Le azioni e le logiche seguite dal governo israeliano a Gaza, che mettono a rischio la sorte dei gazawi e anche il futuro politico del popolo palestinese, impongono una condanna ferma e inequivocabile. Così come ferma e inequivocabile deve restare la condanna del massacro operato da Hamas il 7 ottobre. E il preoccupante aumento degli atti antisemiti tanto in Europa quanto negli Stati Uniti impone una condanna almeno altrettanto ferma e inequivocabile. Come scriviamo nell’editoriale che apre l’edizione francese di K. la revue, è innegabile che quanto sta succedendo in Medio Oriente ha regalato all’antisemitismo latente l’occasione per uscire allo scoperto. E allo stesso tempo non è possibile esimersi dal qualificare quanto sta avvenendo come una violazione del diritto internazionale. C’è però un aspetto problematico: alcuni attori sin dall’inizio del conflitto impiegano il termine “genocidio”, che oramai monopolizza il discorso pubblico. Impossibile non chiedersi perché il valore di un discorso, per quanto critico, debba essere valutato in funzione dell’uso di questo termine. Perché l’ingiunzione a dire “genocidio”, pena il sospetto di non volersi esprimere o addirittura l’accusa di voler tacere? Chiarire questo nodo è essenziale per restituire piena legittimità alle voci che devono potersi opporre alla politica israeliana, nel nome della ricerca di una reale via d’uscita dal conflitto. È anche per questo che abbiamo ritenuto opportuno pubblicare il testo di Matthew Bolton intitolato “Cosa significa genocidio”. La sua analisi mira innanzitutto a preservare la possibilità di un giudizio lucido, orientato verso una soluzione politica del conflitto. È una riflessione su quanto l’equazione Israele = genocidio veicoli un’ideologia che mira a negare l’esistenza stessa dello Stato ebraico fin dalla sua fondazione, più che a contrastare le politiche del suo governo attuale. Scrive Bolton: “Esigere l’accettazione di questo termine, insistere sul fatto che nessun altro mezzo è accettabile per opporsi alla guerra equivale ad abbandonare il terreno aperto della storia e della politica in favore di (…) una logica inesorabile. Esigere che Israele sia ritenuto responsabile non per le sue azioni, per i suoi leader o per la traiettoria politica che ha portato al potere un’estrema destra disinibita, ma per la sua stessa essenza, per la sua stessa esistenza. (…) L’assolutismo di questa posizione, ironicamente, non riflette altro che quello dell’estrema destra sionista, per la quale nessuna azione israeliana è ingiustificabile e nessuna rivendicazione palestinese merita considerazione”.
Inoltre, nelle edizioni internazionali:
Per rendere omaggio allo storico Pierre Nora pubblichiamo un testo di Danny Trom che mette a confronto il progetto dei Lieux de mémoire (Luoghi della memoria) di Nora con lo Zakhor di Yerushalmi. Dal confronto tra due approcci divergenti ma entrambi fondamentali alla questione della memoria emerge una riflessione sulla specificità della coscienza storica ebraica e sul suo rapporto con il ricordo. Che cosa significa ricordare, quando l’ideale repubblicano vacilla? A seguire Jérémie Haddad propone di vedere nella fine del franco-giudaismo concistoriale e assimilazionista la fonte della vitalità spirituale e intellettuale dell’ebraismo francese. Una lezione anche per il resto dell’ebraismo europeo: acquisire coscienza della propria precarietà non significa forse essere più attrezzati per affrontare le sfide del presente?