“Entrambe le cose sono vere, contemporaneamente: le università hanno gestito male la situazione e la retorica di Trump sfrutta l’antisemitismo per attaccare le università”.

La storica Deborah Lipstadt è stata l’inviata speciale per il monitoraggio e la lotta all’antisemitismo per l’amministrazione Biden. In questa intervista racconta la sua percezione dei dibattiti che agitano gli Stati Uniti, tra il timore che Trump strumentalizzi la lotta all’antisemitismo e il rifiuto – da parte del campo progressista – di fare pulizia al proprio interno.

 

Deborah Lipstadt

 

Stephane Bou: Guardando indietro, come descriverebbe ciò che è stato realizzato durante il suo mandato all’interno dell’amministrazione Biden, come responsabile dell’ufficio federale incaricato di monitorare e combattere l’antisemitismo?

Deborah Lipstadt: Penso che abbiamo ottenuto molto. È stata pubblicata la prima National Strategy to Counter Antisemitism (Strategia nazionale contro l’antisemitismo), che ha riunito 27 o 28 agenzie federali diverse per affrontare la questione in modo coordinato e serio. È stato un passo importante, compiuto prima del 7 ottobre.

Abbiamo creato le Linee guida globali per la lotta all’antisemitismo. Abbiamo ottenuto l’adesione di 43, o forse 44 o 45 paesi e istituzioni multilaterali: un vero impegno internazionale nella lotta all’antisemitismo.

Abbiamo anche contribuito a diffondere l’idea che l’antisemitismo è una minaccia su più livelli. Quando mi sono presentata davanti alla Commissione Affari Esteri del Senato, ho parlato di uno spettro di antisemitismo che va dalla destra alla sinistra. Ho usato l’immagine di un ferro di cavallo. Un ferro di cavallo in cui i due estremi si incontrano. La cosa affascinante è che l’estrema destra e l’estrema sinistra condividono gli stessi tropi, gli stessi stereotipi: finanza, potere, cospirazione, ecc… E con quel ferro di cavallo, le due estremità si avvicinano sempre più al centro. Le idee estreme sono al centro del dibattito.

Soprattutto, deve essere chiaro che l’antisemitismo non è solo un pericolo per gli ebrei. Si tratta di una minaccia multiforme: è una minaccia per gli ebrei, per le istituzioni ebraiche e per coloro che vi sono associati ed è una minaccia per la democrazia. Se si crede alla teoria del complotto e si pensa che gli ebrei controllino il governo, la magistratura, i media e il sistema bancario, si rinuncia alla democrazia. È una minaccia per lo Stato di diritto: quando agli studenti ebrei dell’UCLA viene negato l’accesso alla biblioteca in quanto ebrei o “sionisti” e la sicurezza dell’università non interviene, questi studenti perdono fiducia nella legge perché la legge non li protegge. È una minaccia per la sicurezza nazionale, perché esiste anche una forma di antisemitismo utilitaristico, strumentalizzato dai governi: dopo il 7 ottobre l’antisemitismo è esploso in Cina, diffondendosi come messaggio politico. Ricordiamo che negli anni Cinquanta il KGB orchestrò una campagna antisemita nella Germania occidentale per screditare l’Occidente…

L’antisemitismo è quindi un segnale d’allarme per la società nel suo complesso. L’antisemitismo è come un semaforo giallo che lampeggia prima che la luce diventi rossa. E questa luce rossa, al di là della questione del solo antisemitismo, segna il punto di svolta verso crisi, violenza e caos sociale.

Questo quadro di riferimento si è già dimostrato efficace. Ricordo che mi trovavo ad Amsterdam solo quattro o cinque giorni dopo gli scontri. Mi sono seduta con il sindaco e le ho spiegato questo concetto; mi ha ascoltata attentamente. Lo stesso è successo a Halifax, all’epoca dei disordini a Toronto e Montreal. Ne ho parlato con il ministro degli Esteri canadese, sottolineando questa idea, e lei mi ha detto che è stato un vero aiuto a capire meglio la situazione. A volte, quando si condivide questo quadro di riferimento sia con ebrei che con non ebrei, si aprono loro gli occhi. La gente pensa: “Devo essere buono con gli ebrei, sono miei concittadini, miei parenti, i miei nipoti”. Ma poi sentono questo discorso e iniziano a vedere il problema da una prospettiva diversa. Questo è stato fondamentale.

SB: Lei ha anche lavorato per portare avanti gli Accordi di Abramo.

DL: Sì. Non tanto in termini di relazioni bilaterali con Israele – di questo si sono occupati altri uffici – quanto per incoraggiare gli Stati del Golfo, il Marocco e persino l’Arabia Saudita (dove mi sono recata due o tre volte) a riconoscere che parte della loro storica ostilità verso Israele aveva assunto la forma di un antisemitismo palese. E che se volevano cambiare le dinamiche nella regione, dovevano affrontare anche questo aspetto. Abbiamo ottenuto molto. Mi sarebbe piaciuto fare di più.

E naturalmente il 7 ottobre ha cambiato tutto…

SB: Direbbe che dopo il 7 ottobre qualcosa è cambiato radicalmente? O era già si avvertiva, era nell’aria? È diventato evidente solo dopo, o lo aveva intuito?

DL: Abbiamo sempre saputo che c’erano delle correnti sotterranee – persone nel governo, nel Dipartimento di Stato, nella società – ma sono portata, ampiezza e intensità del fenomeno ad essere cambiate. L’antisemitismo in America non è una novità. Ma la franchezza con cui viene ora espresso… questa è una novità.

SB: Quando ha lasciato l’incarico, a gennaio, mi sembra di aver letto che era preoccupata per l’amministrazione Trump.

DL: No, non è esatto. Un giornalista ha male interpretato le mie parole. Quello che ho detto è che avevo piena fiducia nel senatore Rubio, che allora era il Segretario di Stato designato. Si era sempre espresso con chiarezza e coerenza sull’antisemitismo ed ero convinta che avrebbe mantenuto il suo impegno su questo tema. Questo è quello che ho detto.

SB: Ma lei capisce la preoccupazione che si nasconde dietro al problema, soprattutto nel mondo accademico, ovvero che l’amministrazione Trump abbia strumentalizzato la lotta all’antisemitismo per fini politici?

DL: Certo. Entrambi i fatti possono essere veri, contemporaneamente: il fatto che le università abbiano gestito male la situazione e il fatto che la retorica di Trump sfrutti l’antisemitismo per attaccare le università.

Le università hanno adottato un approccio permissivo e indulgente, che si è rivelato controproducente. Abbiamo sentito il rettore Martin dire: “Gli accampamenti non sono consentiti, ma li lasceremo fare”. E poi, com’era prevedibile, gli studenti hanno occupato gli edifici. È come crescere un bambino piccolo: non voglio paragonare i manifestanti a dei bambini, ma il senso è chiaro. Il bambino lancia un peluche, niente di grave. Poi una palla, ancora niente. E subito dopo un mattone. E anche prima degli accampamenti non prendevano sul serio l’antisemitismo. L’ho detto nel mio primo discorso in questa veste: è vero che hanno programmi DEI (Diversità, Equità e Inclusione) che affrontano questioni importanti, ma escludono gli ebrei. Gli ebrei sono spesso considerati come estranei a quel quadro. Le università non sono riuscite a considerare responsabili coloro che oltrepassano il confine dell’antisemitismo. Gli studenti segnalavano episodi di antisemitismo e le amministrazioni spesso li ignoravano. Lo si vede chiaramente nei report della Columbia, di Harvard e di altre università.

Dopotutto è vero che la politica di Trump non è più incentrata esclusivamente sulla lotta all’antisemitismo: non si tratta più solo di combattere l’antisemitismo, viene usato come arma contro le università d’élite. E spesso ha ben poco a che vedere con l’antisemitismo vero e proprio. Alcuni lo vedono come parte di una guerra ideologica più ampia. Qualunque sia il motivo, se si vuole combattere l’antisemitismo… lo si faccia. Se si vogliono sfidare le istituzioni dell’istruzione superiore, lo si faccia. Ma non si confondano le due cose. E non credo che dovremmo combattere le università. Sono uno dei fiori all’occhiello della società americana. Ma sì, le università hanno lasciato la porta aperta e l’amministrazione Trump ci ha fatto irruzione.

SB: Come vede il fatto che i partiti di estrema destra sia negli Stati Uniti che e in Europa si presentino, ora, come difensori degli ebrei?

DL: La risposta deve partire dall’autocritica: prima fare le pulizie a casa propria. Non date per scontato che essere liberal vi renda immuni al pregiudizio. Troppi liberali si sono congratulati con se stessi: “Non possiamo essere antisemiti, siamo progressisti!”. Ma sì, si può essere antisemiti. E lo abbiamo visto. Dico sempre: i miei amici di sinistra vedono l’antisemitismo a destra. I miei amici di destra vedono l’antisemitismo a sinistra. Ma nessuno dei due vede l’antisemitismo proprio accanto a sé.

SB: All’estrema destra vediamo anche uno strano mix di sostegno esplicito al sionismo e “agli ebrei” a volte accompagnato da un antisemitismo palese. Si sta affermando anche una sorta di modello globale: leader come Orban o come Diritto e Giustizia – il partito polacco di estrema destra – o figure dell’estrema destra francese: sono molto filoisraeliani ma negano o distorcono la memoria della Shoah.

DL: Esatto. È così. È un fenomeno nuovo. Per decenni l’estrema destra ha semplicemente odiato gli ebrei. Ora abbraccia posizioni filoisraeliane mentre mina la memoria ebraica. È un cambiamento. Un rebranding. È una questione di opportunità. Lo vediamo in tutta Europa, e non solo in Europa.

È puramente utilitaristico. Cinico. In Germania, alcuni membri dell’AfD hanno marciato con gruppi musulmani perché erano antisemiti, e hanno marciato con gli ebrei perché pensavano che fossero anti-musulmani, anche se non lo erano. È opportunistico e terribilmente spiacevole. Ma agli estremisti non importa la coerenza. Vedono un’opportunità e la sfruttano. Non pensano: “Devo rimanere fedele ai miei valori”. Pensano: “Come faccio a vincere questo round?”

SB: Direbbe che Trump rientra in questa categoria?

DL: Non lo so. Non lo conosco. Quello che so è che alcune persone nella sua amministrazione hanno molto a cuore il problema antisemitismo e hanno lavorato duramente per combatterlo, e questo lo rispetto. Altri hanno “trafficato” con l’antisemitismo, persino negando la Shoah. Ma anche nell’amministrazione Biden c’erano personaggi preoccupanti. Nessun circolo politico è perfetto. Peter Baker in un recente articolo comparso sul New York Times ha affermato, in sostanza, che Trump combatte l’antisemitismo e allo stesso tempo lo pratica. È un paradosso.

SB: Lei ha rifiutato un’offerta di insegnamento alla Columbia. È stata una dichiarazione politica?

DL: È stata una dichiarazione educativa. Alla Columbia stanno succedendo troppe cose che trovo molto preoccupanti. Temevo che se avessi accettato la scuola avrebbe potuto usare la mia presenza come scudo, una foglia di fico. Adamo ed Eva si sono coperti con foglie di fico. Non volevo essere quella foglia o essere usato come simbolo. Ero stata anche invitata a parlare al consiglio di amministrazione di una prestigiosa scuola privata. È venuto fuori che un insegnante aveva distribuito materiale apertamente antisemita agli studenti. E la loro soluzione è stata: “Invitiamo Deborah Lipstadt”. Ma non è così che si risolve il problema. Se siete sinceri, sarò lieta di aiutarvi a riflettere, ma non coinvolgetemi come simbolo.

SB: È ottimista riguardo a quella che un tempo veniva chiamata la “sintesi ebraico-americana”? È cambiato qualcosa?

DL: L’antisemitismo in America non è una novità. Ma ora è diverso. È più visibile. È uscito allo scoperto. Non è nuovo, ma alcuni lo percepiscono come nuovo. Le giovani generazioni tendono a vederlo come una grande novità. E dal loro punto di vista probabilmente è vero. Forse anche dal mio. Ma per la generazione dei miei genitori o dei miei nonni le cose erano diverse. Quando ero giovane, era chiaro che uno studente ebreo di diritto anche se brillante non era detto riuscisse a lavorare in certi studi legali. Negli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta i fisici ebrei spesso dovevano diventare dei pionieri in nuovi ambiti di ricerca non perché lo volessero, ma perché erano esclusi da quelli consolidati. Questo ha sempre fatto parte della storia americana. Una situazione che si è un po’ attenuata negli anni Ottanta e Novanta, ma non è mai scomparsa. E stava tornando a farsi sentire anche prima del 7 ottobre.


Intervista condotta da Stephane Bou

Deborah Lipstadt è una storica americana, rinomata esperta di negazionismo della Shoah e antisemitismo contemporaneo. Il suo libro Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth and Memory (1993) è un’opera fondamentale sul negazionismo della Shoah. Ha ottenuto riconoscimento pubblico durante il processo del 2000 contro David Irving, che l’aveva citata in giudizio per diffamazione, a Londra. Ha vinto la causa, cosa che ha segnato una tappa importante nella lotta contro la falsificazione della storia. È anche autrice di The Eichmann Trial (2011) e Antisemitism: Here and Now (2019). Il Presidente Joe Biden nel 2022 l’ha nominata Inviata speciale degli Stati Uniti per il monitoraggio e la lotta all’antisemitismo, carica che ha ricoperto fino al gennaio 2025.