisicamente coraggiosi. Questo stereotipo è un costrutto.
Colpevolizzare gli ebrei per aver creduto nello Stato significa colpevolizzarli per essere stati razionali. Tacciarli di pacifismo come se fosse qualcosa di intrinsecamente ebraico è sbagliato.
K.: Perché il pogrom di Chișinău ebbe un impatto così forte sugli ebrei americani? Non si è trattato solo di un’emozione o di una mobilitazione isolata, ma ha contribuito anche a plasmare una sensibilità politica duratura, in particolare un marcato orientamento verso la sinistra. Come spieghi questa inflessione?
Chișinău ebbe un impatto significativo sugli ebrei americani proprio perché non era solo una questione di sinistra… È stata la prima cosa che ha unito la sinistra ebraica e la comunità tutta per una causa che non era ideologicamente polarizzante. Gli ebrei picchiati per strada erano una questione universale. Ha permesso di superare le divisioni ideologiche e organizzative. È stata la prima questione su cui le organizzazioni ebraiche hanno collaborato e trovato l’unità. Fu una manna per la vita politica ebraica americana, per di più avvenuta in un momento in cui i radicali ebrei erano in grado di esserne a capo. Era un momento raro, un momento in cui potevano essere in prima linea in un movimento che univa l’intera comunità ebraica. Avevano l’infrastruttura. Le autorità rabbiniche tradizionali, che avevano un potere significativo in Europa orientale, erano relativamente deboli in America. La loro influenza era limitata. La sinistra era concentrata in luoghi come New York e, in misura minore, Chicago e aveva la capacità di farsi guida. Ecco perché questo momento è stato così importante.

K.: Una causa che ha unito la sinistra ebraica e la comunità nel suo complesso, un evento senza precedenti, ma vanno menzionati anche i legami tra il movimento anti-pogrom e la sinistra americana non ebraica. Una delle rivelazioni sorprendenti del libro è il legame tra il pogrom di Chișinău e il movimento anti-linciaggio negli Stati Uniti…
Esattamente. Il Partito socialista americano evitò di affrontare il linciaggio perché temeva di alienarsi i lavoratori bianchi. Anche il Partito Democratico ha rifiutato di affrontarlo, temendo che gli sarebbe costato il sostegno politico nel Sud. Così tutti si sono concentrati sul pogrom di Chișinău e alcuni dei socialisti più intraprendenti e indipendenti vi hanno visto un’opportunità. Hanno capito che i pogrom venivano condannati universalmente, negli Stati Uniti. Creando un collegamento tra gli orrori dei pogrom e i linciaggi – cosa che gli americani avevano ampiamente ignorato – crearono un “ponte” morale e politico. Questo paragone pose le basi per la creazione della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People, l’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore) che, al suo inizio, era di fatto un’organizzazione ebraica di sostegno ai neri americani.
K.: Bisogna parlare di una donna, Anna Strunsky, che è stata decisiva e la cui influenza è stata dimenticata.
Sì, è un classico esempio di come il contributo delle donne sia spesso cancellato dalla storia. Anna Strunsky era una vivace socialista e la compagna di Jack London. Alla fine si innamorò e sposò l’uomo che divenne il primo presidente del NAACP, William English Walling. Il NAACP, sebbene oggi sia considerato un’istituzione centrale, iniziò in tutt’altra maniera. Ufficialmente, era un’organizzazione di supporto per i neri americani, non un’organizzazione guidata dai neri. Se si leggono le prime storie della NAACP si noterà che questo fatto viene trattato con un certo disagio. Il coinvolgimento ebraico, così centrale all’inizio, viene spesso omesso. Il marito di Strunsky, Walling, scrisse il primo libro sul radicalismo russo in inglese, prima ancora di John Reed. Allo stesso tempo, la Strunsky si occupò del pogrom di Gomel. Sebbene non scrivesse con la stessa fluidità di Walling e abbia avuto tre aborti spontanei che le impedirono di partecipare a molti incontri, fu lei che inizialmente articolò il legame tra pogrom e linciaggio. Mentre promuoveva il libro del marito, Russia’s Message (Il messaggio della Russia) sul palco della Cooper Union di New York, fece questo collegamento, pubblicamente. Quella sera un gruppo di partecipanti iniziò a pianificare seriamente quella che sarebbe diventata la NAACP. Anche se Strunsky non partecipò direttamente alle riunioni di fondazione, la sua idea fu la scintilla. Eppure, fu presto dimenticata. La sua assenza dai documenti è emblematica di un modello più ampio nella storia, in particolare per quanto riguarda il ruolo delle donne nell’attivismo. I giornali neri indipendenti dell’epoca accolsero la sua idea perché da tempo lottavano per attirare l’attenzione sui linciaggi. I pogrom, invece, erano ben coperti e ampiamente condannati. Inquadrando i linciaggi attraverso l’obiettivo dei pogrom finalmente riuscirono a trovare un’eco. Il collegamento tra la violenza antisemita all’estero e la violenza razziale in America divenne un ponte per la mobilitazione politica – e Strunsky era al centro di questo collegamento.
K.: Può approfondire la questione del legame tra causa nera e causa ebraica, in particolare in relazione al capitolo che riguarda Strunsky, Walling e il movimento anti linciaggio?
Questa relazione è sempre stata e rimane molto complessa. Ai tempi di Chișinău, la maggior parte dei bianchi con cui gli afroamericani interagivano erano ebrei che vivevano negli stessi quartieri, possedevano negozi o erano proprietari immobiliari. Ci si aspettava quindi che gli ebrei incarnassero la benevolenza della tradizione biblica. Quando si celebravano matrimoni misti tra americani neri e bianchi, nella maggior parte dei casi c’erano ebrei coinvoltio. Questa dinamica continuò fino agli anni Sessanta, quando molti attivisti radicali neri si sposarono con partner ebree. Quando certe aspettative venivano deluse, subentrava naturalmente la frustrazione. Ma nel libro non approfondisco questo argomento. Tuttavia è un argomento su cui ho riflettuto molto. Di recente sono stato intervistato per una serie di prossima uscita della PBS sui rapporti tra le comunità nera ed ebraica. Si tratta di un argomento che trovo estremamente affascinante, proprio perché la vicinanza tra queste due comunità ha spesso generato sia grandi affinità che forti antagonismi. Questa storia continua ancora oggi. Gran parte del sentimento antisionista presente oggi nella vita intellettuale americana trae origine dalle critiche degli afroamericani verso gli ebrei. Spesso gli attivisti accademici più ferocemente antisionisti, quando non sono di origine mediorientale, sono afroamericani. La divisione tra neri ed ebrei è una delle eredità più complesse e dolorose degli anni Sessanta Molte delle principali organizzazioni pacifiste e di sinistra americane si sono divise a causa di queste tensioni. Gli attivisti ebrei e afroamericani, che un tempo avevano lavorato insieme, non riuscivano più a conciliare le divergenze, in particolare su Israele e sul sionismo. Questa divisione, radicata in complesse questioni ideologiche, razziali e geopolitiche, resta una delle maggiori sfide nella comprensione della costruzione di coalizioni nella politica progressista americana.

K.: Cosa pensa dell’uso del termine “pogrom” in relazione agli attacchi del 7 ottobre? Questa questione è particolarmente controversa tra gli storici.
Recentemente è stato pubblicato un articolo di Boaz Akhimeir, figlio dell’uomo un tempo accusato dell’assassinio di Lozovsky. Akhimeir, una figura di spicco dell’estrema destra, ha scritto un lungo articolo elogiando il mio libro, affermando: “Non esiste ancora un buon libro sul 7 ottobre, ma se volete capirlo, leggete questo”. Questa affermazione da sola sottolinea quanto sia diventata esplosiva la questione. Non la ignorerò, anzi, penso meriti un esame attento e onesto.
Dobbiamo riconoscere che il 7 ottobre non è stato perpetrato contro un popolo indifeso, ma contro uno Stato sovrano e potente. Il potere comporta anche delle responsabilità.
Da un lato è del tutto comprensibile, soprattutto psicologicamente, che le persone abbiano percepito l’attacco come un tradimento del patto fondante del sionismo, soprattutto in Israele; orrori come questi appartenevano alla diaspora, alla Galut, e non alla vita nello Stato ebraico. Una rottura profondamente traumatica. È comprensibile, sul piano emotivo, il motivo per cui si sia fatto ricorso al termine “pogrom”. Ma al di là di questa iniziale reazione emotiva, è una similitudine storicamente errata. Gli ebrei nell’Impero russo non avevano un esercito. Al massimo avevano poche figure clandestine che cercavano di procurarsi armi illegalmente e con grandi rischi. Israele, al contrario, è la forza militare più potente del Medio Oriente e possiede un arsenale nucleare.
Mettere sullo stesso piano i due contesti non solo è errato, ma mina tutto ciò che Israele ha ottenuto. Peggio ancora, assolve Israele da ogni responsabilità, non solo per come non è riuscito a prevenire l’attacco, ma anche per come sceglie di reagire. Il rischio è che nel tentativo di liberarsi dall’immagine dell’ebreo passivo – l’ebreo che va al macello come una pecora – la risposta diventi quella dell’annientamento totale: radere al suolo Gaza, distruggerla completamente. L’attacco viene mitizzato. Israele ora viene visto non come qualcuno che combatte contro Hamas, ma contro Haman, Hitler, Chmel’nyc’kyj, Putin: tutti i nemici storici riuniti in uno. Questo cancella le cause reali, i contesti e le dinamiche del conflitto attuale. Non è solo storicamente inaccurato, è anche pericolosamente fuorviante.
K.: Quindi il termine ha una connotazione politica problematica?
È più di una semplice questione di connotazione. Il termine attinge ad alcune delle tossine peggiori della coscienza storica ebraica: l’idea che, indipendentemente da dove siamo o da cosa facciamo, gli altri vorranno sempre distruggerci. Ma allora come si spiega la pace con la Giordania? Con l’Egitto? Con l’Arabia Saudita? Come si spiega il fatto che alcuni dei leader mondiali più apertamente antisemiti siano ora tra i più fedeli alleati di Israele? E negli Stati Uniti gruppi che storicamente nutrivano dell’antisemitismo ora sostengono con entusiasmo Israele. Questa inversione di tendenza dovrebbe farci riflettere. La narrazione secondo cui “vogliono tutti ucciderci” appiattisce la complessità del mondo trasformandolo in un mito semplicistico. Può sembrare emotivamente appagante ma è oggettivamente falso. Eppure, paradossalmente, questa potenza emotiva è parte del motivo per cui il libro è stato ripubblicato e tradotto sia in Francia che in Israele. Dobbiamo rimanere realisti. Mio padre era un uomo d’affari e una delle cose che ho imparato da lui è che ci sono molte vie per la saggezza, alcune delle quali sono pragmatiche. Essere realisti non significa essere cinici; significa capire che anche nel successo ci sono contraddizioni e responsabilità. Il che ci riporta al 7 ottobre. Definirlo un pogrom non è solo storicamente inesatto, è pericoloso. Rappresenta in modo distorto uno Stato con una notevole potenza militare, lo assimila a una comunità impotente. E così facendo, non distorce solo l’evento in sé, ma anche la sua legittimità e la portata della risposta politica e militare. Non sto dicendo che Israele è responsabile di quanto accaduto: Hamas ha questa responsabilità e non giustifico né minimizzo la brutalità delle sue azioni. Massacrare civili a un festival musicale è un’atrocità. La negazione degli stupri da parte di alcune eminenti femministe è abominevole. Respingo completamente queste posizioni. Ma dobbiamo anche riconoscere che l’attacco non è avvenuto contro un popolo indifeso, ma contro uno stato sovrano e potente. Il potere comporta responsabilità. Ogni stato è vulnerabile. Ma l’idea che Israele sia in qualche modo esente da una responsabilità morale perché è stato attaccato è pericolosa sia storicamente che eticamente. Trasforma la risposta politico-militare in una menzogna.
Intervista di Stéphane Bou e Elena Guritanu.
Steven J. Zipperstein è professore di cultura e storia ebraica presso la Stanford University. È autore di The Jews of Odessa: A Cultural History (1986); Elusive Prophet: Ahad Ha’am and the Origins of Zionism (1993); Imagining Russian Jewry (1999) e Rosenfeld’s Lives: Fame, Oblivion, and the Furies of Writing (2008).