Il 7 ottobre non ha soltanto riaperto la ferita del conflitto israelo-palestinese: ha fatto riemergere una frattura sotterranea nella coscienza occidentale, e in modo particolare europea. Ha messo a nudo il legame fra la storia del Vicino Oriente e quella del continente che ne osserva le esplosioni. Perché il 7 ottobre non è stato soltanto importato nei dibattiti europei: vi si è riflesso, rivelando la crisi interna di un’Europa incerta del suo retaggio post-Shoah e postcoloniale, e ormai divisa tra tre narrazioni inconciliabili ‒ l’occidentalista, l’anticoloniale e quella realmente europea. Al centro di questa frattura, una domanda ossessiva: che cosa resta dell’Europa, se non sa più riconoscere cosa significhi, qui come là, la resurrezione dell’antisemitismo?

Il 7 ottobre è evidentemente un evento cruciale nella storia del conflitto israelo-palestinese. Ma da subito è stato anche altro: un sisma nella coscienza occidentale. Più precisamente, è stato anche un evento europeo, con l’Europa che in quel momento ha assunto una posizione simbolicamente centrale – che non significa dominante – in ciò che chiamiamo Occidente.
È stato europeo in due sensi. Innanzitutto come conflitto importato, cosa che non è nuova: alcuni movimenti politici e sociali hanno subito usato quell’evento per alimentare lotte ideologiche le cui questioni sono in realtà interne, estranee al conflitto israelo-palestinese. Tuttavia, con il 7 ottobre quella dinamica abituale, che indubbiamente si è ripetuta, è stata sovradeterminata da un’altra dinamica, relativamente nuova e più profonda. Per trovare un parallelo bisogna risalire al 1967 e al 1973, alle guerre dei Sei Giorni e del Kippur. Il contesto geopolitico era certamente molto diverso, sia perché il mondo si trovava più vicino alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale e a ciò che si era dato come senso alla ricostruzione della politica europea, sia perché Israele, pur vittorioso in entrambe le occasioni dopo aver rischiato di scomparire, non aveva ancora acquisito la statura di potenza regionale che ha oggi. In quei momenti tuttavia emerse la questione di come le opinioni nazionali europee, che si manifestavano nelle dichiarazioni ufficiali dei capi di Stato o rimanevano diffuse tra le popolazioni, si rapportassero all’esistenza di Israele, e a ciò che tale esistenza rappresenta per il popolo ebraico come popolo disperso e integrato in quegli Stati sotto forma di minoranza nazionale. È ciò che si è nuovamente ripetuto ‒ ancora una volta in un contesto evidentemente distinto ‒ a partire dal 7 ottobre.
Con il 7 ottobre si è dunque assistito a un riflesso più che a un’importazione. Nei fatti accaduti la coscienza europea è stata largamente coinvolta perché ha riconosciuto subito qualcosa che la riguardava in modo oggettivo e che riguardava la sua storia da oltre settantacinque anni. C’era un elemento di verità nel 7 ottobre, ed è per questo che la reazione generale è stata di stordimento. I massacri evocavano non solo un nuovo episodio sanguinoso del conflitto mediorientale ‒ uno dei più lunghi della storia contemporanea, come si ama ricordare ‒ ma anche un aspetto della situazione storica in cui ci troviamo, purché si riconosca che tale situazione resta intellegibile all’interno delle coordinate ereditate dai post-1945. Va notato che è possibile queste coordinate non siano più operative, che l’eredità si sia affievolita, che l’intelligibilità non abbia più valore. Proprio su questa ipotesi l’evento ci ha costretti a confrontarci. Perché anche in quel caso resta da descrivere la fase di transizione in cui ci troveremmo. Anche questo, soprattutto questo, il 7 ottobre ‒ comprese le sue conseguenze ‒ ci obbliga a pensare.
Riflesso, dunque, non importazione. Poiché il riflesso ammette distorsioni, poiché ciò che si vede è visto solo da una certa prospettiva, la coscienza pur presa unanimemente si è anche lacerata su questo punto di verità. Il 7 ottobre importa, lo riconoscono tutti. Ma in che senso importa? Il dissenso si è manifestato su ogni piano: riguardo ai crimini commessi in quel giorno e alle loro motivazioni; riguardo alla linea politica e storica in cui si inseriscono; e riguardo a ciò che il 7 ottobre ha effettivamente avviato: la guerra a Gaza e i crimini di cui essa è a sua volta divenuta teatro. Finora l’evento non ha un senso stabile sotto alcun aspetto: né nella lettura delle condizioni che ne hanno preceduto e consentito il sorgere, né nella caratterizzazione degli atti che lo compongono, né nella sequenza bellica che da allora si è aperta.
I racconti intorno al 7 ottobre sono stati insieme narrazioni del conflitto israelo-palestinese e riprese del racconto di sé, assumendo che l’Europa non è mai stata estranea a ciò che accadeva laggiù.
Ripercorrendo i due anni trascorsi, parlerò di come la guerra a Gaza si sia “agganciata”, ma anche “sganciata” rispetto al 7 ottobre. Per ora mi limito al 7 ottobre stesso e alla polarizzazione che ha provocato. Da un’unica esperienza sono emerse linee divergenti. Certo non sono nate dal nulla: le loro premesse esistevano già. Però prima si scontravano solo superficialmente, potevano restare nel non detto, ignorarsi a vicenda o persino concordare su questioni periferiche. La prova ha restituito tutto questo al passato. Siamo entrati in un’altra fase del dibattito politico in Europa, molto più frammentata. Ci si chiede allora: cosa conteneva il 7 ottobre da avere tale potere di convocazione unanime e di divisione radicale?
Non c’è altro modo di scoprirlo se non descrivere il conflitto delle interpretazioni e vedere come, a partire dagli stessi fatti e dallo stesso turbamento, si siano intessuti i racconti. Questi, sottolineiamolo, avevano due versanti: erano al tempo stesso narrazioni del conflitto israelo-palestinese e rispecchiamenti del racconto di sé, prendendo atto che l’Europa non è mai stata estranea a ciò che avveniva laggiù. Perché ciò che accadeva laggiù, da un lato riguardava la sorte dei rifugiati e dei sopravvissuti all’antisemitismo europeo presi nel lungo corso e precipitata a causa della Shoah; dall’altro si svolgeva sulle rovine del vecchio Impero Ottomano dove le potenze coloniali europee avevano esercitato il loro dominio, per poi acconsentire a processi di decolonizzazione in cui le lotte di liberazione nazionale erano in competizione.
Il conflitto delle interpretazioni
Si può affermare che il 7 ottobre è stato oggetto di tre letture distinte, sostenute da schieramenti politici diversi, e all’interno di questi da attori diversi (accademici, leader politici, militanti, attori vari che si distinguono per appartenenze, ceti sociali e fasce d’età): la lettura occidentalista pro-israeliana, quella antisionista postcoloniale, e quella più propriamente europea. Proverò a descriverle e a motivare queste denominazioni. Prima, però, è importante sottolineare che questi schieramenti si sono in gran parte formati in corrispondenza della nuova polarizzazione che si imponeva. Si sono composti in modo diverso rispetto alla forma precedente del dibattito politico. È anche per questo che la crisi è stata e resta così profonda. Nessuno dei poli che strutturano il dibattito ideologico è esattamente lo stesso dopo il 7 ottobre. Ognuno ha scoperto a quale flusso della coscienza storica si ricollega. Ognuno si è ricollocato sull’asse della grande storia europea, e si è girato a guardare sé stesso per constatare quali interessi e quali gruppi rappresenta, e a quale luce della situazione attuale conferisce credito.
La prima linea ha visto nel 7 ottobre l’attacco di un movimento palestinese islamista contro Israele e, per estensione, contro l’Occidente. Spontaneamente, l’evento è stato inserito nell’elenco dei crimini islamisti. È stato collegato ad avvenimenti come l’11 settembre o il Bataclan. Qui la posta in gioco è stata definita come “civilizzazionale”. Che un tale inquadramento incontrasse il favore delle opinioni reazionarie, propense a ristabilire divisioni tra spazi inegualmente civilizzati, alcuni dei quali giudicati arretrati e costringenti l’Occidente a difendersi, non sorprende affatto. Ma sarebbe un errore limitare l’interpretazione a questo posizionamento: la qualificazione di Hamas come movimento terroristico, il fatto che la sua azione si sia manifestata come un odio omicida che la categoria del terrorismo sintetizza effettivamente per l’insieme delle democrazie liberali, il fatto che abbia operato con il supporto e l’appoggio dell’Iran islamista, che è all’opposto di quel modello democratico — tutto ciò, volente o nolente, sostiene questa griglia interpretativa, su uno spettro politico che travalica il polo reazionario e include in larga misura il campo liberale e progressista. Quanto al collegamento tra il 7 ottobre e la guerra a Gaza, in questo caso assume questo aspetto: essendo la posta in gioco civilizzazionale, la tendenza è a tollerare le conseguenze per il popolo palestinese di Gaza, considerando prioritaria l’“eradicazione” delle forze che incarnano la volontà irredentista di distruzione.
La prima linea è dunque pro-israeliana in nome dei valori dell’Occidente (il che non significa che sia sionista), ed è l’ombra del 7 ottobre che determina per essa la percezione della guerra a Gaza.
La seconda linea è all’esatto opposto. Il 7 ottobre vi compare come un momento di un’altra storia, quella della lotta del popolo palestinese per l’autodeterminazione. In questo quadro, è il colonialismo occidentale che finisce sulla graticola attraverso Israele. Chiamiamola linea anticoloniale. Questa linea può non giustificare il modus operandi del 7 ottobre (a volte lo ha fatto, in casi estremi), può deplorare il dilagare della violenza su ogni individuo a portata di mano — uomo, donna, bambino, anziano — persino condannare la presa di ostaggi (fenomeno comunque menzionato molto più di rado), ma non per questo nega la legittimità della lotta, ricollocata nella sua finalità. “Free Palestine” è il suo motto, ornato con la sua invocazione alla libertà. Si appoggia sull’espurgazione del colonialismo su cui l’Europa post-’45 si è effettivamente allineata, non senza difficoltà. E la continua lotta anticoloniale che ritiene debba ancora essere perseguita in questa parte del mondo comporta lo smantellamento del potere che Israele esercita, innanzitutto sui territori occupati dal 1967, poi sulla minoranza palestinese che si ritiene oppressa dalla sua fondazione.
Un’osservazione su questa interpretazione: considera la guerra a Gaza come conferma della validità della propria interpretazione del 7 ottobre. Per questa prospettiva la guerra è la verità del 7 ottobre, con la sofferenza inflitta al popolo palestinese — che sia colta in nuce e in anticipo nei primissimi giorni dopo il massacro, oppure dispiegata nel tempo fino al presente. Il 7 ottobre trova il suo vero senso nel carattere criminale del sionismo ora visibile agli occhi del mondo; il nome dell’evento si dissolve nel compito di pensare la distruzione di Gaza.
Questa posizione ha sostenitori privilegiati alla sinistra dello spettro politico. Essa procede dalla sua tendenza antisionista e postcoloniale, autocritica del progetto europeo nella misura in cui esso sarebbe costitutivamente coloniale. In forma radicale essa iscrive il colonialismo al principio della costruzione dell’Europa nel lungo periodo, e sostiene che l’emancipazione cittadina nel quadro degli Stati-nazione abbia tratto la sua condizione paradossale da ciò. Riprende il terzomondismo degli anni Sessanta e Settanta, ma lo trasforma dando nuova estensione al concetto di colonialismo. Lo mobilita per generalizzare la critica delle pratiche discriminatorie persistenti, rinnovate talvolta, anche all’interno delle democrazie liberali (quanto più queste sono indebolite dalla crescita dei nazionalismi, e dunque del polo reazionario). In questo movimento, al fine di riscrivere la storia dell’Europa e criticare le ingiustizie attuali imputabili al suo interno come all’esterno, il caso d’Israele, nella sua politica presente come nella sua storia, diventa paradigmatico. Da cui il riflesso rispetto al 7 ottobre: dato che Israele incarnerebbe l’Europa criminale postcoloniale, l’attacco omicida del Hamas si riconduce alla lotta di liberazione.
La seconda linea, anticoloniale, inscrive il 7 ottobre nella storia della lotta del popolo palestinese per l’autodeterminazione, e vede la guerra a Gaza, con le sofferenze che reca al popolo palestinese, come la verità del 7 ottobre.
Tuttavia anche qui il campo dei sostenitori di questa posizione ha una “estensione”. E non è stata immediata. All’inizio liberalismo, progressismo e socialismo inclusi, erano divisi, colpiti dalla violenza dell’evento. Ma è certo che una parte di questo corso, pur senza cedere sulla giustificazione di Hamas, ha vacillato intorno all’argomento che il principale leader dell’estrema sinistra francese aveva saputo portare avanti immediatamente: quello della “contestualizzazione”. Contestualizzare il 7 ottobre significa inserirlo in una serie di altri fatti ritenuti pertinenti per coglierne il senso. Qui la serie attingerà agli atti che testimoniano il giogo che la politica israeliana non ha smesso di imporre sulla Striscia di Gaza. La politica reazionaria di Israele è cresciuta con l’accesso al potere della destra nazionalista, dal marzo 2023, con il suo comportamento realmente coloniale in Cisgiordania, così come con la guerra condotta a Gaza, cose che hanno fatto sì che l’antisionismo – ovvero la messa in discussione della legittimità stessa di Israele come Stato – abbia visto la sua eco aumentare sensibilmente e farsi strada in porzioni sempre maggiori dell’opinione pubblica.
Se la prima linea è perciò pro-israeliana in nome dei valori dell’Occidente (ciò non significa che sia sionista), la seconda ha come attrattore l’antisionismo. Quest’ultimo è più o meno radicalmente sostenuto, in un range di posizioni che vanno dal “Free Palestine” al richiamo discreto all’idea che Israele dovrebbe la sua esistenza solo a una concessione ONU, suggerendo che essa potrebbe eventualmente essere revocata – frase che, incidentalmente, è sfuggita al Presidente della Repubblica francese. Per la prima posizione è l’ombra del 7 ottobre che determina la percezione della guerra a Gaza. Per la seconda, la guerra a Gaza che venga considerata in linea teorica oppure valutandone lo svolgersi effettivo, relativizza il 7 ottobre oppure richiede che si ammetta il suo ruolo non è più così decisivo nella valutazione del presente.
Pour la seconde, la guerre à Gaza, envisagée par anticipation ou en évaluant son déroulement effectif, soit relativise le 7-octobre, soit exige qu’on admette qu’il n’a plus de rôle déterminant dans l’appréciation du présent.
La posizione europea, e gli ebrei
C’è infine una terza linea. Proviamo a descrivere anche questa prima di abbozzare un ritratto ideologico dei suoi propugnatori. Essa comincia fissando lo sguardo sul 7 ottobre stesso, restando vicino ai fatti che vi si sono verificati. I motivi espressi dagli assassini vengono considerati per quel che dicono (non si cede alla condiscendenza “criptocoloniale” che coglie la seconda linea di pensiero, per la quale «è così che si parla in quei luoghi»). Si tiene conto delle vittime prese di mira, così come del modo in cui sono state uccise, violentate, mutilate, catturate, torturate. Ci si trova allora davanti a questa realtà: il 7 ottobre c’è stato antisemitismo, ed esso ha preso la forma omicida di una passione esistenziale sterminatrice, cioè genocidaria.
Ritornando su se stessi, a distanza dal luogo dei crimini, là dove prevalgono le voci incrociate dei commenti, si percepisce che questo antisemitismo è talvolta nominato per quello che è, ma più spesso denunciato senza soffermarsi eludendo in particolare il suo carattere sterminatore; talvolta è negato del tutto e ridotto a una reazione anticoloniale, reputata l’unica decisiva. Parallelamente questa terza posizione prende atto della ondata impressionante di antisemitismo in Europa, che ha anch’essa causato vittime, come ancora pochi giorni fa a Manchester. Questo antisemitismo, è un fatto, passa per l’antisionismo e per la stigmatizzazione d’Israele come fatto coloniale da combattere. Si osserva in questo caso che ciò che accade qui ha una propria dinamica, documentata da tempo, e notevolmente accresciuta da quanto è accaduto là. Si scorge nel 7 ottobre una disinibizione, uno sfogo di parole e di atti dove sembra si sia sollevata una costrizione. L’odio verso gli ebrei si è manifestato lì, e si è come liberato qui, i due fenomeni essendo praticamente simultanei.
La serie in cui inserire il 7 ottobre sta nel passato delle violenze antiebraiche; ma è anche una serie più ristretta che ha visto in Europa nelle ultime due decadi la minoranza ebrea sempre più esposta a crimini che arrivano fino alla tortura, all’omicidio e all’esecuzione di bambini. Adottando un’angolatura ampia che inserisce l’evento nella storia di questa minoranza europea, questa posizione ha usato il termine pogrom, in riferimento al tipo specifico di violenza antiebraica registrata nel lungo periodo.
Questa definizione, corretta per descrivere i fatti nella loro materialità (stupri, omicidi indiscriminati, sfogo sui corpi, esaltazione degli assassini), poteva essere considerata abusiva se si considerava che il massacro è avvenuto in Israele, paese dove gli ebrei sono maggioranza, e quindi che la persecuzione da parte della popolazione maggioritaria contro una minoranza indifesa non si applica al caso. Ma questa posizione è stata superata per una ragione: l’effrazione del 7 ottobre è riuscita a neutralizzare la funzione costitutiva di Israele come Stato protettore degli ebrei e argine al pogrom, e gli ebrei israeliani sono stati ricondotti, durante quelle lunghe ore in cui gridavano aiuto, alla vulnerabilità di qualunque ebreo della diaspora, e a un tempo in cui Israele non esisteva.
La lettura europea scorge nel 7 ottobre una disinibizione, uno sfogo di parole e di atti dove appare come sollevata una costrizione. L’odio degli ebrei si è manifestato lì, e si è come liberato qui, due fenomeni praticamente simultanei.
È ciò che è apparso improvvisamente agli occhi degli ebrei del mondo intero. Ma si può dire che è anche ciò che è apparso agli occhi di tutti coloro, ebrei o non ebrei, che si sono ricordati della ragione per cui Israele esiste: la protezione di una minoranza strutturalmente minoritaria, che ha la peculiarità di mettere a nudo il fondo di vulnerabilità inerente a ogni condizione minoritaria: non essere mai assolutamente al sicuro, in qualunque Stato, democratico o meno, dalle persecuzioni esercitate dalla maggioranza (sia tramite movimenti sociali sia tramite politiche statali). Salvo, per gli ebrei, nello Stato che hanno creato per se stessi dopo la Shoah. Uno Stato che hanno fatto per loro, accessibile e mobilitabile se mai ce ne fosse bisogno da parte di qualche membro del loro popolo ovunque esso sia. Uno Stato dove, congiunturalmente, sono maggioranza, e per questo immuni per quanto possibile dalla violenza potenziale di qualunque maggioranza qualunque.
Eppure questo Stato ha fallito. Si è ravveduto nelle settimane seguenti esercitando la sua forza, certo, cioè innanzitutto ristabilendo nella misura del possibile la sicurezza della sua popolazione. Più precisamente, la popolazione si è coesa e mobilitata in modo salutare affinché ciò avvenisse. Ma non si è ravveduto ponendo il destino degli ostaggi in primo piano nella sua reazione, obiettivo in cui si concentra comunque la sua giustificazione storica di salvataggio e protezione di qualunque membro del popolo in difficoltà. E non si è ravveduto, e ha nuovamente fallito, conducendo una guerra in cui è diventato indistinguibile il fatto che esso fosse stato costruito per incarnare una politica democratica ed ebraica; il che significa una politica dedicata, tramite la sua missione di difesa degli ebrei e di accoglienza verso la loro venuta in tutti i casi in cui ritengano che la loro esistenza lo richieda, a incarnare una difesa esemplare dei diritti, e in primo luogo dei diritti delle minoranze. In altri termini, non è stato all’altezza della battaglia contro l’antisemitismo che dovrebbe suscitare la coscienza acuta dell’antisemitismo stesso del 7 ottobre.
Ma che questo Stato abbia fallito attraverso la politica attuale dei suoi governanti non intacca affatto il giudizio sul 7 ottobre e sul suo antisemitismo sterminatore – un altro modo di dire è “genocidario” – e la diagnosi che ne consegue sul conflitto ideologico in corso in Europa. Perché ciò che si è manifestato, già prima dello svolgimento della guerra a Gaza, era che il senso dell’esistenza di Israele come risoluzione di un problema europeo al di fuori dell’Europa — risoluzione che l’Europa stessa, nella autocritica cui si era arrivata, comprendeva e sosteneva — si fosse in realtà oscurato da molti anni. Ciò, non c’è voluto più di un giorno per vederlo. Insieme all’occultamento dell’antisemitismo del 7 ottobre, ciò che l’ha segnalato è l’inversione che si è prodotta nel momento stesso sul motivo del genocidio. Per i nuovi europei liberati o volontariamente dimentichi della loro coscienza post-Shoah, genocidario è ora Israele, in potenza e presto in atto. Non si comprende la focalizzazione su questa parola – e il fatto stupefacente che abbia fatto passare il crimine contro l’umanità quasi come veniale – se non la si rilegge a partire da questa inversione, e dunque se si trascura che la sua fonte primaria è nel rifiuto di vedere il 7 ottobre per quel che era.
Ciò che è in gioco è la ripresa dopo la Seconda Guerra mondiale delle politiche degli Stati europei, che si sono allineati su una coscienza sempre più acuta in termini di diritti delle minoranze, di lotta contro le persecuzioni e le discriminazioni, traendo insegnamento dalla storia incrociata dell’Europa e degli ebrei che si è conclusa con la Shoah.
Nessuno è neutrale nel conflitto ideologico che cerco di descrivere dopo due anni di guerra. Perciò devo precisare che parlo da questa terza posizione. Ma questo non mi esime dal cercare di caratterizzarla nel modo più oggettivo possibile, senza nasconderne le tensioni interne. Due domande si pongono preliminarmente. Bisogna qualificare questa posizione, semplicemente, come “sionista”? Si radica in una sensibilità ebraica, presupponendo l’adozione di un punto di vista ebraico sull’evento e sull’intera sequenza?
A queste due domande credo si debba rispondere chiaramente no. Credo ciò indipendentemente dal fatto che, personalmente, i due tratti menzionati in effetti mi corrispondano. Ma non ritengo di illudermi nel giudicare questo punto relativamente congiunturale???. La base della terza posizione è altra e, per quanto mi riguarda, mi definisce anch’essa.
I sostenitori della terza posizione, in fondo, non sono altro che un certo tipo di europei. Coloro che sono attaccati a un modo particolare di difendere le tendenze liberali e socialiste (progressiste in senso largo) alla base del progetto politico comune che si è rilanciato con nuovo vigore dopo il 1945. Il che, in questo caso, implica combattere su due fronti. Da un lato si oppone al conservatorismo crescente e alla riconfigurazione di questo progetto europeo in senso nazionalista, dove il tema dei “valori dell’Occidente”, sostenuto dalla minaccia reale rappresentata dall’islamismo ma ritradotto tuttavia in scontro di civiltà dove è l’islam come tale che diventa nemico – alimenta un movimento di retrazione, di chiusura delle nazioni su sé stesse e sulla loro identità maggioritaria resa assoluta. Dall’altro, resiste alla purga che subisce la nostra coscienza storica sotto i colpi dell’antisionismo, il cui focolaio espansivo si trova all’estrema sinistra, in quanto esso eleva l’imperativo del tutto fondato dell’autocritica postcoloniale a dissoluzione e rinnegamento puro e semplice della dimensione emancipatrice dell’Europa moderna.
Ciò che è in gioco è la ripresa post-bellica delle politiche degli Stati europei, che si sono allineati su una coscienza sempre più acuta in termini di diritto delle minoranze, di lotta contro le persecuzioni e le discriminazioni, traendo insegnamento dalla storia incrociata dell’Europa e degli ebrei che si è conclusa con la Shoah. Sui due fronti che si sono descritti – tanto sul primo, di fronte al nazionalismo reazionario, che sul secondo, davanti all’antisionismo progressista – la terza posizione difende questa tradizione; essa ricorda che ciò la spingeva al riconoscimento pieno e intero del diritto d’Israele a esistere sotto la forma di uno Stato di diritto democratico e di una costruzione dedicata alla protezione degli ebrei (tutto ciò che vuol dire “democratico ed ebraico”), popolo su cui si concentra la vulnerabilità minoritaria allo stato puro, quella che, qualunque cosa si faccia, rimane negli Stati moderni.
Si capisce perché sia impreciso qualificare la terza posizione come “sionista”. Non implica qui l’adesione al movimento di rinascita nazionale sorto nel XIX secolo per giungere alla realizzazione statale a metà del XX. Parlare di posizione “pro-israeliana” non è più accurato; perché non si tratta di sostenere la politica di Israele qualunque essa sia. Quando diventa reazionaria e mette in pericolo gli standard di uno Stato democratico nella politica interna o esterna, quella politica cade sotto la condanna. Invece, ciò che resta un punto inamovibile è considerare l’esistenza di Israele come un diritto, in senso stretto. La realizzazione di uno Stato degli ebrei, o più precisamente di uno Stato per gli ebrei, non è semplicemente un fatto al quale ci si debba adattare. È un riconoscimento, una conquista sulla strada del progresso dei diritti che è stata essenziale per la ricostruzione dell’Europa dopo ciò che essa dovette diagnosticare come il proprio punto di cedimento. E quando dei crimini riproducono un motivo d’azione che essa sa identificare per quel che è, quando deve riconoscere che la volontà di sterminio, qui e là, si risolleva di nuovo, reagisce e si indigna: tramite il rifiuto di Israele come si propone qui nello slogan “Free Palestine”, in eco minacciosa di ciò che è accaduto come pogrom laggiù, si tratta sempre evidentemente di antisemitismo.
La crisi della coscienza europea alla luce del 7 ottobre
Tutto si gioca sull’asserzione: “c’è stato antisemitismo il 7 ottobre”. È su questo punto che le posizioni si dividono e si separano senza possibilità di conciliazione. Alcuni lo ammettono, altri no. Ma soprattutto, anche quando lo ammettono, il senso che attribuiscono alla parola varia radicalmente, a secondo che si comprenda (o meno) che ciò che è in gioco con l’antisemitismo è in realtà un problema europeo: quello dell’orientamento e del riposizionamento sulla dinamica socio-storica che continua (o non continua) ad animare l’Europa, ossia a conferirle un senso.
Ciò che il 7 ottobre ha reso evidente è l’altra faccia della crisi: il fatto che l’Europa sia in imbarazzo riguardo a se stessa. Che non comprenda già più, o solo a lampi, di che cosa si è trattato nel 7 ottobre, simultaneamente qui e là.
È comune, da parte della seconda posizione, protestare contro l’uso strumentale dell’antisemitismo al fine di legittimare la politica coloniale di Israele — e, per quanto riguarda il presente, la durezza della guerra a Gaza. Come negare che questo accada, a sentire le parole dei governanti israeliani attuali? Come negare, se la parola è brandita come accusa contro ogni posizione che rifiuta la legittimità della guerra a Gaza così come si è svolta in tutta la sequenza? Come non riconoscere che la parola, nelle loro bocche, risuona come in quelle dei leader dell’estrema destra che si dichiarano pro-israeliani, orgogliosi di difendere “i valori dell’Occidente” contro la minaccia islamista che si abbatte sulla civiltà occidentale? Netanyahou è avversario della terza posizione, prima di tutto perché incarna in Israele l’atteggiamento più reazionario inerente alla prima.
Ma proprio per questo bisogna considerarlo LO cosa? un segno di un doppio scarto, dove il significato di ciò che l’antisemitismo rappresenta nella storia degli ebrei post-Shoah si dissolve tanto in Israele quanto in Europa. Israele ha dei doveri, riassunti nel termine sionismo, e più precisamente di sionismo “realizzato”, assunto nella forma di uno Stato per gli ebrei. E l’Europa ha dei doveri, tra cui sostenere questa realizzazione come un diritto, non come un privilegio o una concessione revocabile. Il sionismo realizzato in Stato (era ciò che si esprimeva con la formula politica “democratico ed ebraico”) si corrompe non appena diventa puro nazionalismo (come ha cercato di sancire la legge del 2018 su Israele “Stato-nazione del popolo ebraico”). Si corrompe diventando politica di potenza, criminale nei confronti del diritto dei popoli. Ma si corrompe in questo modo soprattutto perché gli sfugge il suo senso di politica ebraica nel senso moderno post-Shoah. Questo senso sta nel fatto che è incarnazione del diritto dei popoli, visto dal popolo singolare la cui struttura diasporica e minoritaria richiede di essere protetta e difesa sul piano del diritto, vale a dire su un piano in cui universalità e necessità si uniscono. Sta nel trarre e imporre che da quell’esperienza si tragga questa conclusione, e non un’altra.
L’antisemitismo del 7 ottobre ci ha dunque mostrato ciò che oggi succede sotto i nostri piedi, qui e là. Si tratta delle due facce della stessa medaglia, delle due facce della stessa situazione complessiva. Perché bisogna dire che se questa deriva deleteria segna la politica israeliana — da molto prima del 7 ottobre e della guerra a Gaza — è anche vero che la situazione globale è cambiata considerevolmente, e che le democrazie liberali si ritrovano in posizione difensiva di fronte alle regressioni nazionaliste che le colpiscono, e alla saturazione dello spazio internazionale dove prevalgono le politiche di potenza. Che Israele si conformi ai requisiti di un mondo così ricomposto non è in sé inspiegabile, né ingiustificabile, purché l’atteggiamento sia realistico, in un contesto regionale di ostilità dichiarata o latente, ove le minacce esistenziali nel senso stretto — per un paese che, pur militarmente forte, è comunque molto inferiore nei numeri rispetto a molti vicini, e non può abbassare la guardia nemmeno un momento — siano del tutto reali. Certo, non siamo nel 1967, né nel 1973. Ma nel 2025, parlare il linguaggio del diritto richiede uno sforzo doppio, che lo stato attuale delle relazioni interstatali espone all’accusa di irenismo.
Eppure, per Israele proprio, non c’è altra opzione. Non ce n’è, almeno, se il suo senso ebraico continua a fondarlo; il suo senso ebraico moderno (cioè sionista), configurato nel mondo post-Shoah dove i suoi due pilastri – quello della diaspora che riprende fiato e quello del sionismo realizzato che lo rende possibile – si erano messi in opera, e dove la legittimità del dittico regnava nella coscienza occidentale, a cominciare – poiché tutto doveva necessariamente cominciare lì – dalla coscienza europea. Ora ciò che il 7 ottobre ha mostrato, è l’altra faccia della crisi: il fatto che l’Europa sia in imbarazzo riguardo a sé stessa. Che non comprenda già più, o solo a tratti cosa ha significato il 7 ottobre, simultaneamente qui e là. L’antisemitismo — quello del pogrom del 7 ottobre, messo in serie con gli omicidi di ebrei verificatisi negli anni recenti in Europa, la cui rinascita avviene sotto i nostri occhi e appare inarrestabile — l’Europa lo vede solo attraverso una fitta nebbia. I contestatori abituali della “strumentalizzazione dell’antisemitismo” (che esiste davvero, ma che non intacca la realtà dell’antisemitismo, affatto “residuale” poiché è dimensione crescente dell’esperienza comune) contribuiscono certo in modo attivo. Ma sono in fondo solo i segnali più rumorosi della crisi generale, che consiste nel vacillare non tanto del senso politico e storico di Israele quanto di quello dell’Europa.
Alcuni paesi l’hanno compreso meglio di altri. La Germania, ovviamente. La Spagna mai. La Francia ha esitato, poi, man mano che la pressione diventava troppo forte, che la guerra a Gaza sembrava volersi sganciare dal 7 ottobre, e che il campo anticoloniale aumentava il suo credito, ha riconosciuto che era meglio che il 7 ottobre venisse archiviato tra le perdite accettate. Certo, si ricordava ritualmente l’orrore che aveva rappresentato. Certo, si evocavano gli ostaggi. Ma altre orrori ben reali e ben visibili, che appartengono in larga misura a una politica di potenza condotta in nome degli ebrei e indegna di quello che dice, respingevano nei sepolcri dell’oblio l’auto-analisi che sarebbe stata necessaria sull’antisemitismo effettivo, qui e là, e sulla ricusazione dell’esistenza stessa d’Israele che ne è divenuta ormai la chiamata alle armi.
La terza posizione, che ho chiamato europea in senso stretto, riunisce piuttosto voci liberali e socialiste. Dipende molto dallo stato della socialdemocrazia, attualmente in cattiva posizione in Europa e altrove. Anche per questo, rispetto alle altre due, questa posizione sul 7 ottobre è de facto minoritaria. Lo è perché le altre due si appoggiano su dinamiche politiche ascendenti, e guadagnano in tal modo numerose anime per le quali le evoluzioni attuali sono difficilmente decifrabili. Il nazionalismo cresce, legittima le politiche di potenza, calpesta la logica dei diritti. Quando dice combattere l’antisemitismo e difendere gli ebrei, riattiva un modo di protezione premondano che non ha mai salvato gli ebrei. Gli ebrei reazionari, puntando su di esso, compiono un grave errore, storico e strategico. Il sionismo autentico è nato da questa presa di coscienza, e solo quando l’Europa ha capito di dover sostenere la sua realizzazione statale per salvarsi essa stessa si è costruito un modello più stabile — nonostante e attraverso le guerre che Israele ha dovuto continuamente sostenere per la sua sopravvivenza — nella coscienza ebraica in generale, israeliana e diasporica compresa.
I sostenitori della terza posizione, in fondo, non sono altro che un certo tipo di europei. Coloro attaccati a un modo particolare di difendere le tendenze liberali e socialiste (progressiste in senso largo) che sono al principio del progetto politico comune che si è rilanciato dopo il 1945.
Il problema è che non siamo più a quel punto. Il nazionalismo — religioso e non religioso — è cresciuto in Israele, allontanandolo dalla diaspora, e perciò dalla sua struttura ebraica. Nella Europa stessa l’anti-europeismo è cresciuto, con l’effetto di lasciar montare, se non alimentare, l’antisemitismo. Questa tendenza, in generale, ha fatto leva su due corde: il nazionalismo reazionario, xenofobo, più razzista che antisemita almeno in superficie; e d’altro canto il radicalismo di sinistra anticoloniale, nemico di ogni processo di socializzazione egualitaria ed emancipatrice nei quadri nazionali europei. Le frange fluttuanti dell’opinione pubblica avvertono bene il problema ma, riguardo al 7 ottobre e a Gaza, subiscono l’attrazione di una o dell’altra posizione. Da ciò risulta che la terza posizione è molto indebolita, attraversata da tensioni che deve gestire per sperare di rafforzarsi. Perché ora, due anni dopo, le tocca fare questo gesto estremamente difficile: tornare pienamente su Gaza e sul 7 ottobre, per dimostrare che è in nome del senso antisemita del 7 ottobre che bisogna denunciare e condannare ciò che si è verificato durante la guerra a Gaza. Che ricordare il 7 ottobre con esattezza e probità è l’unico modo per affrontare correttamente, con una critica che non sia regressiva, la distruzione di Gaza. Che sarà in questo modo che tutti i crimini, tutti i crimini, dovranno essere sanzionati quando la guerra avrà cessato e i fatti potranno essere stabiliti con chiarezza, le imputazioni rivolte con misura e obiettività. Ma che ciò non potrà avvenire senza che l’Europa riprenda la sua voce propria, quella di un’entità politica consistente doppiamente nutrita — ma non allo stesso modo né dagli stessi regimi di pensiero — dalla sua memoria post-Shoah e dalla sua memoria post-coloniale, e capace per questo di difendere meglio di ogni altra istanza il diritto e la giustizia sulla scena mondiale.
Bruno Karsenti