# 6 / Editoriale

Ci sono guerre che sembrano non finire mai e diventano estenuante ripetizione degli stessi discorsi, fino a spegnere l’attenzione. Altre che si consumano in fretta, prima ancora che lo shock iniziale svanisca, prima che le analisi riescano a fissarsi in un quadro chiaro. Avevamo preparato un numero dedicato al conflitto tra Israele e Iran ma, alla vigilia della pubblicazione, quel conflitto era già storia passata. Cosa può allora emergere dal dialogo tra le diverse voci e prospettive che proponiamo? Non un ragionamento definitivo – la situazione resta fluida, nuovi sviluppi sono sempre possibili – ma piuttosto una griglia di lettura, linee guida attorno a cui potrebbe ricomporsi e riconfigurarsi ciò che è stato destabilizzato.

La prima voce, quella che riflette lo sguardo europeo di K., la rivista ha potuto includere nel suo ragionamento l’idea che nel frattempo era stato dichiarato un cessate il fuoco. Non ha alterato il nucleo dell’analisi proposta da Bruno Karsenti e Danny Trom, al contrario: quel cessate il fuoco corrisponde esattamente a ciò che gli autori auspicavano, una volta dissoltasi la minaccia nucleare iraniana. In continuità con il testo pubblicato la scorsa settimana e firmato dagli stessi due autori, questa riflessione prosegue l’indagine su una tensione interna alla politica israeliana: da un lato una concezione della guerra come strumento per garantire la promessa sionista di un rifugio per gli ebrei; dall’altro, una deriva militarista che ha superato da tempo quel principio e che oggi non trova più alcuna giustificazione accettabile, nemmeno all’interno dell’opinione pubblica occidentale. È su questo discrimine che il conflitto con l’Iran ha portato nuova chiarezza. La questione, adesso, è se la società israeliana riuscirà a imporre al proprio governo di trarne le conseguenze, sotto lo sguardo del mondo. A questa possibilità se ne affianca un’altra, speculare e non meno urgente: che l’Europa – la cui inazione nei confronti dell’Iran ha contribuito a rendere insostenibile la situazione – ritrovi finalmente i propri principi politici fondanti. E, con essi, le responsabilità che ne discendono.

Inoltre, nelle edizioni internazionali:

La seconda voce proviene da Israele, sotto gli attacchi missilistici, ma parla con sicurezza e con chiarezza: in un’intervista concessa alla Frankfurter Allgemeine Zeitung e tradotta da K., la rivista, Benny Morris – figura di spicco dei “nuovi storici” israeliani – sfata alcuni dei miti che circondano il conflitto in Medio Oriente. Ne emerge la chiara consapevolezza di ciò che ostacola una soluzione duratura al conflitto e dei fatti su cui il senso di responsabilità degli israeliani non può transigere.

La terza voce è di Atefe Asadi, poetessa iraniana in esilio ad Hannover, che testimonia la disperazione e la solitudine del suo popolo. Se non si può condividere l’opinione che lo schiacciamento della sovranità iraniana da parte del regime oppressivo della Rivoluzione islamica possa essere risolto con un intervento militare esterno, questo non esime il mondo occidentale – e in particolare l’Europa – dall’agire in accordo con i propri principi. La testimonianza di Asadi mette in luce l’inaccettabile: una situazione in cui la mancanza di solidarietà internazionale fa sì che gli attacchi israeliani risveglino una speranza a lungo sepolta, in cui però ci sono tracce di ambivalenza e umiliazione. La fiamma della libertà continua a danzare nel cuore degli iraniani, spetta alle democrazie allineare azioni e discorsi per non lasciarla spegnere.

Il conflitto tra Israele e l’Iran dei mullah – che al momento della stesura di questo testo parrebbe essersi chiuso – ha fatto luce sul senso stesso che ha la guerra per Israele. Privando la Repubblica Islamica dell’Iran dei mezzi necessari a perseguire i suoi propositi di annientamento, Israele ridefinisce le condizioni concrete della propria sicurezza. Si impone allora, con rinnovata urgenza, la questione della prosecuzione di una guerra interminabile e sanguinosa a Gaza. Ma lo scontro che si è appena concluso solleva anche un interrogativo sulla passività dell’Europa di fronte alle minacce criminali rivolte da decenni contro lo Stato d’Israele e contro gli ebrei, una passività che non è altro che il rovescio della medaglia della sua indifferenza verso il destino del popolo iraniano.