# 2 / Editoriale

L’intervista allo storico americano Steven J. Zipperstein, autore di Pogrom. Kishinev and the Tilt of History (Liveright), ripercorre la storia di un massacro capace di condizionare profondamente l’immaginario e la coscienza ebraica contemporanea. L’idea dell’ebreo passivo e incapace di difendersi, nata proprio con i pogrom avvenuti nella Diaspora, è cancellata dall’immagine odierna del soldato israeliano. Il popolo ebraico passa dalla parte dell’aggressore ma Israele, stato democratico sovrano dotato di un esercito e di una posizione geopolitica rilevante, non può assomigliare in nulla alle comunità ebraiche dell’impero russo, indifese e vittime di violenze brutali.

L’utilizzo del termine pogrom, dunque, nonostante l’attacco del 7 ottobre abbia riaperto ferite storiche e rimesso in discussione quella percezione di sicurezza che era uno dei caposaldi dell’identità israeliana, richiama una narrativa emotiva potente, capace di influenzare la percezione sia di quello che è successo che della risposta che ne è seguita, modificandone la lettura politica e morale. L’intervista a Zipperstein mette anche in luce le radici storiche del movimento ebraico per l’autodifesa nato dopo i pogrom nonché le connessioni con un altro movimento di giustizia sociale – quello afroamericano contro il linciaggio – e invita a riconsiderare le differenze tra contesti storici, riconoscendo le molteplici sfaccettature di un conflitto che tocca le idee di identità, memoria e potere, senza ridurre le narrazioni a semplici contrapposizioni. Convintamente: gli approfondimenti accademici, antidoto importante alla superficialità delle analisi, riportano al centro del dibattito il valore del pensiero critico e lento, contro slogan e semplificazioni, e contro il rischio di ogni banalizzazione.

E inoltre, nelle edizioni internazionali:

Di fronte a un presente senza vie d’uscita rilanciare un’utopia apre a un nuovo sguardo. Uno scarto, la mossa del cavallo. 

Questa settimana ha scelto di dar voce a “Una terra per tutti – Due stati, una patria”. Ne scrivono Julia Christ, Bruno Karsenti e Danny Trom, che raccontano dell’incontro con Rula Hardal e Meron Rappaport. 

E Rappaport è stato intervistato da Elie Petit. Il macabro confronto tra antisionismo ed estrema destra ebraica che ci confina a fantasie di reciproco annientamento rende fondamentale dar voce a idee che permettono uno sguardo diverso. Per quanto utopica possa sembrare in questo momento l’idea di una confederazione di due Stati nazionali sovrani la prospettiva è formulata sulla base di una comprensione realistica del conflitto e delle sue problematiche di riconoscimento reciproco. Riconoscimento, innanzitutto, del fatto che un conflitto implica traumi e che è necessario ambedue le parti ne riconoscano l’esistenza. L’intuizione pragmatica che guida questa utopia è che proprio nel conflitto tra due legittime istanze nazionali può germinare la prospettiva di integrazione all’interno di uno spazio politico condiviso. 

A seguire, una voce dal passato: Milena Jesenská, una figura libera e incandescente troppo spesso ridotta a mera destinataria delle lettere di Kafka. Christine Lecerf le restituisce l’identità di donna impegnata, scrittrice e combattente della resistenza capace di comprendere la paura e darle un nome, e a volte di disarmarla come fece a Ravensbrück dove morì nel maggio del 1944.

In Pogrom. Kishinev and the Tilt of History pubblicato da Liveright nel 2018 e da poco uscito in francese per i tipi di Éditions Flammarion, Steven J. Zipperstein ripercorre la storia del massacro di Chișinău, una questione locale trasformatasi in un trauma globale che ha segnato la coscienza ebraica moderna. Non semplice storia di un episodio violento, il testo di Zipperstein racconta come un pogrom – ampiamente pubblicizzato, interpretato e anche mitizzato –  abbia condizionato la storia ebraica contemporanea. Il massacro di Chișinău ha spinto l’ascesa del sionismo, innescato una mobilitazione globale, e dopo aver ispirato letteratura e stampa si è trasformato in paradigma della vulnerabilità ebraica. Lo storico americano usa microstoria e analisi culturale, smontando ogni interpretazione semplicistica e mettendo in discussione la distorsione della memoria spiega come un singolo dramma ha cristallizzato le principali tensioni politiche, sociali e simboliche del XX secolo ebraico.