# 21 / Editoriale

Ieri, erano passati due anni. Da cosa? Da un massacro che certamente si è verificato là, in Israele, ma che coinvolge anche noi che siamo qui, in Europa. Tuttavia non è più così chiaro cosa siamo, noi europei. Ciò che è accaduto il 7 ottobre rimane in qualche modo nebuloso perché il “noi” europeo che vi è stato coinvolto si è immediatamente diviso su ciò che aveva appena vissuto collettivamente. Questa divisione radicale è stata testimoniata ancora una volta dalle commemorazioni e dalle manifestazioni che si sono svolte ieri in tutta Europa. Il 7 ottobre è stato un nuovo episodio di terrorismo islamista o l’inizio della distruzione di Gaza? Abbiamo assistito a un episodio della lotta di liberazione del popolo palestinese o al più grande massacro antisemita avvenuto dopo la Shoah, qui immediatamente seguito da una recrudescenza dell’odio verso gli ebrei? L’Europa esita, e in questa esitazione mette in gioco ciò che è e ciò che sarà il futuro della sua politica. Da due anni K. si sforza di ragionare sul 7 ottobre come evento europeo, ma anche su ciò che le sue conseguenze hanno rivelato dell’evoluzione di Israele e dei suoi rapporti con la diaspora e con la comunità internazionale. Per tutto il mese di ottobre K. tornerà su questi temi proponendo una serie di approfondimenti. Il filosofo Bruno Karsenti apre questo ciclo incentrato sulla lancinante questione della memoria – e quindi sulla possibilità che qualcosa si sia chiuso. La sua diagnosi prende atto del fatto che, se il 7 ottobre ha rivelato l’instabilità e la divisione della coscienza europea post-Shoah, il conflitto politico delle interpretazioni si sta stabilizzando.

Siamo ancora nel dopo? Come orientarci in ciò che verrà? Cosa richiede il passaggio dal trauma al ricordo? Innanzitutto, e senza dubbio, la possibilità di integrare in una storia – sempre al crocevia tra il personale e il collettivo – ciò che è accaduto: l’esperienza traumatica deve poter essere raccontata. Ma un racconto, ricordano le psicologhe Miri Bar-Halpern e Jaclyn Wolfman, è efficace solo se può essere raccontato a qualcuno che lo ascolta e lo prende in considerazione. Tuttavia nel contesto del dopo 7 ottobre e dei suoi conflitti interpretativi questa possibilità è crudelmente mancata a molti ebrei della diaspora. Proponendo il concetto di “invalidazione traumatica” in un articolo scientifico che ha avuto una risonanza sorprendente, Bar-Halpern e Wolfman danno voce a questa dimensione contemporanea dell’esperienza traumatica ebraica e ci illuminano sugli effetti psicologici di quella che sembra una vera e propria negazione dell’empatia. Il loro importante lavoro ci viene presentato dalla psicologa clinica Céline Masson.

L’Europa non è ovviamente l’unica ad essersi frammentata all’indomani del 7 ottobre, e la capacità di essere empatici è una sfida anche per chi ha vissuto il trauma in prima persona. In un breve racconto tratto dalla sua esperienza quotidiana in Israele, lo scrittore Etgar Keret sottolinea che gli israeliani non si capiscono più tra loro, al punto che dovrebbero inventare una nuova lingua per poter ristabilire la comunicazione. Tuttavia, sembra sorgere una domanda difficile: come trovare spazio per il trauma dei palestinesi?

Il 7 ottobre non ha soltanto riaperto la ferita del conflitto israelo-palestinese: ha fatto riemergere una frattura sotterranea nella coscienza occidentale, e in modo particolare europea. Ha messo a nudo il legame fra la storia del Vicino Oriente e quella del continente che ne osserva le esplosioni. Perché il 7 ottobre non è stato soltanto importato nei dibattiti europei: vi si è riflesso, rivelando la crisi interna di un’Europa incerta del suo retaggio post-Shoah e postcoloniale, e ormai divisa tra tre narrazioni inconciliabili ‒ l’occidentalista, l’anticoloniale e quella realmente europea. Al centro di questa frattura, una domanda ossessiva: che cosa resta dell’Europa, se non sa più riconoscere cosa significhi, qui come là, la resurrezione dell’antisemitismo?