Eva Illouz: «Se il sionismo viene sequestrato da un progetto politico autoritario e antidemocratico, cosa ne resterà?»

Accusata dal ministro dell’Istruzione israeliano Yoav Kisch di «ideologia anti-israeliana», la sociologa Eva Illouz si è vista contestare l’assegnazione dell’Israel Prize. Torna sulla vicenda, denuncia la deriva autoritaria del governo Netanyahu e difende la sua posizione intellettuale critica, universalista e profondamente legata allo Stato di Israele. Per Illouz «questo governo si comporta come se coloro che lottano affinché Israele non diventi uno Stato paria fossero dei nemici».

 

Eva Illouz

Come ha interpretato la volontà espressa dal ministro dell’Istruzione Yoav Kisch di non assegnarle l’Israel Prize a causa della sua presunta «ideologia anti-israeliana»? Ha avuto la sensazione di aver superato una soglia, di aver assistito a una svolta simbolica? 

Eva Illouz: la svolta non è avvenuta con me. Le ricordo che al matematico Oded Goldreich è stato negato il premio già nel 2021. Il pretesto: aveva firmato una petizione che chiedeva il boicottaggio dell’Università di Ariel, in Cisgiordania. Il suo caso è arrivato alla Corte Suprema, che si è pronunciata molto chiaramente a favore di Goldreich. Nel mio caso è stato perché nel 2021 ho firmato una petizione che si rivolgeva al tribunale dell’Aia e chiedeva fosse avviata un’indagine su possibili crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano contro i palestinesi.

Vi ricordo il contesto: da oltre 50 anni Israele facilita l’insediamento in Cisgiordania di una popolazione ebraica cui concede diritti giuridici superiori a quelli dei palestinesi. Israele limita il diritto di circolazione dei palestinesi, controlla il rilascio dei loro documenti d’identità e non interviene quasi mai quando i coloni ebrei commettono atti di violenza contro persone e proprietà palestinesi. Nell’aprile 2021 la polizia israeliana ha scollegato l’altoparlante che trasmetteva la preghiera del muezzin per consentire al presidente dello Stato, Reuven Rivlin, di tenere il suo discorso senza essere interrotto. Cosa che ha dato fuoco a un terreno già molto infiammabile, per così dire. Inoltre alcune famiglie palestinesi sono state espulse dalle loro proprietà a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est e secondo la legge israeliana, un ebreo che ha dovuto lasciare la sua proprietà a Gerusalemme Est può riottenerla, il contrario non è vero per le famiglie arabe. Ci sono stati scontri molto violenti. E la petizione che ho firmato è stata sottoscritta da 180 persone, la maggior parte delle quali accademici, e da dieci vincitori dello stesso Israel Prize. Questo è bastato al ministro israeliano per dichiararmi «estremista antisemita». È ridicolo, se si conoscono le mie posizioni dal 7 ottobre… ho difeso senza sosta il diritto di Israele ad esistere.

Amare Israele significa opporsi al regime ingiusto dell’occupazione e alle sue derive. Amare Israele significa pensare a come questo Paese possa uscire dalla logica della guerra infernale in cui è intrappolato. Il governo israeliano ha fatto con me e con altri ciò che fanno i regimi autoritari, ovvero un esame della mia lealtà. Non sono stata “approvata” con menzione d’onore da questo governo di estrema destra. Cosa che in fondo non mi spiace per me, ma che trovo deplorevole per il Paese. Stanno accadendo cose molto gravi e tutti coloro che hanno a cuore il futuro di Israele dovrebbero essere molto preoccupati.

Amare Israele significa opporsi al regime ingiusto dell’occupazione. Amare Israele significa pensare a come questo Paese possa uscire dalla logica della guerra infernale in cui è intrappolato.

L’anno scorso Yoav Kisch aveva deciso di annullare l’assegnazione dell’Israel Prize per la ricerca scientifica a Eyal Waldman, perché aveva manifestato contro la riforma giudiziaria del governo…

Eyal Waldman è un uomo d’affari. Ha creato aziende che danno lavoro a persone della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Crede nell’idea settecentesca del «dolce commercio», secondo cui le relazioni commerciali portano alla collaborazione tra gli esseri umani e, in ultima analisi, alla pace. Nel 2020 ha donato 360 mila dollari a un ospedale di Gaza. Ha dato lavoro a centinaia di palestinesi nelle sue industrie hi-tech. Ha criticato Benjamin Netanyahu e ha avuto un ruolo importante nelle proteste contro la riforma che mira a smantellare l’indipendenza della magistratura. In termini israeliani, egli rappresenta una minaccia più diretta al potere rispetto a me… ma non è uno scienziato. Ha ricevuto il premio per il suo contributo allo Stato.

Considerando il contesto, con l’attuale governo animato da pulsioni maccartiste, è stata tentata di rifiutare il premio?

Non sono stata io a candidarmi. È stato un collega. Quando mi ha informato della sua iniziativa gli ho espresso gratitudine ma non pensavo che avrei ricevuto il premio. In realtà non ci pensavo affatto. Il comitato scientifico mi ha scelta e il ministro ha chiesto loro di riconsiderare la decisione. Si sono riuniti una seconda volta e non sono riusciti a eleggere nessun altro. Anche se sono delusa dai tribunali internazionali e non nutro più la stessa deferenza che avevo allora, anche se ho criticato molto la Corte penale internazionale dopo il 7 ottobre, non tornerò sulla decisione che mi ha spinto a firmare allora. Israele non serve la sua causa esercitando un potere militare brutale sui palestinesi della Cisgiordania. Il ministro Kisch mi ha chiesto di ritirare la mia firma, ma ho rifiutato. Cedere significherebbe legittimare questa grossolana interferenza nell’attività scientifica e questo atteggiamento punitivo nei confronti dei cittadini.

Pensa che oggi in Israele esista una soglia oltre la quale il pensiero critico cessa di essere percepito come legittimo e diventa minaccia da neutralizzare?

Israele soffre di una malattia autoimmune. Le malattie autoimmuni attaccano le cellule sane come se fossero pericolose. Il corpo non è più in grado di distinguere tra tessuti sani e tessuti malati. È quello che sta succedendo in Israele. La prova? Prima del 7 ottobre Netanyahu era così impegnato a vedere i manifestanti come nemici che non ha visto dove fosse il vero nemico. Non ha ascoltato gli avvertimenti su Hamas. Questo governo si comporta come se coloro che lottano affinché Israele non diventi uno Stato paria fossero nemici. Questa è una malattia politica autoimmune. È un’iperdifesa che fa soffocare il corpo politico dall’interno. È una propensione a vedere nemici ovunque, a esigere lealtà in ogni momento, a sbagliarsi su chi sono gli amici e i nemici.

Cosa rivela, secondo lei, sul posto che oggi può ancora occupare un’intellettuale critica nello spazio pubblico israeliano?

Devo dire che da molto tempo mi sento in una sorta di esilio interiore. Il potere di Netanyahu è corrotto, lo vediamo ogni giorno un po’ di più. E il potere degli ultraortodossi in quasi tutti gli aspetti della vita israeliana è diventato soffocante.

Il fondamento morale su cui gli ebrei si basano per difendersi sta diventando sempre più fragile, si sta rimpicciolendo. La situazione è grave, ma c’è un bel popolo in Israele. Quello che lotta per preservare la democrazia.

Nel mio caso e in quello del premio, uno dei membri del comitato scientifico ha cambiato idea e ha votato contro di me durante la seconda riunione del comitato, quella richiesta dal ministro, invocando un’antica legge ebraica [din mosser][1] che definisce “traditori” gli ebrei che si consegnano ai non ebrei. Questa antica legge religiosa invoca l’obbligo di ucciderli. L’ultima volta che è stata evocata in un discorso pubblico era poco prima dell’assassinio di Rabin. Il contesto era politico e la posta in gioco era enormi, poiché si trattava di restituire dei territori. In questo caso, invece, si tratta di un comitato scientifico e di una petizione. Aver preso le parti dei palestinesi e aver chiesto all’Aia di indagare su possibili crimini di guerra mi rende colpevole di essere «moser», traditrice e quindi lapidabile. Toglie il fiato. Questo pone un problema alle mie riflessioni: ho cercato di separare il diritto di Israele a esistere dalla leadership distopica e ormai criminale di Netanyahu. Da un lato difendere il diritto di Israele a esistere, dall’altro condannare senza tregua questo governo di briganti. Ma sta diventando sempre più difficile. Ci vorranno molte acrobazie intellettuali. Quando un premio scientifico viene negato in nome di una vecchia legge religiosa che predica l’uccisione dei traditori, si tratta di una fatwa, ma proviene dal cuore dell’università; quando Netanyahu conduce una guerra senza fine e uccide un numero incalcolabile di innocenti, quando il sospetto di corruzione grava su così tanti aspetti del governo, alcuni di noi semplicemente non ne avranno più voglia. C’è dell’altro: è l’uso vergognoso che l’amministrazione Trump fa dell’antisemitismo per giustificare la sua caccia alle streghe. Questa associazione con il trumpismo contamina e mina la lotta contro l’antisemitismo. Con amici del genere gli ebrei non hanno più bisogno di nemici. È una crisi nuova e molto grave. La lotta contro l’antisemitismo è oggi condotta da un’estrema destra senza principi che riconosce solo la forza nella storia. Le fondamenta morali su cui gli ebrei si basano per difendersi stanno diventando sempre più fragili e si stanno rimpicciolendo. A destra come a sinistra, queste fondamenta si stanno sbriciolando.

La situazione è grave, ma c’è un bel popolo in Israele. Un popolo che lotta per preservare la democrazia. Credo che non ci sia nessun altro Paese in cui la gente è scesa in piazza per tre anni nonostante stia combattendo diverse guerre difficili. Anche questo è Israele. È un paese unico al mondo. Rendo omaggio a questo popolo che scende in piazza.

Il minimo che si possa dire è che lei si trova in una posizione tristemente ironica: dal 7 ottobre non ha lesinato gli sforzi per difendere la legittimità di Israele e – pur avendo criticato apertamente una parte della sinistra mondiale, esaminato e analizzato la sua compiacenza nei confronti di Hamas, sottolineato le affinità tra antisionismo e antisemitismo – ora viene accusata di una presunta «ideologia anti-israeliana». Come vede la sua posizione, stretta tra coloro che criticano il suo sionismo e coloro che la accusano di essere anti-israeliana?

Lei lo dice molto bene: sono intrappolata in una morsa ideologica tra coloro che sostengono ciecamente Israele e le sue politiche di distruzione e coloro che fanno di Israele il principio primo del male, ignorando tutti i luoghi del mondo in cui vengono commessi crimini di Stato. Ma in fondo non è sempre questa la situazione degli intellettuali? L’intellettuale ha dei valori, naturalmente, ma non dovrebbe appartenere a una fazione ideologica. Vuole combattere la menzogna, le mezze verità, l’ignoranza, il fanatismo, da qualunque parte provengano, anche dal proprio campo. Ma confesso che la nostra posizione, la mia e quella di persone come me, è sempre più scomoda perché Israele sta liquidando la sua democrazia, e la lotta contro l’antisemitismo viene strumentalizzata da persone di dubbia reputazione. Il regime di occupazione era antidemocratico, ma gli israeliani lo accettavano perché si svolgeva oltre la linea verde e perché le considerazioni militari e di sicurezza sono strettamente intrecciate con l’occupazione. Ora la liquidazione della democrazia si sta svolgendo all’interno della linea verde.

Temo che l’occupazione e il messianismo abbiano distrutto la cultura morale e politica di questo Paese.

Lotto per la pace e la fratellanza con i palestinesi, per il mantenimento della democrazia in Israele e, allo stesso tempo, contro l’antisemitismo. Solo l’ideologia e la divisione sociale dei campi politici rendono questi compiti incompatibili. Cerco di tenere insieme le due cose, anche se a volte è scomodo. La grande domanda che mi pongo è questa: se il sionismo viene trasformato da un progetto politico autoritario e antidemocratico, cosa ne resterà? Non molto, credo. La guerra senza fine che Israele conduce dalla creazione dello Stato ha smussato i costumi, la capacità di fraternità universale, la capacità di distinguere tra forza e legittimità. Decuplica il senso del pericolo. Si vedono nemici ovunque e si scelgono i nemici sbagliati. C’era una politica che guidava l’esercito, ma oggi è una logica bellica che guida la politica. Ma non dimentichiamo che tutti i paesi, senza eccezioni, sarebbero da tempo scivolati verso l’illiberalismo in circostanze simili. Tutti i paesi del mondo privilegiano la loro sicurezza. Israele sta affrontando una crisi e pressioni diverse da tutti gli altri paesi. Bisogna ricordarlo. Con mio grande rammarico Israele come Stato non è ancora un paese come gli altri. Ma i difetti, le derive e i crimini di alcuni dei suoi leader sono purtroppo simili a quelli di tutti gli esseri umani.

Come vede la possibilità di avere una posizione equilibrata come quella che cerca di mantenere nel contesto di radicalizzazione ideologica che stiamo vivendo oggi?

Non voglio essere equilibrata. Non mi piace la via di mezzo. Max Weber diceva che le posizioni intermedie non sono più vere di quelle estreme. Condivido questa idea. Difendo con passione il diritto degli ebrei ad avere uno Stato e mi ribello contro le derive autoritarie di Netanyahu e la corruzione del suo governo, contro la distruzione di vite umane a Gaza, ho paura per il futuro di Israele, minato dall’interno da troppe divisioni e dissensi, ho paura che l’occupazione e il messianismo abbiano distrutto la cultura politica e morale di questo Paese, penso che sia necessario lavorare per restituire dignità ai palestinesi e aborro anche l’antisemitismo del mio campo, quello della sinistra. Non vedo alcuna contraddizione. L’antisemitismo è, insieme al razzismo contro i neri, la piaga più distruttiva dell’umanità. È vero che quando vivevo in Israele non sentivo alcun bisogno di difendere il sionismo, poiché quando si è in Israele ciò equivale ad assumere una posizione ultranazionalista. Fuori da Israele, equivale semplicemente a difendere il diritto degli ebrei all’autodeterminazione, equivale a rifiutare la demonizzazione del sionismo, equivale a difendere una minuscola comunità. In Israele non avevo bisogno di riflettere sull’antisemitismo poiché gli ebrei controllano il proprio destino. Il luogo da cui si parla è fondamentale.

Non possiamo più negare il ruolo dei messianisti religiosi e la loro determinazione a fare di Israele qualcosa di molto diverso dal sionismo iniziale.

Lei sottolinea il fatto che, a seconda ci si trovi «in Israele» o «fuori da Israele», le priorità e le percezioni non sono le stesse. La crisi che sta attraversando il mondo ebraico non viene percepita allo stesso modo da Israele e dall’Europa?

Direi che essere in Israele e vivere in Francia implicano due posizioni fondamentalmente diverse. In Israele in quanto ebrea appartengo alla maggioranza. In Francia in quanto ebrea appartengo a una minoranza infinitesimale (500 mila individui su una popolazione di 68 milioni, ovvero meno dell’1 per cento). Ciò che cambia, quindi, è che quando si è la maggioranza si ha una responsabilità nei confronti delle minoranze, degli arabi e dei palestinesi. Quando vivevo in Israele, riflettevo molto su come difendere i diritti dei palestinesi. Ma in Francia appartengo a una minoranza, penso molto all’odio verso gli ebrei e in quanto membro di una minoranza ho un impegno verso il mio popolo, soprattutto quando è minacciato. Penso che ogni membro di una minoranza capisca cosa intendo per impegno verso il mio popolo. Queste due opinioni non sono contraddittorie. Significa semplicemente che le idee sono contestualizzate e che il discorso dipende dalla nostra posizione di potere. Avere il potere, come in Israele, implica una responsabilità nei confronti dei deboli. Non avere il potere implica difendere i propri diritti quando sono minacciati. Il 7 ottobre vivevo in Francia e ho sentito un bisogno irresistibile di condividere il dolore e l’angoscia del mio popolo. È stato un cambiamento di luogo, non di opinione, se volete. In quanto franco-israeliana, faccio la spola tra queste due posizioni.

Cosa cambia per lei, a livello personale, questo evento nel suo rapporto con Israele?

Spero di non interpretare l’attualità in base alle mie vicissitudini personali. Per me la rottura è avvenuta quando Rabin è stato assassinato nel novembre 1995 e Netanyahu, che aveva condotto una campagna di demonizzazione di Rabin a causa del processo di Oslo, è stato eletto pochi mesi dopo, nel 1996. È stato allora che ho capito che stava succedendo qualcosa di molto grave. È stato un momento di grande rottura. Ho capito che i messianisti religiosi avevano il potere e stavano portando Israele alla catastrofe. Speravo di sbagliarmi. Ma credo che non si possa più negare il posto che occupano e la loro determinazione a fare di Israele qualcosa di molto diverso dal sionismo iniziale.

Avere il potere, come è il caso in Israele, implica una responsabilità nei confronti dei deboli in Israele. Non avere il potere implica difendere i propri diritti quando sono minacciati.

Lei ha sempre rivendicato un pensiero critico, radicato nella storia ebraica e nell’universalismo. Come vede oggi la posizione di un’intellettuale ebrea critica in Israele? È ancora sostenibile?

L’intellettuale tradizionale aveva due caratteristiche: voleva stare al di sopra della mischia, avere una posizione di superiorità, non essere intrappolata nelle appartenenze; e praticava ciò che Foucault chiamava parresia, diceva la verità al potere. Si metteva in pericolo nei confronti del potere. Questo è cambiato. Un’intellettuale non può quasi più essere universalista. Ora è tenuta a parlare a nome di un gruppo, a rappresentare un gruppo, e le sue parole la mettono in pericolo solo all’interno del suo gruppo, non tanto nei confronti del potere. Ad esempio, una donna nata musulmana che denuncia le derive islamiste, come la comica Sofia Aram, ha come nemico innanzitutto il suo gruppo, non la Repubblica francese. Un ebreo antisionista che critica la politica del governo israeliano sarà considerato «antisionista» e non farà parte della comunità ebraica ufficiale. Sono le comunità, a volte peraltro oppresse, che esercitano un forte potere di censura sulla parola degli intellettuali. La comunità ebraica fa spesso lo stesso perché c’è una forte tensione tra lealtà e indipendenza. Quando ci si sente deboli e attaccati, la lealtà diventa fondamentale. Lo capisco.

Ma per avere autorità epistemica e morale un discorso non può lasciarsi prendere dal desiderio quasi religioso di difendere la causa giusta o il proprio gruppo a tutti i costi, deve essere in grado di integrare nel proprio pensiero fatti che non necessariamente piacciono alla propria comunità, e cercare di riflettere sulla complessità e sulle contraddizioni della realtà. Questa è la posizione universalista, e questa posizione è necessariamente complessa proprio perché tiene conto di punti di vista divergenti. La posizione universalista non è una posizione che “fluttua sopra le nuvole”. Al contrario, cerca di comprendere e superare punti di vista particolari. Non si capisce nulla di Israele se si guarda il paese solo attraverso la lente del colonialismo. Nel sionismo ci sono elementi coloniali e anticoloniali. Israele è oggi sotto il controllo di un governo che agisce contro le istituzioni democratiche, ma reagisce anche alla violenza del campo avversario, quello dei Fratelli Musulmani, quello dei millenaristi islamisti. È questa tutta l’ambiguità e la difficoltà del metodo “comprensivo” sostenuto da Max Weber: si tratta di capire ciò che non ci piace senza giustificarlo. Bisogna anche cogliere la realtà restituendole i suoi attributi contraddittori. La posizione dell’intellettuale richiede di gestire costantemente la tensione tra lealtà e verità. Amo Israele, ma sono inorridita dalle sue derive autoritarie e da quella che sembra essere una profonda corruzione dell’apparato statale (penso tra l’altro al Qatargate). Si possono e si devono sostenere entrambe le posizioni, cogliendone la coerenza e la continuità morale.


Intervista raccolta da Stéphane Bou

Notes

1 Din mosser: è una legge ebraica talmudica che autorizza e persino raccomanda di uccidere un altro ebreo se questi ha commesso un atto di delazione nei confronti delle autorità non ebraiche. Si tratta dell’ordine di uccidere.