In Italia, la memoria della Shoah corre su binari tortuosi, tra cerimonie obbligate, percorsi scolastici non uniformi e discorsi politici spesso mal calibrati. Una recente apparizione pubblica della ministra Eugenia Roccella ha suscitato forti perplessità, come riportato anche da Le Monde. Le sue parole, che hanno minimizzato l’esperienza dei Viaggi della Memoria e la continuità dell’antisemitismo, sono state contestate tra gli altri dalla senatrice a vita Liliana Segre. Quanto accaduto ha mostrato con chiarezza quanto fragile sia il rapporto tra commemorazione e politica e quanto spesso il compito di custodire la memoria ricada sulle spalle degli ebrei, mentre la società maggioritaria può permettersi di voltare lo sguardo.
Serena Di Nepi prende un’altra via: nel suo testo la storica della Diaspora racconta perché non ha mai partecipato a un Viaggio della Memoria, intrecciando esperienza personale e riflessione storica e mostrando quanto la memoria ebraica sia viva e vitale anche lontano dai riflettori. Un ragionamento che evidenzia le tensioni tra memoria pubblica e memoria familiare e tra liturgia civile e storia vissuta, mettendo a fuoco un nodo più ampio: il modo in cui le società maggioritarie interpretano, filtrano e spesso banalizzano la Shoah, mentre la storia degli ebrei continua a insegnare che sopravvivere e raccontare sono atti allo stesso tempo politici e morali insieme.
Le scene di giubilo che hanno avuto luogo la settimana scorsa alla Knesset, in occasione dell’accordo di cessate il fuoco e della liberazione degli ostaggi hanno lasciato uno strano retrogusto: quello di vedere un popolo diventato sovrano mostrare tanta deferenza nei confronti di un “sovrano” straniero venuto a salvarlo, per di più nella figura inquietante di Trump. La questione della fedeltà, quindi, mette in discussione il senso della politica sionista e più in generale il percorso intrapreso da coloro che sognano una politica di potere: Netanyahu non sfidava forse la realtà del crescente isolamento di Israele proclamando il suo futuro di «super-Sparta», pochi giorni prima di incarnare davanti a Trump la posizione dell’«ebreo di corte»? Questa settimana Danny Trom si interroga, sulla base delle riflessioni di Hannah Arendt, su ciò che ha permesso a Israele di scongiurare finora questo destino di isolamento spartano sotto tutela, e su ciò che può quindi essere una risorsa per contrastare quanto intrapreso da Netanyahu. Ma, tra le righe del suo discorso, emerge una questione europea: Arendt riflette infatti nel contesto che ha visto lo Stato-nazione armato diventare criminale e delinearsi un nuovo modello di sovranità, quello di un riconoscimento orizzontale tra Stati limitati dal diritto, sia all’esterno che all’interno. Nello specchio dell’alternativa politica che Israele dovrà affrontare si riflette la crisi di un’Europa in cui stanno risorgendo i nazionalismi reazionari.
Orgoglio mal riposto e aver dimenticato le lezioni della storia: non è una definizione così sbagliata di ciò che ha permesso al partito “Diritto e Giustizia” (PiS) di governare la Polonia per quasi un decennio. Una coalizione centrista ha preso il potere alla fine del 2023 e il lavoro polacco sulla lotta contro l’antisemitismo e il rapporto con la Memoria della Shoah rimane in gran parte incompiuto. Nell’ambito della nostra serie di indagini in collaborazione con la DILCRAH, Paula Sawicka offre una lucida analisi di ciò che resta da fare in questo campo e delle iniziative che offrono qualche speranza.
La ricchezza e la complessità di ciò che significava appartenere alla nazione polacca per gli ebrei è testimoniata dal manifesto «Noi, ebrei polacchi…» del poeta Julian Tuwim, di cui pubblichiamo questa settimana la traduzione francese inedita di André Laks. Scritto nel 1944 da New York, mentre l’ebraismo polacco era travolto dalla Shoah, il manifesto offre una profonda riflessione sul significato dell’appartenenza quando non se ne fa innanzitutto motivo di orgoglio, e sulla forza politica e morale che ne può derivare.