# 11 / Editoriale: Gaza

Le uscite estive di K. sono dedicate, ogni settimana, a un dossier. Sono raccolte di testi organizzate attorno a un tema, scelto non per evadere l’attualità – che in questi giorni si impone in maniera opprimente – ma per interrogarla da un’altra angolazione. Senza promessa di sollievo, forse, ma con la volontà di fare spazio al pensiero. Il dossier di questa settimana – “Utopia / Distopia” – è dedicato ai progetti di risoluzione del conflitto israelo-palestinese e comprende anche quelli che possono sembrare più irragionevoli, proprio per tale motivo i più adatti a mettere in discussione le nostre certezze. Affinché l’utopia – o la distopia – abbia una forza politica è necessario che lo sguardo rivolto altrove costringa a tornare sul mondo che abitiamo. L’ideale, così come il terrore davanti alla immaginaria realizzazione dell’assoluto, ha senso solo se riesce a orientare il nostro agire nel reale. E la realtà a Gaza è impossibile da ignorare: la popolazione è minacciata da una carestia di cui sono responsabili le scelte del governo israeliano.

In questo contesto è possibile individuare all’interno del mondo ebraico tre posizioni. 

La prima è la negazione: non ci sarebbe alcuna carestia a Gaza. A coloro che rifiutano di vedere la realtà per difendere a tutti i costi lo Stato di Israele, indipendentemente dalla deviazione dall’ideale sionista testimoniata dalle politiche governative, va ricordato che nessun ideale si realizza senza lotta e che nessuna lotta può essere condotta con gli occhi bendati. 

La seconda ammette che c’è una carestia e la approva: consegnare gli abitanti di Gaza alla fame potrebbe spingerli a fuggire o a rivoltarsi contro Hamas, anche a costo di causare la morte di migliaia di civili. Questa posizione esiste, è stata formulata, viene diffusa e difesa: l’abbiamo sentita nei programmi televisivi israeliani e a volte, con parole più o meno velate, anche intorno a noi. Chi la pensa in questo modo può anche dirsi sionista, o difensore di Israele ma, al di là delle etichette che rivendica, contribuisce a distruggerne le fondamenta. Perché, nelle loro mani, quei segni diventano altro e sono il linguaggio di un nazionalismo brutale e disposto a sacrificare tutto sull’altare della forza, dalla vita dei civili palestinesi alla dignità del popolo ebraico.

Quasi due anni di guerra a Gaza hanno mostrato dove può portare la rinuncia a ogni principio: da nessuna parte. Anzi, peggio: contro un muro.

La terza posizione, che è quella di K., è un’altra. Affamare una popolazione è inaccettabile. È un crimine. Un crimine che il diritto internazionale – nella misura in cui si attiene a fatti accertati e resiste alle pressioni antisioniste che durano da anni – ha il compito di riconoscere come tale, e dunque di sanzionare. Una condanna è quindi ciò che si impone, al di sopra di ogni altra considerazione. Nasce da un’esigenza politico-morale elementare. Talmente elementare che persino gli antisionisti la condividono. È spiacevole, ma non per questo meno giusto né meno urgente e imperativo. 

Pronunciare questa condanna impone anche di chiarire il contesto in cui si colloca.
Ciò che dà coerenza alla posizione di K. è l’affermazione secondo cui i valori democratici – così come si sono definiti all’indomani della Shoah – in particolare il rispetto per la dignità della vita umana e la tutela dei diritti delle minoranze – sono parte costitutiva del sionismo. Senza di essi, il sionismo è destinato ad autodistruggersi. Non si tratta di un auspicio né di una lettura idealizzata. È una linea politica. Una linea che oggi più che mai va affermata, e difesa. La realizzazione statale del sionismo ha comportato la perdita dell’innocenza e da allora, Israele è responsabile del proprio potere. Oggi questa responsabilità implica garantire agli abitanti di Gaza l’accesso al cibo e a ciò che è necessario alla sopravvivenza. Israele controlla gli accessi a Gaza e in quanto forza militare dominante sul territorio è responsabile della sicurezza della popolazione che vi risiede. Il fatto che Hamas distolga o strumentalizzi gli aiuti umanitari non annulla questo obbligo. Anzi. Se si tiene conto che Hamas trae vantaggio dalla catastrofe umanitaria e dalla sua eco nell’opinione pubblica mondiale, allora l’obbligo morale e politico si fa ancora più pressante. La constatazione è semplice, e conduce a una posizione altrettanto netta: carestia e morte dei civili non restituiranno gli ostaggi, non annienteranno Hamas e non possono gettare le basi di un futuro possibile. Solo un’iniziativa politica può farlo. È la cosa più difficile, ma anche la più importante, per ciascuno dei protagonisti di questa tragedia. Ed è, oggi, una scelta più necessaria che mai, ben più importante e urgente delle dichiarazioni simboliche che, da fuori, pretendono di sostituirla.

Resta un’altra considerazione, che qui possiamo solo abbozzare. Richiede un distacco che nell’immediatezza degli eventi e dello sgomento che continuano a suscitare ci è ancora precluso. Cosa ne sarà dell’esperienza ebraica moderna nel suo doppio radicamento – diasporico e israeliano – se il sionismo realizzato finisce per negare se stesso? A quale riconfigurazione complessiva dell’esperienza ebraica stiamo assistendo? O più precisamente: quale trasformazione stiamo per subire, colpiti su due fronti? Da una parte vediamo una politica condotta in nome del popolo ebraico ma ormai deragliata e dall’altra, in Occidente, una deriva parallela si aggrappa alla denuncia dei crimini commessi dallo Stato ebraico per riattivare, con piena buona coscienza, forme rinnovate di antisemitismo. Camminiamo oggi sul filo del rasoio, sospesi su un precipizio e senza un orizzonte chiaro davanti a noi. La funzione di K. deve essere proprio aprire uno spazio in cui l’esperienza ebraica moderna possa continuare a proiettarsi senza tradire se stessa.

Resta un’altra considerazione, che qui possiamo solo accennare poiché presuppone una distanza che non siamo ancora in grado di tenere rispetto al corso degli eventi e all’orrore che ci suscitano in questo momento. Che ne sarà dell’esperienza ebraica moderna post-Shoah, con il suo doppio sostegno diasporico e israeliano, in condizioni in cui il sionismo realizzato finisce per negare se stesso? A quale ricomposizione complessiva dell’esperienza ebraica stiamo assistendo? O meglio: quale riconfigurazione stiamo per subire, sotto il doppio colpo di una politica condotta a beneficio del popolo ebraico ma chiaramente fuori dai binari, e, in Occidente, di una deviazione parallela che si precipita sull’attestazione dei crimini commessi dallo Stato degli ebrei per ravvivare in tutta coscienza l’antisemitismo? In questo momento ci troviamo su questo crinale, senza un orizzonte realmente visibile. Il compito di K. deve essere quello di delinearne uno, dove l’esperienza ebraica moderna possa continuare a proiettarsi senza tradirsi.

I testi che pubblichiamo questa settimana testimoniano una viva consapevolezza della via politica, che è l’unica praticabile. Dal lato dell’utopia che suggerisce una via d’uscita dall’attuale disperazione, vi invitiamo a rileggere la nostra presentazione del progetto «A land for all» e l’intervista al suo cofondatore Meron Rapoport. Sul versante della distopia, che getta una luce cruda sulle impasse del presente, ripubblichiamo il testo di Noémie Issan-Benchimol sulla serie israeliana di successo Autonomies, che immagina Israele diviso in due campi inconciliabili. Restano poi i progetti abbastanza stravaganti da non sapere dove collocarli, ma che non per questo emanano un fascino minore: è il caso del romanzo storico di Guy Konopnicki o del movimento dell’artista israeliano Ronen Eidelman, che immaginano entrambi la creazione di uno Stato ebraico in Europa, a Vienna o a Weimar.

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Oltre agli articoli del dossier Utopia / Distopia pubblichiamo un  ricordo del filosofo François-David Sebbah, scomparso il 25 luglio. Si tratta di un testo di Gérard Bensussan, intitolato Kaddish per François.

François-David Sebbah, professore all’Università di Nanterre, è stato una delle voci più originali della filosofia francese ispirata a Levinas e Derrida. Negli ultimi mesi della sua vita, indebolito dalla malattia che lo aveva colpito e che sapeva di non poter sconfiggere, si era dedicato alla stesura di un testo biografico di grande intensità, in cui le grandi opere che aveva letto e interpretato incessantemente nel corso della sua carriera erano messe al servizio di una riflessione al tempo stesso personale e storica sull’identità ebraica post-Crémieux: la sua, quella di suo padre e dei suoi nonni. Il fatto che sia riuscito a portare a termine questo libro è una vittoria che dobbiamo soprattutto al suo coraggio. La pubblicazione è prevista per l’autunno dalle edizioni Manucius.

François-David Sebbah

In suo ricordo ne pubblichiamo alcune pagine apparse su K. il 14 maggio, insieme a un testo del filosofo Gérard Bensussan, intitolato Kaddish per François.