27 / Editoriale

Nelle pieghe di un dibattito ormai logoro, l’intervento di Gadi Luzzatto Voghera arriva come un necessario tentativo di riallineare le parole alla realtà. Il Novecento ci ha lasciato in eredità il termine antisemitismo, una parola che oggi sembra non bastare più: non perché sia meno vera, ma perché fatica a contenere la metamorfosi del vecchio odio, che nel XXI secolo assume forme nuove, spesso più rapide e più sfuggenti del pensiero. Proporre di usare un altro termine – Luzzatto Voghera propone “J-Hate” – è riconoscere che le categorie ereditate rischiano di alimentare l’incomprensione e che un linguaggio inadeguato finisce per oscurare ciò che dovrebbe illuminare. Lo aveva ricordato Serena Di Nepi su queste pagine: l’Italia continua a oscillare tra rimozione e paternalismo, incapace di fare i conti con il proprio rapporto con gli ebrei, mentre la politica nazionale preferisce i riflessi condizionati a una visione chiara. E la difficoltà non riguarda solo il paese. Anche le istituzioni ebraiche italiane, spesso prigioniere di automatismi difensivi e di un lessico che non si rinnova, faticano a leggere il presente con la lucidità necessaria. Il risultato è un coro dissonante in cui nessuna voce riesce davvero a riportare il discorso su un terreno condiviso. Senza un linguaggio adeguato non si comprende il reale e, senza comprensione, ogni frattura rischia di diventare irreparabile.

L’attualità recente è stata segnata da intensi dibattiti sulla libertà accademica. La revoca dell’invito a Eva Illouz all’Università di Rotterdam e l’annullamento del convegno «La Palestina e l’Europa» al Collège de France hanno dato luogo a discussioni spesso viziate da una concezione eccessivamente formale della libertà accademica. Nel tentativo di proteggersi dalle “pressioni politiche” – inevitabili, una volta riconosciuta la specificità delle scienze sociali – si è cercato rifugio in un’idea di indipendenza svuotata di contenuto. La questione dell’assunzione, da parte dell’università, della propria libertà e delle norme che essa si dà e deve far rispettare è così finita in secondo piano. Poiché è un limite serio ci è sembrato opportuno mostrare come sia proprio nel confronto su queste norme, in quanto intrecciate con questioni politiche, che si misura la libertà accademica. Pubblichiamo perciò questa settimana la critica formulata da Eva Illouz all’ultimo libro di Omer Bartov, Genocide, the Holocaust, and Israel-Palestine: First Person History in Times of Crisis. La controversia riguarda, in questo caso, i limiti che le norme accademiche impongono al confronto fra memorie.

Dopo il testo di André Markowicz che abbiamo pubblicato la settimana scorsa sul concerto dell’Orchestra Filarmonica di Israele alla Philharmonie de Paris, abbiamo ricevuto la testimonianza di uno spettatore presente in sala. È il racconto personale di qualcuno che si è ritrovato, quasi per caso, a partecipare a un concerto sinfonico dei più insoliti. Al piacere di leggere un’esperienza ben narrata si aggiunge una riflessione attenta su ciò che l’Orchestra di Israele aveva scelto di programmare quella sera. Beethoven e Čajkovskij, la crisi degli imperi e il dubbio degli artisti: anche questo, per alcuni, andava messo a tacere.

Nelle pieghe di un dibattito ormai logorato dal peso delle sue stesse parole, l’intervento di Gadi Luzzatto Voghera arriva come un tentativo necessario di riallineare lessico e realtà. Se il Novecento ha consegnato alla coscienza collettiva il termine antisemitismo – oggi incapace di restituire la complessità e le metamorfosi dell’odio antiebraico – il presente richiede un nuovo vocabolario. Nel proporre di usare un altro termine – Gadi Luzzatto Voghera propone “J-Hate” – Luzzatto Voghera non compie un atto di rottura ma di responsabilità: riconoscere che le categorie ereditate non bastano più e che solo un linguaggio rinnovato può evitare che l’incomprensione generazionale, politica e culturale diventi una frattura irreparabile.