“La cosa peggiore è voler rendere l’altro invisibile”, scriveva lo psicoanalista Jean Oury. E il desiderio di rendere l’altro decifrabile, assimilabile alle nostre categorie, rischia di annientare la complessità e il rispetto in un impulso forse inconsapevolmente egemonico e moralmente assolutorio. Un ammonimento ancora più attuale oggi, nell’epoca dell’indignazione riflessa e dell’empatia automatica, in un momento in cui la politica delle “cause giuste” sta accompagnando “i buoni” in un riposizionamento pericoloso.
Concetti che analizza Gérard Bensussan nel suo ultimo libro, Des sadiques au cœur pur. Sur l’antisionisme contemporain, appena pubblicato da Éditions Hermann, di cui presentiamo in anteprima ai lettori di K. un estratto. Un testo necessario, scomodo, che entra nel vivo del rapporto fra antisionismo e antisemitismo, e della trasformazione della causa palestinese in un totem ideologico per una sinistra smarrita, uno dei punti più dolorosi del dibattito politico e intellettuale contemporaneo. Bensussan – filosofo tra i più rigorosi e originali della scena francese, lettore di Hegel, Rosenzweig e Benjamin, traduttore e interprete della modernità attraverso le lenti del pensiero ebraico – muove da un momento preciso: lo sgomento provato dinanzi al massacro del 7 ottobre 2023. Non solo per l’orrore di quanto compiuto da Hamas ma anche per la reazione pubblica che ne è seguita: una marea di giustificazioni, silenzi selettivi, slogan impastati di approssimazione e cecità storica. È in questo contesto, scrive, che va ripresa la questione del sionismo e del suo rifiuto. Non per difendere una posizione, ma per ridare spessore all’atto stesso del pensare. Il suo saggio non è una requisitoria. È un esercizio critico che rifiuta le scorciatoie, soprattutto quelle morali. Quando “soffrire con” i palestinesi diventa, in certi ambienti intellettuali, il lasciapassare per la negazione dell’esistenza d’Israele allora una forma aggiornata di antiebraismo si maschera di virtù e parla il linguaggio dell’alterità offesa. Bensussan mostra come, nel vuoto lasciato dal tramonto delle grandi narrazioni progressiste, la sinistra abbia elevato la questione palestinese a simbolo identitario, sacrificando ogni analisi storica e politica sull’altare di una solidarietà tanto viscerale quanto selettiva. Ma non è il cinismo a guidare Bensussan. È, semmai, un’esigenza etica più profonda: quella di saper distinguere la compassione autentica dalla proiezione ideologica, di evitare l’appropriazione della sofferenza altrui come leva per affermare la propria innocenza. La sofferenza palestinese è reale, ma affrontarla con rispetto significa non ridurla a strumento, non annetterla alla logica binaria del colpevole e dell’innocente. Solo così si può sottrarre la questione a quel clima torbido in cui la ragione si smarrisce e il giudizio si piega alla propaganda.
Nelle edizioni internazionali:
Boris Schumatsky, moscovita da anni residente a Berlino, è una delle voci più intense e sensibili della Diaspora ebraica contemporanea. Scrittore, saggista, autore radiofonico e televisivo, ha attraversato i confini dell’Europa e delle lingue portando con sé una memoria inquieta, sempre vigile. Nei suoi libri racconta la tensione fra eredità storica e soggettività, fra violenza dei regimi e fragilità della memoria e nei suoi interventi si intrecciano biografia e riflessione politica, nostalgia e lucidità, e uno sguardo che non smette di interrogare il presente. Il suo testo, dalla prospettiva della diaspora, risponde su un registro completamente diverso alla problematica sollevata da Zipperstein la scorsa settimana: là dove il sentimento di sicurezza non è garantito da uno Stato sovrano e forte, la recrudescenza dell’antisemitismo nelle sue forme contemporanee riattiva una memoria traumatica che non si placa, e che si sperimenta anzitutto nell’isolamento di una soggettività. I segni politici del presente ingannano solo chi ha dimenticato di cosa è stato capace il mondo nei confronti degli ebrei, e ricordare implica troppo spesso una solitudine corrosa dall’angoscia. Schumatsky racconta gli effetti soggettivi di questa vulnerabilità in un testo che affronta la vertigine della disperazione e il limite della follia. Come non sentirsi soffocare in un mondo in cui gli argini della memoria sembrano cedere sotto la spinta di un’ondata d’odio espressa con piena e tranquilla coscienza?