Iran. Nel cuore del conflitto

Mentre prosegue l’operazione israeliana volta a decapitare il regime di Teheran e a colpire il suo programma nucleare, provocando una reazione che investe tutto lo Stato ebraico, Bruno Karsenti e Danny Trom si interrogano sul significato politico di questa grande svolta del conflitto in Medio Oriente. Rispetto alla distorsione del sionismo rappresentata dall’attuale condotta della guerra a Gaza, la guerra contro l’Iran ha un significato completamente diverso, sia per gli israeliani che per l’intero mondo ebraico.

 

Lyonel Feininger, “Gelmeroda XIII”, 1936. WikiArt

 

L’attuale guerra con l’Iran ci ricorda come Israele continui a vivere sotto una minaccia esistenziale. Per gli israeliani la consapevolezza di questo pericolo non è mai venuta meno, e anzi è stata tenuta viva dagli attacchi di vari gruppi armati che trovano nell’Iran la loro forza ispiratrice: è infatti Teheran a incarnare la volontà, ancora largamente dominante nei Paesi della regione, di distruggere lo Stato ebraico. Per gli ebrei della diaspora questa minaccia si fa sentire ogni giorno, dal 7 ottobre in poi, attraverso manifestazioni di antisionismo che adottano oramai apertamente l’idea della distruzione di Israele, mascherandola da lotta contro il colonialismo. Lo slogan “Free Palestine”, quando è gridato con la furia di chi vuole porre fine allo Stato ebraico, risuona con la stessa violenza del discorso ufficiale iraniano — con la differenza che in Iran quelle parole si accompagnano a passi concreti per dotarsi delle armi necessarie a raggiungere tale obiettivo. Da decenni la Repubblica Islamica dell’Iran si è imposta come il centro mondiale dell’antisemitismo internazionale: un laboratorio che crea e diffonde una miscela tossica di antisionismo e negazionismo. Secondo questa narrazione, l’“entità sionista” sarebbe illegittima perché fondata sul “mito” della Shoah; da qui discende una conclusione ossessiva: distruggere Israele significherebbe finalmente realizzare ciò che non è altro che una finzione dell’“Occidente”.

È dunque l’intero mondo ebraico che si ricompatta in questo nuovo momento di prova. Si stringe nelle notti d’angoscia che si susseguono chi nei rifugi, chi restando incollato alle notizie. In ogni caso, tuttavia, resta salda la convinzione che la sopravvivenza del popolo ebraico abbia questo prezzo poiché è l’esistenza stessa di Israele a essere messa in gioco dalle reali capacità del suo nemico. In ogni caso, è evidente il legame con il 7 ottobre, che aveva riattivato violentemente il senso di minaccia esistenziale e la necessità di sopravvivere.

Bisogna però prenderne atto: questa evidenza non è condivisa da tutti. Non solo si scontra con i suoi oppositori dichiarati, i sostenitori di un antisionismo militante, ma è anche offuscata, nell’opinione pubblica generale, dalla conduzione della guerra a Gaza e dalla politica israeliana. Trasformando una reazione legittima e necessaria all’aggressione del 7 ottobre in una guerra sanguinosa, devastante per la popolazione civile palestinese e motivata – almeno nei discorsi dei dirigenti – da un intento di conquista, il governo israeliano si è posto in contraddizione con il sionismo storico, fondato sull’idea stessa di sopravvivenza del popolo ebraico.

Ne consegue che gli ebrei si ritrovano, ancora una volta, soli. Certo, sulla scena politica internazionale l’attacco contro l’Iran – nonostante la sua opportunità possa essere sostenuta o rifiutata – è generalmente compreso nel suo obiettivo. Ma quest’ultimo si offusca, nell’opinione comune, per l’idea che non si tratti d’altro che di una politica di potenza, nel solco di quella che ha preso il sopravvento nella guerra a Gaza. In realtà non è così, ed è qui che si apre l’occasione per una chiarificazione. Israele vive in questo momento una contraddizione: derogando da mesi al proprio principio fondante nella guerra a Gaza, si trova però costretta, al contempo, ad agire secondo la propria essenza, ovvero a proseguire il progetto sionista di costruzione, in epoca moderna, di un rifugio per il popolo ebraico, sotto forma di uno Stato di diritto democratico. La persistenza di questo principio si manifesta oggi nell’attacco all’Iran, volto a neutralizzare una minaccia crescente e l’eventualità concreta della distruzione dello Stato ebraico.

Mentre agli occhi del mondo queste due tendenze contraddittorie non fanno che generare confusione – cosa di cui l’antisionismo, ovviamente, si giova appieno –, agli occhi degli ebrei si raggiunge ora un punto di chiarezza. È da qui che occorre ripartire. Occorre ristabilire, nel discorso e nei fatti, la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. E, dall’ingiusto al giusto, si può persino sperare che l’offensiva israeliana, qualora portasse al crollo o almeno a un indebolimento duraturo del mandante del massacro del 7 ottobre, contribuisca a rafforzare in Israele un approccio più pacato, finalmente aperto e costruttivo, alla questione palestinese. Possa la guerra contro l’Iran, con obiettivi chiari e giustificati, segnare un nuovo orientamento capace di porre fine al conflitto di Gaza. Allora il punto di vista ebraico moderno incarnato dal sionismo potrà ritrovare un’affermazione limpida, dissipando il sospetto di illegittimità che gli sforzi congiunti dell’antisionismo e dell’estrema destra israeliana hanno fatto gravare sull’opinione pubblica mondiale.


Bruno Karsenti e Danny Trom