Israele, 17 agosto: il senso di uno sciopero generale

Su impulso delle famiglie degli ostaggi e di gran parte della società civile, il 17 agosto sarà sciopero generale, per denunciare la strategia militare a Gaza, considerata un vicolo cieco e un aggravamento delle conseguenze della guerra per i civili palestinesi, per gli ostaggi e per i militari israeliani. Prima mobilitazione di ampia portata dopo la crisi relativa alla riforma giudiziaria nel 2023, fotografa la frattura politica in Israele. Bruno Karsenti vi legge il richiamo a questioni fondamentali: il principio fondante dello Stato ebraico e il futuro del progetto sionista.

 

PHOTO Raduno in Piazza degli Ostaggi, Tel Aviv, 9 agosto 2025. (Crediti: Aviv Atlas/Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi)

 

Dura ormai da 22 mesi la guerra scatenata dal sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre. Al momento in cui scriviamo, il governo israeliano ha deciso di compiere un nuovo passo, presentando come via d’uscita quella che è solo una escalation verso l’estremismo. Il numero sempre crescente di vittime civili costituisce per il popolo palestinese una tragedia storica che questa presunta “fase conclusiva” non potrà fare altro che suggellare. Da parte israeliana, le tensioni dovute alla guerra aumenteranno ulteriormente e c’è da temere che presto raggiungeranno un punto di rottura. Infatti l’unità nazionale che ha prevalso nelle prime fasi del conflitto e si è ricreata  quando lo schieramento di forze era giustificato su altri fronti – neutralizzazione di Hezbollah nel Libano meridionale, stop al programma nucleare iraniano – si è poi progressivamente incrinata proprio sulla campagna militare a Gaza. Oggi che il governo e gran parte della società civile si fronteggiano come durante la lotta contro la riforma giudiziaria del marzo 2023, quando il governo rischiava di trascinare il Paese su una china antidemocratica, è stato lanciato un appello allo sciopero generale contro l’annunciata strategia militare. All’epoca il potere aveva dovuto fare marcia indietro di fronte alle massicce proteste, che non erano state sostenute solo dai movimenti cittadini, ma anche dai principali organismi che strutturano la vita del Paese. Cosa succederà questa volta? Non lo sa nessuno. Durante tutta la guerra le manifestazioni settimanali sono continuate, senza mai cedere, incarnando una critica e una riflessione collettiva permanente sul corso degli eventi. È possibile si raggiunga una nuova soglia in cui il rifiuto della politica governativa acquisti portata ed estensione tali da sbarrare la strada: questa è l’eventualità e a dire il vero la speranza che si apre in questo momento . È possibile che si arrivi a una soglia in cui il rifiuto della politica governativa acquista intensità e ampiezza fino a sbarrare la strada e, a dire il vero, è una speranza, in questo momento.

Durante tutta questa lunga guerra, la più lunga che il Paese abbia mai conosciuto, una cosa è rimasta immutata: per la società israeliana il destino degli ostaggi, ossia il loro salvataggio non come dato secondario o desiderio di fondo ma come obiettivo primario della guerra stessa, sono rimasti un criterio decisivo di posizionamento. Solo l’estrema destra, all’interno della coalizione al potere, ha ammesso senza batter ciglio che no, che la distruzione del nemico palestinese doveva prevalere su tutto il resto. Netanyahu, per quanto poco si curi della popolazione civile di Gaza, non mostra nei suoi discorsi una simile durezza nei confronti degli ostaggi. Assicura di non dimenticare mai i due «obiettivi della guerra», in modo paritario e senza esclusioni. Ma i discorsi ufficiali suonano come una litania e le azioni smentiscono le parole tanto che queste ultime da tempo non riescono più neppure a illudere l’opinione pubblica.

Lo abbiamo detto più volte su K., e in questo momento in cui il conflitto è più aspro è necessario ribadirlo: vista la particolare forma di Stato che è Israele, considerato in sé e in relazione alla sua funzione per l’intera esistenza ebraica, la questione degli ostaggi ha un significato fondamentale.

Va ricordato che gli Stati moderni hanno caratteristiche formali che li rendono tutti simili. Nella misura in cui sono Stati democratici di diritto (come è il caso di Israele), queste caratteristiche possono persino unirli in un destino comune (l’Europa, in linea di principio, si basa su questa convinzione). Tuttavia, ciò non li rende mai gusci vuoti, puri dispositivi formali. Ciascuno ha una propria volontà, in cui risiede la sua forza motrice sia morale che politica. Per ogni Stato questa forza motrice è singolare: deriva dalla società che lo ha costruito a partire dalla sua storia e dal suo senso di giustizia. Quale Stato è stato voluto dalla società di cui è lo Stato non è quindi mai una domanda oziosa. A dire il vero è la questione decisiva. Da qui deriva, lo notiamo di sfuggita, il carattere simbolico e privo di consistenza di un “riconoscimento” dichiarato dall’esterno. Quanto alla molla che alimenta questa volontà propria, essa si basa su un certa forma di solidarietà tra i componenti di questa stessa società storica. Essa la anima, profondamente, ed è in grado di dare un senso costante alle azioni degli individui orientandole verso un obiettivo comune.

Che il governo di Israele non sia stato all’altezza del principio fondante dello Stato – garantire la sopravvivenza degli ebrei – è ciò che la questione degli ostaggi ha reso ogni giorno più evidente.

La singolarità del modello di solidarietà che costituisce lo Stato ebraico rimanda, socialmente e storicamente, al salvataggio degli ebrei. Attraverso le leggi adottate e le decisioni prese da questo Stato sia nella sua vita “interna” che nelle sue relazioni esterne, non viene mai perso di vista il fatto che gli ebrei costituiscono un popolo strutturalmente minoritario, affetto da una fragilità ineliminabile all’interno delle nazioni non ebraiche in cui è disseminato. L’adozione e l’uso della forma egualitaria e democratica dello Stato moderno – la più adatta a ridurre il più possibile il rischio di persecuzione delle minoranze ebraiche – sono stati un modo per rispondere a questa considerazione. La giustificazione ultima di Israele come Stato degli ebrei si trova proprio qui. Questo Stato trae la sua forza politica e morale dall’idea di rifugio, destinato al popolo strutturalmente minoritario che è quello ebraico. Per lo stesso motivo ha anche una missione nei confronti della Diaspora, di cui non può prescindere in nessun momento, in nessuna delle sue scelte fondamentali. Perché assume una responsabilità nei confronti di ogni vita ebraica potenzialmente minacciata in qualsiasi parte del mondo. Ogni vita ebraica conta per questo Stato non solo perché la sua sicurezza in senso generico sia garantita, ma in quanto costituisce per tutti e per ciascuno un punto di condensazione in cui si incarna la sopravvivenza dell’intero popolo.

La sopravvivenza ebraica è il principio stesso dell’esistenza di Israele, ovverosia delle grandi linee guida che decide di seguire – comprese ovviamente le guerre – ma anche in modo inseparabile dal resto dell’impegno su cui questo Stato può contare da parte dei suoi cittadini, della mobilitazione di cui può avvalersi per agire su se stesso e nel mondo. Perché se è necessario che lo Stato – qualsiasi Stato – abbia un senso per esistere realmente, è sempre in ultima analisi dal punto di vista dei suoi membri che questo significato si manifesta.

Che il governo israeliano non sia stato all’altezza di questo principio è ciò che la questione degli ostaggi ha reso ogni giorno più evidente, come reso evidente dalla conduzione della guerra a Gaza. Qualunque sia il suo esito si può già dire che avrà svelato la crisi ideologica che il sionismo attraversa da troppo tempo. Una crisi i cui due sintomi simmetrici e opposti sono svolta a destra e ascesa del sionismo religioso da un lato, antisionismo e post-sionismo dall’altro. La necessità di tracciare una nuova linea che permetta a Israele di ritrovare il proprio principio al di là o piuttosto al di qua delle divisioni politiche stesse è ciò che motiva ora in maniera esplicita la mobilitazione di coloro che chiedono la fine della guerra. Attraverso di esse si gioca una battaglia ideologica decisiva che coinvolge tutto il futuro del Paese e in cui si riflette il mantenimento dell’unità interna al mondo ebraico, un mondo in cui Israele occupa non una posizione centrale ma un punto di equilibrio da cui è difficile immaginare come disfarsi.

Si dirà che irrigidendosi sulla questione degli ostaggi non si fa altro che rafforzare l’affermazione del particolarismo ebraico; che i difensori della causa degli ostaggi non sono, in quanto tali, così diversi dai sionisti religiosi e dai bellicisti a cui si oppongono se si considera che questi ultimi dopotutto possono vantarsi di essere solo più coerenti in ciò che impone, in termini di sacrificio necessario, l’atto di estendere e consolidare il rifugio degli ebrei.

È non capire nulla del significato che per il sionismo autentico, come per la politica moderna in generale, ha il mettere in primo piano le vite degli ebrei colte nella loro singolarità di esistenze minacciate – ciò che sono per definizione gli ostaggi. Significa rifiutare di vedere che qui è in gioco una prova che si è storicamente determinata nell’Europa del XX secolo: quella dei rischi a cui è esposta la condizione di minoranza in quanto tale, di cui gli ebrei non sono gli unici rappresentanti ma piuttosto i testimoni eminenti proprio nel contesto moderno degli Stati-nazione. È prendere atto del fatto che l’universalismo di facciata di cui questi Stati si fregiano in generale è insufficiente a rendere i popoli e gli individui che essi riuniscono soggetti a una politica realmente egualitaria, cioè esente da discriminazioni e potenziali persecuzioni. Ciò che non è mai del tutto, ma a cui deve tendere.

La difesa degli ostaggi e la conduzione di una guerra giusta sono le due facce di quella stessa medaglia che sta alla base dell’impegno dello Stato ebraico.

I miliziani di Hamas, dal canto loro, sono i nemici radicali degli ebrei: la scelta della violenza che hanno attuato perseguendo e uccidendo una a una le loro vittime e rapendone altre per tenerle incatenate, per torturarle e per esibire le loro sofferenze li rende al momento i rappresentanti più visibili dei persecutori. La loro azione non è mai stata altro che un’opera di morte. Per lo stesso motivo sono anche i becchini della causa palestinese, quel popolo che pretendono di difendere mentre lo trattano come una massa da sacrificare. Sono nemici del loro popolo, come lo sono di ogni popolo che intraprenda la strada della riconquista delle singole vite che lo compongono e che si impegni in tale percorso collettivo verso un universalismo effettivo e non solo verbale. Un universalismo vissuto in modo intenso e non estensivo, in cui è dall’interno delle singole appartenenze e attraverso il lavoro su se stesse che esse sono in grado di realizzare lo strappo dalla parzialità identitaria e dall’avversità che esse generano.

È proprio questo che è stato alla base del sionismo e della creazione dello Stato ebraico. È ciò che motiva la sua attuale lotta contro tutte le forze che negano a questo Stato il diritto di esistere. Non c’è dubbio che questa lotta sia all’ordine del giorno perché queste forze sono potenti oggi e hanno ramificazioni che si estendono ben oltre Hamas e le entità statali e non statali che ne condividono la volontà eliminatoria. Non c’è dubbio in particolare che una distorsione dell’universalismo, la sua traduzione in un umanitarismo astratto che usa l’indistinguibilità per coprire i propri rifiuti e le proprie inclinazioni, possa alimentare consciamente o meno il vento negativo che spira in Occidente. La moda che riunisce i nemici assoluti di Israele (per “assoluti” si intendono qui tutti coloro il cui desiderio più ardente è quello di vedere questo Stato cancellato al più presto dalla mappa) non è destinata a fermarsi. Ma questo non deve far dimenticare l’essenziale: se la lotta per il destino degli ostaggi ha il significato ebraico che abbiamo sottolineato e se è a una certa concezione dell’identità di popolo che questa esperienza riconduce, allora è escluso che la guerra condotta da Israele possa avere come avversario un altro popolo. Se la guerra ha le sue esigenze, se Israele in guerra si trova di fronte a Stati e gruppi che vogliono effettivamente la sua scomparsa e lo rivendicano con orgoglio, resta comunque il fatto che le vite dei civili devono avere un valore essenziale. Vale a dire in quanto vite qualificate che si incarnano in altri popoli con i quali lo Stato ebraico – più consapevole di qualsiasi altro Stato del significato della persistenza storica di un popolo – intende coesistere pacificamente.

Ciò vale ovviamente per le vite del popolo palestinese. È ciò che durante questa guerra il campo antisionista nel suo senso più ampio non ha mai capito: la difesa degli ostaggi e la conduzione di una guerra giusta si riferiscono esattamente allo stesso principio unitario, al tempo stesso politico e morale perché i due aspetti sono qui indissociabili. Cose che in verità si comprendono l’una attraverso l’altra, perché sono le due facce dello stesso motivo di impegno che sta alla base dello Stato ebraico.

Queste considerazioni sono completamente estranee al governo israeliano incaricato di condurre la guerra. Il piano per Gaza presentato da Netanyahu ne è la negazione pura e semplice. Di conseguenza l’opposizione e il ritorno alla ragione ricadono interamente sulla società israeliana. La sua voce si leva e si fa sentire ormai senza ambiguità. A noi nella Diaspora, cioè in quell’altro polo della vita ebraica che sta assumendo il proprio ruolo nell’era post-Shoah, spetta il compito di amplificarne la portata, dando così il nostro contributo, diverso ma non per questo meno indispensabile, alla ripresa del progetto sionista.


Bruno Karsenti