# 22 / Editoriale: Liberazioni

La guerra è finita, finalmente. È con immenso sollievo e gioia che abbiamo accolto e celebrato le notizie della settimana appena trascorsa. Il periodo mortifero iniziato due anni fa e protrattosi fino a oggi è giunto al termine e questa conclusione ha, sotto molti aspetti, il senso di una liberazione. Liberazione degli ostaggi e liberazione della popolazione di Gaza dalla violenza dei bombardamenti israeliani. Il raggiungimento di questo risultato era urgente e troppo a lungo rimandato, qualcosa che aveva relegato tutto il resto in secondo piano. Ora che è stato raggiunto, in Medio Oriente si aprono nuovi orizzonti politici sia per i palestinesi che per le relazioni di Israele con i suoi vicini. Ovviamente è necessaria cautela, ma il semplice germe della possibilità è già motivo di gioia.

Per lo Stato di Israele questa liberazione è un’opportunità. È l’occasione, infatti, per tracciare la strada che questo Stato intende seguire in futuro, per riflettere sul senso della sua politica e per interrogarsi su dove essa si sia rivelata errata. Perché ciò che questa vicenda ha portato alla luce – ma che era già chiaro almeno dalla crisi politica che era stata scatenata dal progetto di riforma giudiziaria del governo Netanyahu – è l’ampiezza del disaccordo che esiste in Israele sul significato da dare al sionismo realizzato. Ci si aspetta che gli israeliani chiariscano il significato che ha oggi per loro l’esistenza dello Stato rifugio, tra una via democratica che dovrà assumersi le pesanti necessità della pacificazione e una via neomessianica che si inserirà nella tendenza generale, un allontanarsi dal diritto a favore della politica di potere. Non si vede come potrebbero evitare di confrontarsi con questa alternativa. L’aspirazione democratica israeliana è forte e tenace – come hanno dimostrato ancora una volta i segnali recenti– e merita la fiducia e il sostegno degli ebrei della Diaspora. Resta comunque il fatto che saranno gli israeliani a dover decidere del proprio futuro.

C’è forse un ultimo motivo, più oscuro e meno confessabile, per il sollievo che abbiamo provato questa settimana, perché il 7 ottobre 2023 ogni ebreo ha sentito riattivarsi un principio di solidarietà particolare, forgiato nell’esilio, secondo il quale in una sola vita minacciata, ridotta alla sua più pura spoliazione, si gioca interamente la sopravvivenza del popolo tutto.

Quel giorno, in cui lo Stato che incarna più fortemente questo principio ha vacillato, e poi ogni giorno in cui si è perpetuata la detenzione degli ostaggi, gli ebrei sono stati sollecitati dal proprio senso di solidarietà. Ora la minaccia diretta che incombeva sull’esistenza di Israele si è allontanata e gli ultimi ostaggi vivi sono stati liberati, la chiamata si sta quindi affievolendo. Certo il principio di solidarietà persiste, sempre pronto a essere riattivato, e l’intero popolo, disperso, vive oggi nella gioia l’esperienza emozionante della sua unità. Ma domani? Il domani è carico di minacce e di sfide: tra qui e laggiù alcune sicuramente si fanno eco, ma si percepisce chiaramente che non può esistere una prospettiva che le affronti in modo unificato.

Forse allora gli ebrei d’Europa, almeno quelli che attribuiscono ancora un significato a questa denominazione, hanno il diritto di sentirsi sollevati dalla necessità di stare in due posti contemporaneamente. Ma il sollievo, di qualsiasi tipo esso sia, non può essere un rilassamento perché ciò che i fatti hanno rivelato, della crisi dell’Europa, che in questo caso si esprime attraverso il ritorno dell’antisemitismo – che paradossalmente ha trovato un motore nella sua negazione –, è che la condizione diasporica è diventata più critica di quanto non lo sia stata da molto tempo. Queste coordinate post-7 ottobre continueranno sicuramente a svilupparsi. Tuttavia, in ciò che è appena successo laggiù quello che ora ci si può aspettare è un chiarimento e un decantare della situazione, qui, e quindi una messa in evidenza delle vere divisioni. 

Noi di K., la rivista siamo più che mai consapevoli di ciò che il futuro europeo degli ebrei richiede loro.

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Nel numero di questa settimana presentiamo un’analisi che va oltre l’attualità più immediata di cui abbiamo parlato sopra. Lo storico Jacques Ehrenfreund, rifacendosi alle parole di Yitzhak Baer nel 1936 e di Marc Bloch nel 1940, mobilita la storia come «conoscenza pratica» per cogliere ciò che «non si è mai presentato prima d’ora». La sua analisi mette in luce la fine di un’epoca, quella che si era aperta dopo la Shoah e durante la quale «l’odio verso gli ebrei, che prima era strutturante, era diventato improvvisamente inaccettabile». Il 7 ottobre 2023 segna, secondo lui, la fine di questa parentesi protettiva. L’esistenza ebraica, sia in Israele che nella Diaspora, si trova nuovamente confrontata con la prova di un’ostilità che la storia europea sembrava aver definitivamente eliminato. Lo storico analizza in particolare come una lettura postcoloniale del massacro abbia immediatamente «reso invisibile» la sua dimensione antisemita, contribuendo a un’operazione di «desingolarizzazione» della Shoah volta a «far saltare» quel «blocco di protezione di Israele» che costituisce ancora, nell’opinione occidentale, il ricordo del genocidio.

Un raro testo del 1973, rimasto a lungo nell’ombra e che pubblichiamo integralmente, anticipava già alcuni elementi di questa constatazione: quello dell’arringa che Robert Badinter pronunciò durante il processo intentato dalla LICA (l’attuale LICRA) contro il bollettino «URSS», una pubblicazione dell’ambasciata sovietica a Parigi. Criticando aspramente l’antisionismo di Stato promosso allora da Mosca, l’avvocato cercava di dimostrare come la propaganda contro Israele «attingesse alle fonti dell’antisemitismo». Lo storico Emmanuel Debono introduce e contestualizza l’argomentazione di Badinter, chiarendone tutta la portata contemporanea.

Infine pubblichiamo in questo numero il primo capitolo del romanzo di Peretz Markish Une génération passe, une génération vient (Dor oys dor ayn), capolavoro della letteratura yiddish, inedito fino ad ora in francese e appena tradotto da Rachel Ertel. Les Éditions de l’Antilope pubblica contemporaneamente una selezione delle sue poesie tradotte e raccolte da Batia Baum con il titolo Le Tas (Di Kupe). Questa doppia pubblicazione rende giustizia a un’opera allo stesso tempo brillante e tragica, in cui la lingua yiddish raggiunge un’intensità visionaria nel cuore del XX secolo. Peretz Markish, poeta e romanziere europeo, si era unito al partito comunista in URSS ed era membro del Comitato antifascista ebraico prima di essere giustiziato per ordine di Stalin.

Il massacro del 7 ottobre 2023 ha provocato un terremoto la cui onda d’urto non ha smesso di attraversare il mondo ebraico. In Israele ha riattivato lo spettro del pogrom che lo Stato doveva rendere impossibile; nella diaspora ha rivelato la fragilità di una sicurezza che si riteneva acquisita. In una conferenza tenuta a Berna il 9 ottobre, lo storico Jacques Ehrenfreund interroga ciò che questo evento dice del nostro tempo: la fine del dopo-Shoah, la dissoluzione dei punti di riferimento morali europei, e la persistenza di un’ostilità che la storia sembrava aver squalificato.