La guerra tra Israele e Iran parrebbe aver riportato alla ribalta, nell’opinione pubblica occidentale, un’aspettativa antica: che gli ebrei debbano sempre e ovunque farsi portabandiera della giustizia universale. E ancora una volta chi continua a inseguire questo vecchio fantasma è rimasto deluso. Ci è quindi sembrato utile porci una domanda tanto semplice quanto destabilizzante: “Perché gli ebrei dovrebbero servire a qualcosa?”
Keith Kahn-Harris – sociologo britannico e autore di Everyday Jews: Why the Jewish people are not who you think they are – prova a confrontarsi con questo interrogativo mettendo in discussione alcune certezze apparentemente oramai consolidate. Una domanda che, rivolta tanto agli ebrei quanto ai non ebrei, tocca il cuore di un rapporto che la modernità ha caricato di significati profondi e spesso ambigui. L’ironia contenuta nella domanda stessa non ne attenua il peso, anzi: perché gli ebrei sembrano costantemente condannati a occupare il centro del dibattito pubblico? Cosa impedisce di permettere loro di condurre una vita banale, noiosa, o persino futile?
E inoltre, nelle edizioni internazionali:
In Belgio, fino a prova contraria, è illegale sgozzare i propri concittadini. Tuttavia dichiarare pubblicamente di voler conficcare una lama affilata nella gola di ogni ebreo parrebbe essere conforme alla legge. È il “caso Brusselmans”, dal nome dello scrittore fiammingo che – su un settimanale a larga diffusione – ha incitato all’omicidio degli ebrei senza che ciò suscitasse scandalo, per poi essere assolto dalla giustizia. L’inchiesta di Rafaël Amselem, di cui pubblichiamo questa settimana la prima parte, esplora i meandri giuridici e il contesto culturale fiammingo in cui questo tipo di affermazioni può passare per una semplice opinione personale ed essere ritenuto un esempio di libertà di espressione. Sullo sfondo di questo caso si delinea un malessere specificamente belga nei confronti dell’antisemitismo e delle sue espressioni antisioniste, ma vi si illustrano anche le aporie di una concezione illimitata della libertà di espressione incapace di riconoscere che gli attacchi verbali contro le minoranze contengono di per sé già la violenza.
In aprile, Danny Trom ha firmato un racconto intitolato Settimana Santa sotto Lexomil, cronaca allucinata di un soggiorno a Siviglia durante le processioni pasquali. Smarrito tra i penitenti, con il Lexomil – l’ansiolitico – a malapena sufficiente a contenere un’angoscia ebraica senza dubbio atavica, Trom si è improvvisato testimone di un’esperienza arcaica del cattolicesimo col tono straniante e febbrile di chi si scopre fuori posto. Il testo ha suscitato diverse reazioni, di cui alcune preoccupate per la lucidità del suo autore. Tra i messaggi ricevuti, spiccava la risposta dell’antropologo e storico Leopoldo Iribarren, così abbiamo deciso di pubblicare la sua replica. E dopo aver scambiato il Lexomil con una bottiglia di sherry Danny Trom ha dedicato parte del suo fine settimana a rispondere al collega.
Le’haim!