David Bell : “Proprio quando la sinistra americana dovrebbe unirsi contro Trump, si divide sulla questione israeliana.”

Lo spettacolo dell’estrema polarizzazione che sta infiammando la società americana, in particolare per quanto riguarda il suo sistema universitario, potrebbe farci dimenticare l’importanza che conserva la vecchia tradizione del pragmatismo liberale. L’intervista che ci ha concesso lo storico David Bell, professore a Princeton, ce lo ricorda, rifiutando sia di esagerare che di edulcorare il tema così divisivo dell’antisemitismo nei campus. Mentre Trump e le frange più radicali del progressismo universitario si contendono il diritto di sabotare l’università americana, David Bell indica il punto in cui la lotta contro l’antisemitismo e la difesa dell’università dipendono l’una dall’altra.

 

David Bell

 

JC: Lei insegna a Princeton dal 2010 e proviene da una famiglia di intellettuali ebrei di New York. Suo padre, Daniel Bell, è uno dei più eminenti sociologi americani e sua madre, Pearl Kazin Bell, si è distinta come critica letteraria di fama. Alla luce di questo retaggio familiare e intellettuale, come ha percepito gli eventi verificatisi dal 7 ottobre nel campus di Princeton o, più in generale, nei campus americani? Quali osservazioni può fare sulle reazioni dei suoi studenti, dei suoi colleghi e dell’amministrazione? Ci sono stati momenti che l’hanno colpita o sorpresa, nel modo in cui la sua comunità universitaria ha attraversato questo periodo?

David Bell: Si tratta ovviamente di una questione piuttosto complessa. La risposta dipende in gran parte dall’istituto in questione: non è facile generalizzare né per quanto riguarda le reazioni degli studenti né per quelle dei docenti. A Princeton dopo il 7 ottobre c’è stata maggiore moderazione rispetto ad altri luoghi. Tuttavia vivendo a New York – mia moglie insegna alla Columbia – e avendo casa a tre chilometri dal campus, ho avuto modo di seguire direttamente gli sviluppi. 

Ciò che mi ha davvero colpito è stata la profondità delle divisioni che si sono manifestate all’interno dei campus americani. È una situazione molto diversa da quella degli anni Sessanta: in quel periodo quando scoppiavano grandi controversie, manifestazioni o proteste universitarie prevaleva una certa unità, almeno sulla costa orientale nelle università d’élite. Quasi tutti erano contrari alla guerra in Vietnam. Questa volta, invece, si è manifestata una vera e propria frattura: alcuni hanno assunto immediatamente una posizione ostile nei confronti di Israele, arrivando persino a esprimere soddisfazione per l’attacco di Hamas rallegrandosi delle sue presunte vittorie. 

Questi ultimi erano relativamente pochi, va detto, ma la loro presenza era comunque notevole. Inoltre molti hanno affermato fin dal 7 ottobre che i presunti crimini di Israele erano più gravi delle azioni di Hamas e molti altri, scioccati da queste reazioni e senza necessariamente professare un sionismo ardente hanno comunque difeso il diritto all’esistenza dello Stato di Israele. L’indignazione si è manifestata in modo particolare nei confronti delle dichiarazioni percepite come antisemite, in particolare quelle apertamente favorevoli ai terroristi di Hamas. Tuttavia, la situazione è peggiorata notevolmente in primavera con l’allestimento di accampamenti nei campus, in particolare alla Columbia.

In diversi campus quando gli studenti ebrei hanno cercato di avviare un dialogo con i manifestanti sono stati spesso pronunciati discorsi di una estrema violenza retorica anche quando la violenza fisica, sebbene presente, è rimasta limitata. È stato proprio in quel momento che abbiamo iniziato a rilevare una vera e propria recrudescenza dell’antisemitismo nei campus.

JC: E a Princeton?

DB: A Princeton un accampamento è stato allestito letteralmente davanti alla finestra del mio ufficio. Per due settimane sono stato esposto a grida, canti e slogan che scandivano “Palestine will be free”, tra le altre cose. Una parte dei manifestanti agiva, credo, con intenzioni lodevoli: protestavano contro gli eccessi della campagna israeliane a Gaza. La difficoltà sta nel fatto che molti di loro si sono spinti oltre. A Princeton, ad esempio, alcuni si limitavano a dichiarare di essere contrari alle azioni di Israele a Gaza, e su  questo punto sono d’accordo. Ritengo che la reazione israeliana sia stata eccessiva, soprattutto all’inizio. Si è manifestato il desiderio di vendetta. Certamente discutibile, ma non illegittimo.

Tuttavia, a Princeton i manifestanti hanno anche sventolato bandiere di Hezbollah. Molti chiedevano la restituzione della Palestina ai palestinesi, il che implicava in maniera evidente l’espulsione della popolazione ebraica. Ancora più grave è il fatto che in diversi campus quando gli studenti ebrei hanno cercato di avviare un dialogo con i manifestanti sono stati spesso pronunciati discorsi di una estrema violenza retorica anche quando la violenza fisica, sebbene presente, è rimasta limitata. È stato proprio in quel momento che abbiamo iniziato a rilevare una vera e propria recrudescenza dell’antisemitismo nei campus.

JC: Come ha reagito la comunità universitaria a questa situazione?

DB: C’è stata una sorta di dissonanza cognitiva. Molti dei miei amici e colleghi alla Columbia affermavano che l’antisemitismo non poteva esistere, visto parte dei manifestanti erano ebrei e quindi parlare di antisemitismo era assurdo. Al contrario, altri sostenevano che si trattava di individui praticamente nazisti. C’era una estrema divergenza di opinioni e da parte mia mi colloco tra queste due posizioni: la maggior parte dei manifestanti non era antisemita ma un numero non trascurabile di loro è caduto nell’antisemitismo, in particolare quando si trovava di fronte a studenti ebrei che provavano a difendere l’esistenza di Israele. La situazione ha preso una piega molto preoccupante.

JC: La situazione degenerava quando gli studenti ebrei cercavano di avviare una discussione? 

DB: Non era l’unica questione: fin dall’inizio molti manifestanti non si limitavano a denunciare Israele ma sostenevano gli attacchi del 7 ottobre sostenendo Hamas. La situazione è però peggiorata quando gli studenti ebrei hanno iniziato a cercare di confrontarsi con i manifestanti.

JC: Lei stesso proviene da una famiglia ebraica, la sua identità ebraica è rilevante?

DB: Assolutamente sì, mio padre è nato Daniel Bolotsky…

JC: E sua madre è sorella di Alfred Kazin. Come ha vissuto questa escalation dell’antisemitismo nei campus? In Europa, dove gli ebrei sono ben consapevoli della persistenza dell’antisemitismo, prevale l’impressione che agli occhi della comunità ebraica americana l’antisemitismo non sia veramente presente.

DB: Non ho avuto esperienze dirette di antisemitismo negli Stati Uniti, nemmeno durante le manifestazioni. Ho evitato di confrontarmi direttamente con i manifestanti e preferito mantenere una certa distanza. Quando li sentivo denunciare l’esistenza di Israele potevo certamente percepire che si trattava di parole antisemite ma non le ho sentite come un attacco personale. Quelle dichiarazioni non erano rivolte direttamente a me. Ho fatto esperienza di antisemitismo, in Francia.

Israele rappresenta ai loro occhi una colonia, che rientra in ciò che in inglese viene definito “settler colonialism”, cosa che offre loro l’opportunità di manifestare contro la propria società, contro tutti i mali che la affliggono.

JC: Come?

DB: Sono stato apostrofato “sporco ebreo”, e non è stata l’unica invettiva. Negli Stati Uniti invece non mi è mai capitato nulla di simile. Va sottolineato che gran parte dei manifestanti è molto ignorante. Non solo ripetevano lo slogan “From the river to the sea, Palestine must be free”, ma lo intonavano anche in arabo, e letteralmente significa “dal fiume al mare, la Palestina sarà araba”. Dubito ne fossero consapevoli.

Ciò che ha davvero fatto degenerare la situazione – un fenomeno osservabile anche in Francia, se pensiamo a Sciences Po Strasbourg – è che gli studenti hanno rivolto le loro proteste contro l’università stessa. Chiedevano che Princeton e Columbia cedessero le loro partecipazioni nelle società che intrattengono relazioni commerciali con Israele.

Avrebbero potuto, ad esempio, manifestare davanti al consolato israeliano o all’ambasciata a Washington. Le manifestazioni di piazza sarebbero state un’opzione praticabile tuttavia, la loro volontà di agire concretamente li ha portati a prendere di mira l’università stessa, un approccio che considero ridicolo. A Princeton come alla Columbia, hanno quindi deciso di esercitare pressioni sull’istituzione universitaria. È in questo contesto che sono avvenute le occupazioni.

JC: Come interpreta il desiderio di agire che non si esprime né in luoghi appropriati né con mezzi adeguati? Gli studenti hanno prodotto testi importanti?

DB: Hanno scritto diversi testi che sono stati pubblicati sui giornali studenteschi: denunce contro Israele, contro quello che definiscono “genocidio”, e altri temi simili. Non dimentichiamo che si tratta di studenti, di giovani. Al di là dell’espressione delle loro opinioni aspiravano a produrre un impatto tangibile. Un profondo senso di precarietà e di ansia pervade le università, sia qui che in Francia: la paura e l’incertezza per il futuro sono molto forti e l’impressione di agire, di intraprendere un’azione che ha conseguenze reali, contribuire alla cessazione della guerra, procura una forma di sollievo. Anche se, a mio avviso, sono azioni assolutamente che non portano ad alcun risultato.

Nell’accampamento alla Columbia sostenevano di aver ricevuto messaggi di sostegno da Gaza. E queste presunte lettere di bambini di Gaza venivano lette ad alta voce, una fonte di grande orgoglio per coloro che si convincevano così di agire in modo efficace. Le motivazioni psicologiche alla base di un simile comportamento appaiono abbastanza evidenti…

Gli Stati Uniti sono essi stessi una “società coloniale” la cui storia è segnata dal genocidio perpetrato contro le popolazioni indigene americane e dalla riduzione in schiavitù degli africani. La storia americana è innegabilmente criminale e per questi manifestanti Israele segue lo stesso percorso storico.

JC: Ne derivano una sorta di soddisfazione…

DB: Dall’impressione di influenzare la realtà, per quanto fantasiosa possa essere, deriva una soddisfazione psicologica.

JC: Ma perché questo desiderio di agire è così forte proprio nei confronti di Israele? Come spiega l’entusiasmo per questa specifica causa piuttosto che per altre che meriterebbero altrettanta attenzione da parte di una gioventù in cerca di giustizia globale?

DB: Questa focalizzazione si spiega in parte con la convinzione che attaccando Israele si possa ottenere un effetto concreto: avrebbero potuto denunciare il genocidio cinese contro gli uiguri o le violenze perpetrate in diversi paesi africani, in Birmania e in altre parti del mondo ma entrano in gioco altri criteri. Infatti secondo la loro percezione sono situazioni che non coinvolgono i bianchi, e Israele questo incarna. Israele rappresenta ai loro occhi una colonia, che rientra in ciò che in inglese viene definito “settler colonialism”, cosa che offre loro l’opportunità di manifestare contro la propria società, contro tutti i mali che la affliggono.

Un elemento cruciale negli Stati Uniti è la tendenza generalizzata a vedere ogni situazione attraverso il prisma dei conflitti razziali. Gli Stati Uniti sono essi stessi una “società coloniale” la cui storia è segnata dal genocidio perpetrato contro le popolazioni indigene americane e dalla riduzione in schiavitù degli africani. La storia americana è innegabilmente criminale e per questi manifestanti Israele segue lo stesso percorso storico.

Prendiamo l’esempio di Ta-Nehisi Coates, che l’anno scorso ha pubblicato un libro in cui denuncia lo Stato di Israele: figlio di attivisti afroamericani e figura di spicco del movimento nero negli Stati Uniti, descrive gli eventi in Cisgiordania come se si trattasse del sud degli Stati Uniti prima del movimento per i diritti civili.

JC: Questa tendenza per cui non si vogliono vedere le specificità storiche e l’evoluzione delle altre società, e la proiezione delle logiche della storia americana su situazioni fondamentalmente dissimili, è un tratto tipicamente americano?

DB: Assolutamente sì. Deriva in gran parte dall’istruzione impartita ai giovani americani. La mia esperienza personale, attraverso i miei due figli –che frequentano la scuola pubblica americana – lo conferma.

L’insegnamento della storia negli Stati Uniti dedica uno spazio estremamente ridotto alla storia europea, la cosiddetta storia mondiale è una sorta di contenitore generico. L’accento è posto essenzialmente sulla storia degli Stati Uniti e in gran parte sulla storia dei conflitti razziali: la schiavitù, la discriminazione, la guerra civile. Pur non costituendo l’unico contenuto, questi temi tendono a eclissare il resto.

La restaurazione è un concetto fondamentale che mira a ristabilire la giustizia nel mondo. Riconoscono tacitamente, anche se con rammarico, l’impossibilità di restituire gli Stati Uniti alle popolazioni autoctone, o il Canada e l’Australia ai loro abitanti originari, così come sarebbe illusorio restituire la Francia ai Galli. Israele offre loro un caso in cui la giustizia della restaurazione sembra ancora realizzabile.

Questo è quindi il prisma storico trasmesso ai giovani americani: percepiscono il mondo attraverso quest’ottica e la applicano, il più delle volte senza una riflessione approfondita, all’intero pianeta. Un approccio che deriva dalla loro conoscenza limitata del resto del mondo. La padronanza delle lingue straniere è generalmente assente. Questa prospettiva appare loro perfettamente naturale. Quando seguono corsi di storia all’università molti degli insegnamenti privilegiano teorie e analisi incentrate sulla colonizzazione e il razzismo. L’atteggiamento adottato da questi giovani nei confronti di Israele si inserisce quindi in una logica perfettamente coerente con la loro formazione, poiché questa lettura della realtà è diventata naturale.

JC: In qualità di storico specializzato nell’Illuminismo e nella Francia, lei ha studiato a fondo i paradossi inerenti all’Illuminismo, ormai ben noti: pur essendo emancipatorio era anche un luogo di perpetuazione, se non addirittura di elaborazione, dell’antisemitismo e del razzismo. Vede paradossi simili nelle lotte cosiddette emancipatorie di questa giovane generazione? La loro mobilitazione per una maggiore giustizia sociale nel mondo rimane innegabile, pur producendo effetti negativi, in particolare l’antisemitismo. Uno degli effetti risiede nell’ignoranza dello status minoritario specifico degli ebrei, della loro storia particolare e, di conseguenza, delle sfide che Israele rappresenta per gli ebrei di tutto il mondo.

DB: Il paragone con l’Illuminismo mi sembra delicato. Mi piacerebbe che questi giovani potessero esprimersi con l’eloquenza di Voltaire, e purtroppo non è così. La loro conoscenza dell’Illuminismo si limita troppo spesso alla storia del razzismo, alle “Miserie dell’Illuminismo”, per riprendere l’espressione di Louis Sala-Molins. Chi conosce Kant in genere ricorda solo il suo razzismo, i suoi scritti sui neri. Le migliaia di pagine che ha dedicato alla filosofia e alla morale rimangono loro sconosciute.

Questa lacuna è il risultato della loro educazione, che presenta un mondo diviso tra oppressori e resistenti. Gli oppressori sono identificati con l’Occidente, l’Occidente illuminato, si potrebbe dire. Quindi sostengono la resistenza ovunque si manifesti. La loro visione del mondo è caratterizzata da un forte manicheismo. In questa prospettiva diventa estremamente difficile per loro percepire gli ebrei come minoranza, gli ebrei sono considerati parte integrante dell’Occidente.

Certo, conoscono la storia della Shoah, la loro ignoranza non arriva a questo punto. Tuttavia, in genere non capiscono perché gli ebrei abbiano bisogno di un paese tutto loro e anche la loro conoscenza della storia di Israele è molto lacunosa. Ritengono semplicemente che gli ebrei, espulsi o cacciati dall’Europa, abbiano rubato questa Terra Santa ai musulmani. In termini di elaborazione intellettuale, non mi sembra pertinente alcun paragone con l’epoca dell’Illuminismo.

JC: Suggerisce che si tratta di lotta che non ha un progetto positivo, o una visione del mondo da costruire. Esprime solo la resistenza contro l’oppressione?

DB: Mi sembrava comunque che esista un progetto positivo di giustizia sociale e di restaurazione. La restaurazione è un concetto fondamentale che mira a ristabilire la giustizia nel mondo. Riconoscono tacitamente, anche se con rammarico, l’impossibilità di restituire gli Stati Uniti alle popolazioni autoctone, o il Canada e l’Australia ai loro abitanti originari, così come sarebbe illusorio restituire la Francia ai Galli. Israele offre loro un caso in cui la giustizia della restaurazione sembra ancora realizzabile.

Le loro critiche a Israele non sono prive di fondamento: ciò che accade in Cisgiordania va fermato immediatamente, la situazione è assolutamente drammatica. L’attuale governo conta tra le sue fila, con Smotrich e Ben Gvir, fascisti razzisti che nutrono davvero l’intenzione di cacciare i palestinesi dalla Cisgiordania e da Gaza.

Israele rappresenta effettivamente un caso particolare, in cui essi vedono sia l’occasione che la possibilità di ottenere una vittoria contro questo Occidente criminale, quindi contro se stessi.

Ma non è questo il discorso dei manifestanti. Occorre distinguere tra la legittima protesta contro le azioni del governo israeliano e la negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele, accompagnata dalla richiesta di espellere la popolazione ebraica da Israele a causa dei crimini israeliani o del presunto “genocidio”.

JC: La sua analisi rivela una dimensione affascinante. Lei suggerisce che uno dei fattori che potrebbero spiegare la radicalità della critica antisionista nei campus sia l’acuta consapevolezza degli studenti dei crimini dell’Occidente e il senso di impotenza che ne deriva. Come se fossero consapevoli dell’impossibilità di “autoabolirsi” in patria, ma trovassero in Israele un luogo dove questa abolizione dell’Occidente sembra loro realizzabile.

DB: Israele rappresenta effettivamente un caso particolare, in cui essi vedono sia l’occasione che la possibilità di ottenere una vittoria contro questo Occidente criminale, quindi contro se stessi. Per quanto riguarda Israele, ritengono che l’esito sia ancora aperto. Pensano di poter porre fine ai crimini perpetrati contro la popolazione indigena. Su questo punto preciso, come ho appena indicato, il loro tentativo non è privo di legittimità.

JC: Coesistono due dimensioni radicalmente diverse: protestare contro i crimini di guerra e voler…

DB: …cancellare distinzioni intellettuali e morali fondamentali. In effetti si tratta di due realtà completamente diverse che essi non riescono in alcun modo a distinguere.

JC: Il quadro che dipinge della gioventù americana e delle università non è affatto ottimista.

DB: Va ricordato che i manifestanti costituivano solo una minoranza nell’insieme delle università. A Princeton solo poche centinaia di studenti sui 6 mila presenti nel campus hanno partecipato al movimento. E i dottorandi vi erano ampiamente rappresentati. Alla Columbia, la mobilitazione ha coinvolto soprattutto dottorandi e studenti di giurisprudenza, che negli Stati Uniti seguono un percorso di studi post-laurea. In tutti i campus era coinvolta solo una minoranza di studenti. E conosco molti studenti moderati che si opponevano al discorso di questi manifestanti e ne erano scioccati. I campus erano profondamente divisi. E molti studenti ebrei, sionisti e profondamente turbati, hanno organizzato contro-manifestazioni.

Non si tratta quindi dell’intera gioventù americana, ma della sua frazione più militante, che rimane minoritaria.

JC: Torno alla mia domanda iniziale: gli ebrei americani hanno vissuto un’esperienza europea negli ultimi due anni?

DB: Cosa intende esattamente per esperienza europea?

Si apre così un abisso all’interno della sinistra americana e il momento è tragico: proprio quando la sinistra americana dovrebbe unirsi contro Trump, si divide sulla questione israeliana. La situazione è davvero drammatica.

JC: In Europa prevale l’impressione che negli Stati Uniti si stia facendo esperienza di un antisemitismo diffuso, che si manifesta apertamente. Alcuni ebrei hanno perso la vita nel vostro Paese. Come percepisce questa situazione la comunità ebraica? Si tratta di un passaggio verso una nuova era? La società americana stia vivendo una profonda trasformazione?

DB: Molti ebrei americani la pensano così. Affermano che senza dubbio stiamo entrando in un periodo di antisemitismo. La mia tendenza naturale mi porta a percepire ogni situazione nella sua complessità: non siamo nella Francia del 1894 né nella Germania del 1933 e sarebbe esagerato affermare che negli Stati Uniti stia nascendo un movimento paragonabile a quello di Édouard Drumont. La situazione è radicalmente diversa tuttavia, potremmo trovarci alle prime fasi di un fenomeno simile. Per ora, l’esito rimane incerto.

Gli eventi nei campus per lo più non erano diretti contro gli ebrei in quanto tali. Gli attacchi avvenivano quando gli ebrei si confrontavano con gli occupanti degli accampamenti.

Ogni giorno percorro le strade di New York. Innumerevoli persone indossano la kippah o i tefillin. Le due volte in cui ho assistito ad attacchi verbali antisemiti – espressioni come “sporco ebreo” rivolte a ebrei identificabili dalla kippah – gli autori mi sono sembrati affetti da disturbi mentali.

Tuttavia è vero che si sono verificati episodi di violenza, anche mortale, fatti di estrema gravità. Incidenti violenti si sono verificati a Washington e Harrisburg. Episodi che trovano in parte origine nei movimenti universitari. Rimane l’incertezza sul carattere puntuale o duraturo di questa ondata di antisemitismo alimentata dall’antisionismo e legata agli eventi di Gaza. Stiamo assistendo ai primi segni di un’ondata antisemita che travolgerà le comunità ebraico-americane o si tratta di un fenomeno più circoscritto? Lo dirà il futuro.

JC: La situazione solleva comunque un’altra questione: lei stesso è un liberale, nel senso americano del termine, non un progressista americano, visto che il termine “progressista” indica da voi ciò che noi definiamo sinistra. Lei incarna un uomo di sinistra moderato. 

DB: Esatto.

JC: Torno all’esperienza vissuta dalla comunità ebraica. Se gli ebrei sono classificati come bianchi e associati al dominio ci troviamo in una situazione relativamente inedita in cui, improvvisamente, gli ebrei americani liberali non possono più allinearsi pienamente con i movimenti che lottano per una maggiore giustizia sociale. Identificati con i dominatori, si vedono privati della possibilità di dichiararsi solidali con i movimenti di emancipazione. Questa separazione costituisce un fenomeno senza precedenti.

DB: Assolutamente. Storicamente negli Stati Uniti gli ebrei si sono identificati con le minoranze. Hanno partecipato attivamente al movimento per i diritti civili e alla lotta contro la segregazione, tra le altre battaglie. Mio padre, il sociologo Daniel Bell, era socialista fin dalla giovinezza. Si vantava di poter cantare l’Internazionale in otto lingue diverse – una necessità a New York: yiddish, inglese, spagnolo, ucraino, greco e così via. La storia della mia famiglia è radicata nella tradizione di sinistra.

Tuttavia, la separazione tra gli ebrei e il campo progressista di cui lei parla non è una novità. Questo processo è iniziato negli anni ’80, quando i movimenti neri hanno acquisito un’importanza considerevole – del resto legittima – senza però lasciare spazio alla solidarietà dei cosiddetti ebrei “bianchi”. Già negli anni Sessanta, con Malcolm X e l’orientamento islamico di una parte del movimento nero, si crea una distanza dagli ebrei. Momenti di avvicinamento si alternano a fasi di separazione, in un movimento continuo.

Questa volta, la rottura è particolarmente grave. Ne è un esempio la campagna per la carica a sindaco di New York: Zohran Mamdani ha appena vinto le primarie democratiche. Suo padre è uno dei principali teorici del “colonialismo dei coloni”, mentre sua madre, regista e teorica, sostiene da tempo il movimento di boicottaggio contro Israele. Lo stesso Zohran accetta l’intifada.

Trump sta attualmente conducendo un’offensiva contro le università che è senza precedenti nella storia americana. Da parte dei progressisti non si registra quasi nessuna reazione, silenzio quasi totale da parte degli studenti cosiddetti di sinistra. Il motivo? Il loro rifiuto di sostenere l’università “liberale e sionista”, anche di fronte a Trump.

Un’emergenza che costituisce una novità nella storia politica newyorkese dove tradizionalmente prevaleva una sorta di riverenza obbligatoria nei confronti dello Stato di Israele, dovuta all’importanza della comunità ebraica nella politica locale. Quasi tutti i candidati dichiaravano: “Sostengo pienamente lo Stato di Israele. Durante i miei viaggi all’estero, Gerusalemme sarà una delle mie destinazioni”. Zohran Mamdani rompe con questa tradizione.

Questo giovane trentatreenne si troverebbe, credo, completamente perso nel labirinto amministrativo del municipio di New York. Motivi indipendenti dalla politica estera mi inducono a dubitare delle sue qualità di candidato. Potrei comunque superare queste riserve e sostenerlo come candidato democratico ma la sua posizione sul conflitto israelo-palestinese rende questo passo estremamente difficile.

Questa situazione provoca una rottura con molti dei miei amici progressisti, compresi numerosi ebrei che sono disposti a sostenerlo. Sono ebrei progressisti che sostengono le manifestazioni, definendo l’antisemitismo un mito o un puro pretesto. Si apre così un abisso all’interno della sinistra americana e il momento è tragico: proprio quando la sinistra americana dovrebbe unirsi contro Trump, si divide sulla questione israeliana. La situazione è davvero drammatica.

Trump sta attualmente conducendo un’offensiva contro le università che è senza precedenti nella storia americana. Da parte dei progressisti non si registra quasi nessuna reazione, silenzio quasi totale da parte degli studenti cosiddetti di sinistra. Il motivo? Il loro rifiuto di sostenere l’università “liberale e sionista”, anche di fronte a Trump.

Questo fenomeno si osserva a Princeton, Harvard e alla Columbia. Un  atteggiamento che si estende anche alla distruzione delle scienze. Alla Columbia, ad esempio, la facoltà di medicina rischia di doversi separare da una parte consistente del suo corpo docente e chiudere alcuni dei suoi laboratori. Negli Stati Uniti la ricerca medica  dipende quasi interamente dal governo sia per i fondi di ricerca che per gli stipendi. Di fronte a questa minaccia non si manifesta quasi nessun sostegno né da parte dei professori, né dei progressisti, né degli studenti. Una divisione che porterà alla distruzione della sinistra americana.

JC: E dell’università, allo stesso tempo, ho capito bene?

DB: Anche dell’università, senza dubbio. Gli studenti e i professori progressisti si sono definiti in opposizione radicale all’istituzione universitaria. Una mia collega, una docente molto progressista, ha recentemente dichiarato in un video: «Bisogna smantellare l’università. Bisogna preparare gli studenti a smantellare l’università». Secondo lei, l’università, non solo americana ma universale, incarna il colonialismo, il razzismo, l’imperialismo.

JC: Gli attacchi contro l’università non provengono quindi esclusivamente da Trump? All’interno stesso dell’istituzione l’assenza di resistenza si spiega con la convinzione che l’università partecipi intrinsecamente al sistema di dominio bianco, per riassumere brevemente. Questa prospettiva porta ad accettarne la distruzione?

DB: Quest’anno ci sono state due ondate di manifestazioni contro Trump, a marzo e a maggio. In entrambi i casi, l’assenza degli studenti è stata evidente.

Stiamo quindi assistendo ai primi segni della distruzione congiunta dell’università e della sinistra, nonché del Partito Democratico, sull’altare del conflitto israelo-palestinese.

JC: Un’assenza totale?

DB: Quasi. Ero a Parigi e ho partecipato alle manifestazioni parigine. Ho anche preso la parola durante il raduno in Place de la République e l’atmosfera era piuttosto malinconica: ero tra i partecipanti più giovani. Il pubblico era composto principalmente da veterani delle manifestazioni degli anni Sessanta. Un chitarrista ha intonato “We Shall Overcome”. L’evento era pervaso dalla nostalgia degli anni ’60. La situazione era ancora più triste se si pensa che migliaia di giovani americani continuano i loro studi a Parigi. La loro assenza quasi totale testimoniava il loro disinteresse. Stiamo quindi assistendo ai primi segni della distruzione congiunta dell’università e della sinistra, nonché del Partito Democratico, sull’altare del conflitto israelo-palestinese.

JC: Una dimensione dell’America sotto Trump che sfugge completamente alla nostra percezione europea.

DB: Un fenomeno simile si osserva in Francia. La sinistra francese è divisa tra La France insoumise  e i resti del Partito Socialista. Questo problema riguarda, a mio avviso, la sinistra mondiale nel suo complesso.

JC: Certo, ma sono propensa a pensare che se un governo Rassemblement National salisse al potere e attaccasse le università ci sarebbe un movimento di protesta. L’idea di una passività fondata sull’equivalenza tra l’università e il fascismo al potere non prevarrebbe.

DB: Rimane la speranza che in Francia si manifestino delle reazioni. Tuttavia, la Francia dispone di un sistema universitario coerente. Negli Stati Uniti non esiste un sistema simile e le università differiscono radicalmente le une dalle, in un mercato essenzialmente privato. E anche le università pubbliche dipendono dagli Stati, non dal livello federale. La situazione è particolarmente critica nello Stato dell’Indiana, dove il governo repubblicano locale sta conducendo un attacco contro una delle grandi università pubbliche americane. Il sistema di titolarità sarà in parte smantellato e molti programmi saranno eliminati. Credo che le reazioni saranno minime, il sistema universitario è davvero minacciato – più che minacciato, in pericolo di morte – mentre il presunto movimento di emancipazione rimane inattivo, considerando che l’emancipazione non passa attraverso l’istruzione impartita in queste istituzioni.

Il sistema universitario è davvero minacciato – più che minacciato, in pericolo di morte – mentre il presunto movimento di emancipazione rimane inattivo, considerando che l’emancipazione non passa attraverso l’istruzione impartita in queste istituzioni.

JC: A caratterizzare la situazione, quindi c’è l’assenza di solidarietà universitaria, di senso di appartenenza a una comunità del sapere che merita di essere difesa?

DB : Effettivamente. L’assenza di sindacati e di un corpo studentesco unificato aggrava la situazione, ed è particolarmente desolante. Resta da vedere come evolverà di fronte al proseguire degli attacchi di Trump contro l’università. Per il momento, la resistenza proviene principalmente da professori di una certa età, come me.

Permettetemi di illustrare la situazione catastrofica con un altro esempio: sono in corso le elezioni per le cariche dirigenziali dell’Associazione degli Storici Americani (American Historical Association). Quest’anno, un gruppo di storici molto critici nei confronti di Israele ambisce a prendere il controllo dell’associazione. Da anni i loro tentativi di far approvare risoluzioni contro Israele sono falliti. Quest’anno hanno mobilitato un nutrito contingente al Congresso degli storici a New York. Hanno fatto approvare una risoluzione che denuncia quello che definiscono “scolasticidio” israeliano a Gaza, ovvero la distruzione delle università di Gaza.

Il consiglio dell’associazione ha posto il veto su questa risoluzione, sostenendo che la condanna degli eventi mediorientali non rientra nelle responsabilità di un’associazione professionale di storici. In risposta, questi storici hanno deciso di presentare i propri candidati alla presidenza e alle altre cariche dirigenziali. Io faccio parte di un movimento che mira a contrastare questo tentativo, sostenendo i candidati ufficiali dell’associazione. Le elezioni si concluderanno il 15 luglio e l’esito rimane incerto. La loro vittoria comporterebbe molto probabilmente un moltiplicarsi delle risoluzioni contro Israele. Inoltre, la loro focalizzazione anti-israeliana li distrarrebbe da qualsiasi protesta efficace contro Trump. Questo aneddoto, apparentemente minore, riflette tuttavia la realtà della vita professionale universitaria.

JC: Questo esempio è invece molto pertinente. Rivela che il desiderio di autoabolizione dell’Occidente colpevole non si esprime solo nella lotta contro Israele, ma produce anche effetti deleteri sul terreno americano, rendendo l’università vulnerabile all’offensiva reazionaria.

DB: Esattamente. Senza cadere nell’esagerazione, sta emergendo una volontà manifesta o almeno un desiderio pronunciato di porre fine al sistema di produzione e riproduzione del sapere e delle élite. Una convergenza paradossale unisce l’estrema sinistra accademica e Trump, su un punto fondamentale: la natura nefasta delle università. Per molti dei miei colleghi progressisti, l’istituzione incarna il neoliberismo, la discriminazione, il razzismo, la supremazia bianca. Per Trump, ovviamente, rappresenta un’istituzione liberale nel senso opposto, di sinistra.

Senza cadere nell’esagerazione, sta emergendo una volontà manifesta o almeno un desiderio pronunciato di porre fine al sistema di produzione e riproduzione del sapere e delle élite. Una convergenza paradossale unisce l’estrema sinistra accademica e Trump, su un punto fondamentale: la natura nefasta delle università.

JC: Una congiunzione di lotte perfettamente assurda.

DB: Assolutamente. I marxisti di un tempo avrebbero definito questa situazione un “accordo oggettivo” tra nemici oggettivi che perseguono momentaneamente lo stesso obiettivo.

JC: Un strategia politica che sembra di una stupidità sconcertante.

DB: Si tratta quantomeno di sentimenti che producono effetti controproducenti. Lo sottolineo ancora una volta: questa posizione riguarda solo una minoranza del corpo docente, ad eccezione di alcuni dipartimenti in alcune università: studi afroamericani, studi americani, dipartimento di inglese, antropologia, sociologia. Nel mio dipartimento, di storia, solo due o tre persone adottano questa prospettiva, molti condividono la mia posizione. Esistono anche dei conservatori, ma in numero limitato. Tra gli scienziati, questo modo di pensare rimane molto raro. Gli economisti e i politologi vi aderiscono poco. Ma questa minoranza molto rumorosa si è dimostrata particolarmente presente.

JC: La complessità della situazione va ben oltre ciò che avevamo capito. Se sintetizzo correttamente da un lato, un problema educativo porta i giovani americani a interpretare ogni realtà in termini di conflitti razziali, creando un terreno fertile per l’odio verso Israele, poiché gli ebrei sono classificati come bianchi. Si può legittimamente parlare di un problema di antisemitismo, o almeno di un terreno potenzialmente fertile per l’antisemitismo nelle università, preparato da tempo. Gli eventi post-7 ottobre non sono quindi sorti dal nulla. D’altra parte, un presidente americano che, paradossalmente, combattendo le misure anti-discriminazione e quello che chiama “wokismo”, opponendosi alle teorie che concettualizzano la realtà in termini di conflitti razziali e discriminazioni infinite, interviene nelle università per distruggerle nella loro totalità. La sinistra moderata, di cui voi fate parte, si trova in una morsa.

DB: Questa analisi riassume perfettamente il nostro dilemma. Il senso di essere intrappolati mi perseguita. Un notevole squilibrio di potere oppone Trump ai cosiddetti “wokisti”. Questi ultimi non hanno né la capacità né, a dire il vero, la reale volontà di distruggere l’università – la mia collega citata in precedenza definisce letteralmente l’istituzione “razzista e suprematista bianca che paga il mio stipendio”. Il loro desiderio di distruzione rimane retorico. Tuttavia, forniscono un pretesto a coloro che nutrono davvero questa ambizione distruttiva.

Un notevole squilibrio di potere oppone Trump ai cosiddetti “wokisti”. Questi ultimi non hanno né la capacità né, a dire il vero, la reale volontà di distruggere l’università – la mia collega citata in precedenza definisce letteralmente l’istituzione “razzista e suprematista bianca che paga il mio stipendio”. Il loro desiderio di distruzione rimane retorico. Tuttavia, forniscono un pretesto a coloro che nutrono davvero questa ambizione distruttiva.

Fino a quest’anno, il Partito Repubblicano non contava tra le sue fila persone in posizioni di potere realmente determinate a distruggere l’università. L’università americana, in particolare gli istituti d’élite, ha sempre avuto una natura bifronte e il suo versante intellettuale ha provocato a lungo l’opposizione repubblicana, che denunciava l’università come un covo di sinistra: marxismo, comunismo, wokismo a seconda dei periodi. Ma il suo versante sociale, la sua funzione di riproduzione delle élite, integrava i repubblicani nel sistema. Essendo in gran parte ex studenti di queste stesse istituzioni, tenevano assolutamente a mandarci i propri figli. Ora, all’interno del Partito Repubblicano, in particolare nella sua componente populista incarnata da Trump, l’antielitarismo ha raggiunto un livello tale da mirare anche alla distruzione di questa funzione sociale dell’università. Per la prima volta, non assistiamo più solo a un’opposizione intellettuale, ma a un’opposizione istituzionale alle università, accompagnata dalla volontà e dalla capacità reale di distruggerle o, per lo meno, di infliggere loro danni considerevoli. Questa è la novità radicale.

Questa situazione è fondamentalmente diversa dall’era Bush Jr che, ex studente di Yale, certamente derideva la sua alma mater, parlando dei “socialisti di Yale”, ma senza vera serietà, poiché desiderava ardentemente che sua figlia frequentasse quell’università. Con Trump, abbiamo superato una soglia nell’odio verso l’università: è diventato totale.

JC: I progressisti, nel senso americano del termine, quindi forniscono oggettivamente un pretesto all’amministrazione Trump II?

DB: Assolutamente sì. Trump, indifferente alla riproduzione delle élite, se ne appropria con opportunismo. Questa occasione gli fa comodo. Noi, accademici moderati, ci troviamo intrappolati tra due volontà convergenti di distruggere l’università così come l’abbiamo conosciuta. Detto questo, a titolo personale, la minaccia rimane relativa. Princeton gode di una ricchezza considerevole. Le nostre spese per studente superano, credo, di cinquanta volte quelle di un’università parigina. Anche se i nostri capitali fossero tassati, anche se i nostri fondi federali fossero bloccati, le nostre risorse ci consentirebbero di resistere. Columbia e altri istituti dispongono di mezzi nettamente inferiori.

Il pericolo minaccia in particolare le scienze. Gran parte del movimento repubblicano manifesta ormai un atteggiamento largamente antiscientifico. Privi di ogni considerazione per la ricerca scientifica americana, convinti da illuminati come Kennedy della nocività della ricerca scientifica, non hanno alcuno scrupolo a distruggere anche questa dimensione universitaria.

Trump stesso professa talvolta un antisemitismo tipicamente americano, associando gli ebrei al denaro, al controllo dei media e così via… Come il RN contemporaneo, il suo apparente filosemitismo deriva dalla percezione degli ebrei come nemici dei musulmani e degli arabi. In questa prospettiva limitata, si mostra anti-antisemita pur rimanendo fondamentalmente antisemita.

JC: Eravamo partiti dal chiederci se esistesse dell’antisemitismo nelle università. La sua analisi, che amplia la portata del problema, mi porta a formulare una seconda domanda correlata: si osserva un anti-intellettualismo nelle università?

DB: Certamente.

JC: Il legame tra queste due domande non è casuale: storicamente, nella modernità, l’anti-intellettualismo costituisce uno degli elementi cardine dell’antisemitismo. Dove fiorisce l’anti-intellettualismo, l’antisemitismo non è mai molto lontano.

DB: Per l’estrema destra, l’antisemitismo si integra effettivamente in questo anti-intellettualismo. Il loro discorso confonde tutto: “Gli ebrei, gli intellettuali, i sinistroidi”. La contraddizione intrinseca tra ebrei e sinistroidi oggi non li imbarazza affatto. Anche l’anti-intellettualismo di sinistra presenta un interesse particolare, soprattutto quando alcuni definiscono il culto della ragione un attributo dei bianchi. La distanza dall’affermazione che il culto della ragione sarebbe ebraico rimane sottile. L’evocazione di una “scienza ebraica” non è ancora avvenuta. Forse non ci arriveremo mai, forse sì.

JC: Lei descrive un clima e uno scontro inaspettato tra due schieramenti anti-intellettualisti che, senza alcun coordinamento, si rafforzano a vicenda.

DB: Esattamente.

JC: Passiamo alla lotta contro l’antisemitismo condotta da Trump, che gli serve da giustificazione per la sua impresa distruttiva.

DB: Si tratta di un puro pretesto. Trump stesso professa talvolta un antisemitismo tipicamente americano, associando gli ebrei al denaro, al controllo dei media e così via. Questo antisemitismo rientra in un modello tradizionale. Suo padre, che ha partecipato a manifestazioni del Ku Klux Klan, nutriva molto probabilmente un antisemitismo virulento. Le parole antisemite hanno molto probabilmente permeato l’atmosfera familiare durante la giovinezza di Trump. Le sue dichiarazioni lo dimostrano regolarmente. Ancora di recente, ha parlato degli “Shylock”. Fa affermazioni come: “Voglio che i miei gestori finanziari indossino la kippah”. Il suo affetto per Israele e Netanyahu deriva dall’ammirazione per la forza e la durezza nei confronti dell’Islam. Come il RN contemporaneo, il suo apparente filosemitismo deriva dalla percezione degli ebrei come nemici dei musulmani e degli arabi. In questa prospettiva limitata, si mostra anti-antisemita pur rimanendo fondamentalmente antisemita. La sua dichiarata volontà di proteggere gli ebrei nei campus universitari è solo un pretesto trasparente.

Anche il Partito Repubblicano nutre un filosemitismo poco lusinghiero, legato all’evangelismo cristiano. Questi millenaristi ritengono che l’apocalisse inizierà con la riunificazione del popolo eletto in Israele, da cui il loro sionismo. Sostengono Netanyahu, proiettando su di lui anche la politica americana. Vedono in lui un resistente al “wokismo” e all’equivalente arabo del radicalismo nero. La proiezione della storia americana opera quindi anche nel campo reazionario.

Invoco la necessità di una serietà intellettuale, la capacità di stabilire differenze e distinzioni pertinenti. Questo compito definisce la vocazione stessa dell’intellettuale. Questo approccio implica riconoscere contemporaneamente l’esistenza di un problema di antisemitismo e di un problema Trump.

JC: Come reagisce la comunità ebraica a questo pretesto invocato da Trump?

DB: Le reazioni variano a seconda delle divisioni politiche interne alla comunità ebraica. John Podhoretz, scrittore e editorialista americano, figlio di Norman Podhoretz, ex redattore capo di Commentary, illustra questa diversità. Ha scritto su X: “Trump ha bombardato l’Iran. Per quanto mi riguarda, può dire Shylock 100 volte al giorno per sempre”.

La comunità ebraica americana rimane divisa. Le organizzazioni ebraiche ufficiali tendono a posizioni molto filoisraeliane e piuttosto conservatrici. Permangono divisioni tra i sostenitori incondizionati di Israele e i moderati. Il massiccio sostegno dell’attuale governo americano a Israele dissuade una parte della comunità dal criticare apertamente Trump. Scioccati dall’evoluzione all’interno del Partito Democratico, stanno sviluppando una crescente ostilità nei suoi confronti. I moderati come me rimangono in attesa.

Esiste anche una comunità ebraica progressista organizzata, incarnata in particolare da Peter Beinart. Dopo aver lavorato per The New Republic, dove era tra i ferventi sostenitori della guerra in Iraq, ha vissuto una conversione radicale. Oggi è uno dei più importanti antisionisti degli Stati Uniti.

JC: Quando denuncia l’antisemitismo nei campus, le viene rimproverato di favorire la politica autoritaria e illiberale di Trump?

DB: Naturalmente, sono accuse che abbondano.

JC: Cosa risponde a chi la accusa di fare il gioco di Trump denunciando l’antisemitismo?

DB: Invoco la necessità di una serietà intellettuale, la capacità di stabilire differenze e distinzioni pertinenti. Questo compito definisce la vocazione stessa dell’intellettuale. Mio padre sosteneva sempre che la missione dell’intellettuale consiste nel fare distinzioni pertinenti, nel rilevare le distinzioni. Senza manifestare per le strade, mi sforzo di fare distinzioni significative. Questo approccio implica riconoscere contemporaneamente l’esistenza di un problema di antisemitismo e di un problema Trump. Altrimenti, si partecipa a un altro gioco, quello di coloro che negano l’esistenza dell’antisemitismo. E una volta entrati in questo gioco, perché privilegiare questo discorso piuttosto che quello che consiste nel negare la pericolosità di Trump?

Mi rifiuto di farmi intrappolare in questa trappola ideologica. L’antisemitismo esiste nei campus americani, Trump sta cercando di distruggere questi stessi campus strumentalizzando l’antisemitismo come pretesto. I progressisti che tacciono sull’antisemitismo, o addirittura lo negano, rimangono per lo più in silenzio anche di fronte agli attacchi di Trump contro l’università. Ecco la complessità della realtà che bisogna comprendere intellettualmente. La strategia dello struzzo, che mira a non scontentare nessuno, non porta a nulla.


Intervista di Julia Christ

David A. Bell è titolare della cattedra Lapidus presso il dipartimento di storia dell’Università di Princeton, dove insegna dal 2010. È autore di sette libri, tra cui ‘Men on Horseback: The Power of Charisma in the Age of Revolution’ (Farrar, Straus and Giroux, 2020), e “The First Total War: Napoleon’s Europe and the Birth of Warfare As We Know It” (Houghton Mifflin, 2007).