Fine della guerra

Il conflitto tra Israele e l’Iran dei mullah – che al momento della stesura di questo testo parrebbe essersi chiuso – ha fatto luce sul senso stesso che ha la guerra per Israele. Privando la Repubblica Islamica dell’Iran dei mezzi necessari a perseguire i suoi propositi di annientamento, Israele ridefinisce le condizioni concrete della propria sicurezza. Si impone allora, con rinnovata urgenza, la questione della prosecuzione di una guerra interminabile e sanguinosa a Gaza. Ma lo scontro che si è appena concluso solleva anche un interrogativo sulla passività dell’Europa di fronte alle minacce criminali rivolte da decenni contro lo Stato d’Israele e contro gli ebrei, una passività che non è altro che il rovescio della medaglia della sua indifferenza verso il destino del popolo iraniano.

 

Lyonel Feininger, 1921. WikiArt

 

L’Iran, il cui nome ufficiale è Repubblica Islamica dell’Iran, rappresenta per Israele un pericolo che racchiude due diversi elementi, che sono ben riconoscibili nella sequenza di questi giorni. L’intenzione di distruggere lo Stato di Israele; i mezzi a disposizione per riuscirci. L’offensiva israeliana, sostenuta dagli Stati Uniti, doveva avere un unico obiettivo: privare il regime islamista dei mezzi di distruzione di massa di cui dispone per realizzare il suo progetto, annientandone il potenziale nucleare militare. Tutto lascia pensare che questo obiettivo sia ormai stato raggiunto, la preoccupazione ora è limitata alla possibilità che l’Iran abbia nascosto dell’uranio arricchito, difficile da rintracciare.

L’intenzione iraniana, va ricordato, non si è limitata a una retorica infuocata sull’eradicazione del “nemico sionista”, anche in sedi internazionali che per principio avrebbero dovuto escluderla in maniera assoluta. È andata ben oltre le parole e si è concretizzata in azioni, tra cui quella del 7 ottobre, che hanno ricevuto il via libera da Teheran. Un attacco che è proseguito con l’aggressione di Hezbollah, per proseguire con quelli di altri “satelliti” dell’Iran insediati altrove. Il fatto che essi siano ora molto indeboliti non significa che l’intenzione non persista, nell’orbita di un centro iraniano che ne alimenta la virulenza. Insomma: l’antisionismo radicale, quello che mira espressamente a cancellare lo Stato ebraico dalla mappa, non scomparirà dagli animi, fa parte dei dati di fatto con cui Israele deve fare i conti nel contesto geopolitico cui appartiene, e fino al suo ambiente più prossimo. Ma – dal momento che questa intenzione non è più sostenuta da quei mezzi che sarebbero necessari per passare all’azione – la situazione non è più la stessa. La cessazione dei combattimenti con l’Iran è necessaria per passare a una nuova fase.

L’intenzione, pur senza capacità di tradursi in azione, rimane comunque preoccupante e contestare l’obbligo (da parte del bersaglio designato) di prendere sul serio tale minaccia in ogni momento significherebbe cedere a un irenismo quantomeno sospetto. Resta il fatto che nessuna azione militare è in grado di sradicare una pura intenzione, priva di mezzi. Bisogna affidarsi alle trasformazioni politiche, che in ultima analisi si basano sulla speranza che le idee sostenute e propagandate dall’Iran possano cambiare, dall’interno, e che la loro influenza si riduca, in tutti i luoghi in cui riesce ad arrivare. Tutto ciò sullo sfondo di accordi diplomatici che ora sicuramente saranno conclusi su nuove basi.

Alcuni diranno che un accordo diplomatico – piuttosto che una sconfitta seguita dalla capitolazione dell’Iran – è un modo per dare ancora respiro al regime, un preludio alla ripresa delle sue azioni e del suo armamento. Ma qui ci si scontra con una condizione dalla quale è impossibile derogare: se in Iran è possibile un nuovo inizio, questo può avvenire solo per volontà del popolo iraniano e non per un crollo provocato da un intervento esterno. Nulla dà credito all’illusione che possa essere altrimenti, e soprattutto non il diritto degli Stati legati all’autodeterminazione dei popoli e gli orientamenti che ne derivano in termini di politica internazionale.

Si può anche aggiungere che non c’è Stato più consapevole di Israele di questa condizione sine qua non. Non esiste uno Stato moderno più visceralmente legato al principio dell’autodeterminazione dei popoli di quello che, nella sua breve storia, vi ha tanto scommesso. Coerentemente con i suoi principi fondatori, la conduzione di una guerra non può avere per questo Stato altro scopo che la sicurezza, perché ha nella sua stessa essenza la missione di rifugio per gli ebrei e la loro autodeterminazione. A partire dalla realizzazione del progetto sionista, la sicurezza ebraica si basa sull’autoprotezione, resa possibile dal diritto dei popoli a disporre di sé stessi in uno Stato sovrano. Dopo la Shoah, la ricostruzione dell’intero mondo ebraico attraverso la polarità tra Israele e la diaspora ha trovato un suo punto di equilibrio ridefinendo e valorizzando questo legame. Il fatto che la popolazione israeliana abbia dato il suo sostegno massiccio all’attacco contro l’Iran, anche se questo attacco è stato deciso e condotto da un governo verso il quale la maggioranza nutre solo sfiducia per il suo fallimento e i suoi crimini nella guerra a Gaza, è sufficiente a dimostrare la forza di questa convinzione. Ma è stato anche l’espressione, da parte israeliana, di una convinzione condivisa da tutti gli ebrei riguardo all’unico fondamento possibile di una guerra giusta.

In questa visione generale della politica ebraica non c’è posto per l’espansionismo, contrariamente a quanto l’estrema destra israeliana cerca di imporre con forza in tutti i territori occupati dal 1967. Allo stesso modo, non può esserci spazio per la volontà di decidere per altri il senso del loro destino, qualunque sia il popolo in questione, quello di uno Stato nemico che vive attualmente sotto una dittatura intollerabile, o quello che aspira all’autonomia politica e cerca di acquisire la sovranità sulla terra che gli spetta di diritto.

Alla luce della guerra appena conclusa è questa la lezione che deve essere tratta su tutti i fronti di Israele. Se è nella difesa degli ebrei che la guerra trova la sua legittimità, allora è a condizione che nessuna politica nazionale, così come si attua o cerca di formularsi altrove, sia privata di se stessa. La politica degli altri riguarda Israele in quanto politica estera, che Israele aveva dichiarato di volere pacifica e cooperativa nella lettera stessa della sua dichiarazione di indipendenza, limitandosi a rivendicare per sé l’appartenenza al campo delle democrazie e impegnandosi a esserne esempio agli occhi del mondo. Il fatto che il richiamo a questo impegno riemerga costantemente alla prova dei conflitti interni ed esterni è ciò che crea la tensione permanente sotto cui vive questo Stato democratico di diritto, sin dalla guerra difensiva che ha dovuto combattere all’indomani della sua nascita – guerra difensiva che è stata la prima di una lunga serie, quella stessa serie che la guerra che sta volgendo al termine con l’Iran ha la vocazione, almeno per un certo periodo, di interrompere.

Da ciò consegue che, così come rovesciare il regime iraniano non poteva essere un obiettivo di guerra, il proseguimento della guerra a Gaza non può essere legittimato come espressione di una politica autenticamente sionista. Ciò che si può rilevare, tuttavia, è che la sequenza del conflitto israelo-iraniano apre ora la strada a una comprensione completamente diversa della situazione generale in cui si inserisce la guerra a Gaza. L’antisionismo radicale ed eliminazionista, di cui l’Iran rimane il principale focolaio di diffusione, fortunatamente vede il suo obiettivo intangibile allontanarsi dalle sue capacità di azione. Inoltre, questa guerra di 12 giorni, che ha raggiunto l’intensità esistenziale di quella di 6 giorni nel senso che chiude l’episodio sanguinoso del 7 ottobre – senza sfociare in una conquista del territorio assicurando al contempo che il sogno della distruzione dello Stato di Israele sia diventato più irrealistico – è riuscita in breve tempo a instaurare in Israele quella tranquillità senza la quale una soluzione della questione palestinese appare una chimera.

Questo cambiamento sarà sancito dall’attuale governo israeliano, come è già sicuramente successo nella società israeliana su cui finalmente si è allentata la morsa? È la domanda che ci si pone ora, ovviamente. In questo senso la critica alla politica israeliana viene rilanciata, grazie al chiarirsi della situazione.

Ma c’è un altro insegnamento da trarre dalla sequenza del conflitto israelo-iraniano. È difficile da accettare, ma non per questo meno importante. e l’opinione pubblica internazionale non può ignorarlo: l’intenzione omicida è al centro dell’ideologia della rivoluzione islamica, è ciò che ha espresso fin dall’inizio e non ha mai smentito, anche se il regime iraniano si è rapidamente trasformato in un’autocrazia corrotta e predatrice, arricchendo smisuratamente un’élite, calpestando le libertà e opprimendo massicciamente la popolazione. Ripetiamolo, liberarsi da ciò che si è coagulato sotto il nome di Repubblica Islamica dell’Iran spetta esclusivamente al popolo iraniano stesso, non appena riuscirà non solo a condannarlo a maggioranza, ma anche a rovesciarla. Resta il fatto che i giudizi che si danno dall’esterno su un regime del genere impegnano tutte le nazioni e in particolare quelle europee, che sono a priori in grado di riconoscere ciò che, in termini di diritti e relazioni internazionali, è in palese contraddizione con ciò che esse sono.

L’autocritica su questo punto non può che essere severa, pur se retrospettiva. È evidente che la società iraniana è stata troppo poco sostenuta da un’Europa preoccupata dei propri interessi immediati, sempre pronta a mezze misure, e con questo regime sono state mantenute relazioni in cui la realtà dei fatti e il senso ovvio dei discorsi sono stati nascosti sotto il tappeto. La politica degli europei nei confronti del popolo iraniano e nei confronti dell’antisemitismo sterminatore che colpisce gli ebrei e Israele – con la notevole eccezione della Germania, qui va sottolineato – sono le due facce della stessa politica di indifferenza, associata alla mancanza di mezzi. Con il pretesto della prudenza, non è stata altro che una politica di rinuncia a se stessa, di cancellazione della propria coscienza storica e in ultima analisi dei propri valori. In questo senso questa guerra segna anche la responsabilità europea, nell’inazione. Israele, gli ebrei come gli iraniani, ciascuno secondo la propria prospettiva, ora lo sentono profondamente. A loro resta da ricostruirsi. E all’Europa resta da cambiare il proprio sguardo su ciò che è veramente.


Bruno Karsenti et Danny Trom