Lo scorso luglio, con l’intervista a Yehudah Mirsky abbiamo annunciato l’inizio di un nuovo percorso di approfondimento, incentrato sulle questioni legate al sionismo religioso e al messianismo. Più Israele si accanisce nella guerra a Gaza – e gli ultimi eventi hanno dimostrato ancora una volta che per il governo di Netanyahu l’eliminazione di Hamas ha la precedenza sui negoziati di pace – più tali questioni sono destinate a diventare decisive. Infatti il rifiuto di porre fine alla guerra permette di evitare una presa di posizione politica al prezzo di una temporalità in cui esiste solo il presente, sempre sull’orlo di un grande cambiamento. Netanyahu promette la «vittoria finale» per mascherare la sua indecisione, ma questa indecisione gioca a favore dei messianisti alimentando le loro fantasie, fino a consentirne talvolta la realizzazione…
Questa settimana lo sguardo sociologico di Perle Nicolle-Hasid e Sylvaine Bulle ci fa osservare come sono “nella realtà” i sogni dei messianisti e dove potrebbero portare se avessero mano libera nel portare verso la “redenzione”. Introducono anche un problema fondamentale: l’ambivalenza che caratterizza il rapporto messianico con lo Stato sionista nella sua forma moderna, al tempo stesso mezzo per realizzare il sogno e limite alla sua realizzazione.
Nel 2006 Amos Luzzatto scriveva per un convegno un’articolata riflessione sulla crisi mondiale allora in atto: era appena esplosa la cosiddetta seconda guerra del Libano e in quei giorni la svastica nazista veniva equiparata alla stella di Davide. L’antisemitismo diventava centrale nel determinare l’elaborazione di analisi politiche che prendevano a spunto la crisi mediorientale ma si estendevano su un piano globale. Un testo di una attualità sconcertante che proponiamo a poco più di cinque anni dalla scomparsa di Luzzatto, avvenuta il 9 settembre 2020, in cui si legge: «Per disgrazia umana le grandi crisi storiche quasi sempre generano scontri violenti, guerre o rivoluzioni. La nostra generazione ci si sta avviando a passi accelerati».
Quest’estate, il presidente Macron e il primo ministro Netanyahu si sono scambiati delle lettere. Cosa contenevano? Al di là delle cordialità e di tutta una serie di accuse e controaccuse, esse hanno offerto ai due capi di Stato l’occasione di affermare le proprie posizioni su due problemi reali che li riguardano più o meno direttamente: l’ascesa dell’antisemitismo in Europa e il futuro della questione palestinese. Tuttavia, come osserva Gérard Bensussan nel commento che ci propone su questo scambio epistolare, se ne esce pensierosi, se non addirittura confusi, perché sembra essere stato un dialogo tra sordi in cui nessuno degli interlocutori ha avuto a cuore di chiarire quale sia la realtà in questione. In fondo sembra quasi che nessuno dei due si preoccupi veramente né dell’antisemitismo né della Palestina.
Riproponiamo inoltre il testo di Danny Trom intitolato “Lamentazione e accanimento: Gaza senza fine”. Perché non se ne uscirà in altro modo: se il 7 ottobre ha dimostrato che anche i forti possono essere costretti al lamento, allora bisognerà fare spazio a questa realtà, piuttosto che lasciarla degenerare in un accanimento bellico senza quartiere.