Dall’attacco del 7 ottobre e la guerra condotta da Israele a Gaza, la parola “genocidio” si è imposta nel dibattito pubblico, quasi una pietra di paragone. Simbolo di impegno intransigente per alcuni, non è più di competenza del diritto: diventa imperativo morale assoluto. In questo testo Matthew Bolton analizza lo slittamento del termine — da accusa dal valore giuridico a condanna ontologica — e mostra come il suo uso, alimentato dalla teoria del “colonialismo d’insediamento”, porti a escludere qualsiasi possibilità di azione politica sulla guerra di distruzione a Gaza condotta dal governo Netanyahu. Poiché affermando che Israele attua una logica di annientamento intrinseca alla sua stessa esistenza, si trasforma l’equazione “Israele = genocidio” in assioma di un’ideologia che rifiuta per principio qualsiasi soluzione politica al conflitto.
Nel febbraio 2024 Ash Sarkar, personalità britannica dei social media, ha intervistato Bernie Sanders, senatore degli Stati Uniti da molti anni pilastro della sinistra americana. Ne ha pubblicato su X un filmato di quattro minuti. Il video è diventato rapidamente virale e ha raccolto più di otto milioni di visualizzazioni. “Ho chiesto tre volte a Bernie Sanders se riteneva che l’attacco di Israele a Gaza costituisse un genocidio“, ha scritto. “Ecco cosa ha risposto”[1]. La prima volta che gli è stata posta la domanda ha risposto: “ciò che Israele sta facendo è assolutamente vergognoso, orribile” e che sta “facendo tutto ciò che è in suo potere per mettervi fine”. Ha dichiarato di aver “guidato l’opposizione” al Congresso contro un disegno di legge che avrebbe inviato 14 miliardi di dollari in aiuti dagli Stati Uniti a Israele perché “non voleva vedere gli Stati Uniti complici di ciò che Netanyahu e i suoi amici di destra stanno infliggendo al popolo palestinese”. Chiama a un “cessate il fuoco umanitario” e ai negoziati, per “trovare… una soluzione a lungo termine”. Sarkar, insoddisfatta, ha chiesto di nuovo: si tratta di un genocidio? “Possiamo discutere delle definizioni – ha risposto Sanders – ma ciò che conta è impedire ulteriori morti e far arrivare gli aiuti a Gaza”. Sarkar fa un ultimo tentativo: genocidio o no? “Possiamo parlarne – risponde Sanders – ma cosa significa in termini concreti?”. Per poi ripetere che quello che sta cercando di fare è fermare gli aiuti che dagli USA arrivano a Israele, in modo che “Netanyahu e i suoi amici di destra si rendano conto che non è una buona idea continuare la loro guerra di distruzione”.
Le reazioni sono state violente: Sanders è stato accusato di essere un “vigliacco senza spina dorsale” e un “delinquente”. Il modo in cui “gira intorno al problema” è considerato “rivelatore”. Alcuni sono andati oltre. Sanders, che è ebreo e ha trascorso parte della sua giovinezza in un kibbutz simile a quelli attaccati il 7 ottobre, è un “sionista, il che spiega tutto ciò che ha fatto e detto da allora”. Una settimana dopo, sempre su X, è stato pubblicato un altro video in cui Sanders parlava all’Università di Dublino. In quell’occasione il suo punto di vista sul termine genocidio pareva essere diventato un po’ più chiaro. “Quando si arriva a quella parola [genocidio] – ha detto – mi sento a disagio… e poi non so, vedete, io non so cosa sia genocidio. Dobbiamo stare attenti quando usiamo questo termine”[2]. A queste parole, coloro che stanno filmando esplodono di rabbia e gridano a Sanders: “Questo è un genocidio… Bernie, tu stesso hai finanziato il sionismo, hai finanziato lo stato coloniale israeliano… bugiardo, bugiardo, negazionista… sei un assassino di bambini, sei un negazionista… I nativi americani sono ancora vittime di genocidio [da parte degli Stati Uniti], e non ti ho mai sentito parlare di genocidio”. Da allora Sanders ha dovuto affrontare altre proteste simili durante le sue apparizioni pubbliche.
Il trattamento riservato a Sanders, un uomo che ha riportato l’idea del socialismo democratico nell’agenda politica degli Stati Uniti praticamente da solo, riassume il ruolo totemico che il concetto di genocidio ha finito per ricoprire nell’opposizione alla guerra di Israele a Gaza. C’è un politico di spicco che rifiuta la guerra in maniera inequivocabile e agisce concretamente ai massimi livelli del governo americano. Tuttavia, poiché si rifiuta di usare una specifica parola per descrivere la violenza che cerca di impedire, viene ridicolizzato e vilipeso. E Sanders non è il solo a trovarsi in questa situazione. L’opposizione a una guerra la cui legittimità iniziale è stata progressivamente minata da un corso degli eventi divenuto indifendibile si ritrova frammentata e indebolita, in maniera forse irrecuperabile. Cosa che porta a una domanda: se la priorità del movimento contro la guerra è impedire nuovi morti e nuove distruzioni a Gaza (e l’urgenza di questa richiesta, soprattutto dopo la ripresa dei bombardamenti israeliani e il blocco degli aiuti nel marzo 2025 non può essere messa in dubbio), perché è importante il nome che le viene dato? Perché sacrificare l’unità del movimento sull’altare del genocidio?

D’altro canto l’uso immediato del termine “genocidio” (le prime accuse sono state mosse mentre i cadaveri venivano ancora raccolti nel campo di Nova e nei kibbutz) non è che un’ulteriore prova dell’inflazione semantica generale di questa parola negli ultimi decenni. Dalle accuse secondo cui i governi che hanno ritardato l’imposizione del lockdown per il Covid-19 avrebbero commesso genocidio, alle nozioni speciose di “genocidio trans” o “genocidio bianco”, la potenza emotiva ha trasformato il concetto in un’arma retorica onnipresente e monotona in una economia dell’attenzione alimentata dai social media.
« Il senso di colpa per ciò che è stato fatto agli ebrei c’è sempre stato. L’accusa di genocidio arriva a cancellarlo una volta per tutte. Ora chiunque può dire che gli ebrei non meritano più compassione perché sono feroci quanto lo sono stati i nazisti, o addirittura peggio » Philip Spencer
Per quanto riguarda Israele la questione va oltre l’indignazione online, come sempre. Per alcuni l’attrattiva del concetto di genocidio in questo contesto risiede nella possibilità che esso offre di invertire i ruoli di vittima e carnefice, o addirittura di volgere la memoria della Shoah “contro” Israele. Accusando Israele – uno Stato nato dalle ceneri della popolazione ebraica europea – di genocidio, e di fare agli altri ciò che un tempo era stato fatto al suo popolo, lo Stato ebraico viene messo sullo stesso piano del regime nazista.
Per citare Philip Spencer “Il senso di colpa per ciò che è stato fatto agli ebrei c’è sempre stato. L’accusa di genocidio arriva a cancellarlo una volta per tutte. Ora chiunque può dire che gli ebrei non meritano più compassione perché sono feroci quanto lo sono stati i nazisti, o addirittura peggio”[3]. Allo stesso tempo, secondo Spencer, accusando Israele di genocidio per la sua risposta alle atrocità di Hamas, esse stesse permeate da intenti genocidi, “il concetto e l’accusa di genocidio vengono capovolti”.
L’entusiasmo con cui in tanti hanno colto subito l’occasione per accusare Israele di genocidio all’indomani del 7 ottobre ha sicuramente a che fare con un brivido trasgressivo: finalmente si può far sparire la Shoah. Pankaj Mishra – in una lezione tenuta dal pulpito della chiesa di Saint James a Clerkenwell – ha ricordato come sia stata la guerra di Israele a “far saltare in aria l’edificio delle norme globali” costruito dopo la Shoah, e non piuttosto l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, l’uso sfacciato di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad o l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti[4]. Non è un caso. E non è un caso che i termini “campo di concentramento”, “Auschwitz”, “ghetto di Varsavia”, “genocidio” e “Olocausto” o “Shoah” siano stati a lungo utilizzati ostentatamente per condannare il trattamento riservato da Israele a Gaza e al popolo palestinese. Il “disagio” che ha espresso Sanders nei confronti dell’uso del termine genocidio da parte del movimento pacifista deriva probabilmente dalla sua percezione di questa dinamica. Il fatto che Sarkar sia consapevole del peso di questa parola per Bernie Sanders conferisce all’intervista la spiacevole caratteristica di un tentativo di confessione forzata.

E tuttavia limitare la portata dell’accusa di genocidio all’inversione di ruoli rispetto alla Shoah significa trascurare un aspetto importante del ruolo che questo concetto gioca nel dibattito contemporaneo su Israele. L’affermazione che Israele stia commettendo un genocidio “come i nazisti” è un’argomentazione portata avanti sia a livello di azione che di intenzione. Nonostante l’esagerazione, grossolana, e i fantasmi che suscita, si tratta fondamentalmente di un’affermazione empirica che può essere dimostrata o confutata tramite prove e argomentazioni ragionate. Significa che ci sono prove che Israele sta agendo in un modo che dovrebbe essere considerato un crimine di genocidio. Questo crimine ha una definizione giuridica (“atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale”) ed è previsto un apparato legale per perseguirlo. In genere, un’accusa di genocidio come questa prende di mira specifici autori, ovvero i leader politici, la fazione, il governo o il “regime” ritenuti responsabili. Pertanto, con la possibile eccezione del movimento di sinistra radicale Anti-Deutsch[5], l’affermazione secondo cui i nazisti avrebbero perpetrato un genocidio contro gli ebrei d’Europa non porta necessariamente a sostenere che la Germania non dovrebbe esistere come Stato. Piuttosto, lo Stato tedesco viene descritto come prigioniero dell’estrema destra, che si è guadagnata il sostegno popolare combinando terrore e ideologia, per poi utilizzare l’apparato statale per commettere un genocidio. Alla sconfitta del regime nazista seguì quindi un programma di “denazificazione”, volto a eliminarne i resti dallo Stato tedesco e a reintegrarlo nell’ordine democratico mondiale. Una storia che è ovviamente complicata dal fatto che la Germania è rimasta divisa in due per lungo tempo e il “successo” della denazificazione è stato, nella migliore delle ipotesi, di breve durata. Ma il fatto è che l’accusa di genocidio nazista si è fermata allo Stato tedesco stesso.
L’affermazione secondo cui i nazisti avrebbero perpetrato un genocidio contro gli ebrei d’Europa non porta necessariamente a sostenere che la Germania non dovrebbe esistere come Stato.
Nella sua intervista con Sarkar, Sanders tenta ripetutamente di incolpare “il signor Netanyahu e i suoi amici di destra” della condotta “vergognosa” della guerra. Sanders segue la stessa logica politica che ha portato alla denazificazione dopo la guerra. L’estrema destra israeliana è responsabile della carneficina a Gaza: dovrebbe essere privata dei finanziamenti pubblici, rimossa e sostituita da un nuovo governo che negozi un accordo con i palestinesi e reintegri Israele nell’ordine democratico mondiale. La stessa argomentazione è avanzata dalla sinistra israeliana: in un contesto ampiamente privo di antisemitismo e della minaccia di inversione di senso rispetto alla Shoah, alcuni arrivano addirittura ad accusare “Netanyahu e i suoi amici” di genocidio. E non c’è certamente alcuna ragione a priori per cui i leader politici e militari israeliani non potrebbero, in teoria, essere legittimamente accusati di genocidio oggi: il fatto che i loro antenati abbiano subito violenze genocide può certamente conferire alla loro accusa contro Hamas una dimensione speciale, ma non li immunizza in alcun modo dalla possibilità di commettere a loro volta tale violenza contro altri. Inoltre vi sono ampie prove del fatto che alcuni politici israeliani abbiano ripetutamente incitato al genocidio a partire dal 7 ottobre, sebbene non sia stato ancora dimostrato un collegamento diretto tra la retorica di estrema destra e le azioni sul campo[6].
Ma per Sarkar e i suoi sostenitori, i tentativi di politicizzare la guerra a Gaza concentrandosi sulle azioni di singoli individui o di specifiche correnti politiche sono del tutto inadeguati, se non addirittura pericolosi. La politicizzazione non riguarda solo le azioni e l’ideologia di Hamas, complicando così una rappresentazione morale semplicistica e attribuendo la responsabilità a entrambe le parti, ma nasconde anche il fatto che le differenze politiche tra destra, sinistra e centro in Israele sono molto reali. Una volta riconosciute queste differenze, si rischia di trascurare il fatto che – è qui che appare chiaramente la differenza con il caso tedesco – la colpa non è del “regime” di Netanyahu, ma dello Stato ebraico in sé. In altre parole, l’accusa di genocidio che Sarkar chiede a Sanders di sostenere non è rivolta a nessun governo o fazione politica israeliana in particolare a causa delle sue azioni. In realtà non è affatto una questione di azione, ma di esistenza.
I fondamenti teorici di questa concezione del genocidio come condizione dell’essere più che come azione emergono chiaramente negli slogan scanditi dai contestatori di Sanders a Dublino: Israele è uno “Stato coloniale” il cui genocidio dei palestinesi richiama quello dei nativi americani. Ciò che è in gioco in questa concezione di “genocidio” non è tanto il discorso sul rovesciamento della Shoah quanto quello del colonialismo. Come ha recentemente sottolineato Adam Kirsch, il concetto di genocidio è fondamentale per la teoria del colonialismo di insediamento che sin dalle sue origini moderne con le “guerre culturali” australiane della metà degli anni Novanta del Novecento, occupa oggi un posto di rilievo in gran parte del lavoro accademico e dei movimenti politici[7]. Secondo questa teoria, ciò che distingue le colonie di insediamento come Australia, Stati Uniti e Canada dal colonialismo “estrattivo” dell’India britannica o dell’Algeria francese è che in questi casi i “nativi” erano necessari per fornire manodopera. Nei primi casi invece erano solo d’intralcio e quindi erano pronti per il genocidio. Per l’antropologo anglo-australiano Patrick Wolfe, uno dei padri fondatori della teoria del colonialismo d’insediamento, una “logica di eliminazione” è alla base di quasi tutte le azioni di una colonia d’insediamento fin dal momento iniziale dell’”invasione”: l’eliminazione degli “indigeni” non è un evento isolato (e superato), ma un principio organizzatore della società coloniale d’insediamento[8].
All’estremo più radicale del continuum colonialista dell’”eliminazione” si trova l’annientamento fisico, forma ultima di trasgressione in cui la distruzione del gruppo colonizzato raggiunge il suo culmine. Ma la questione va ben oltre: per Lorenzo Veracini, direttore australiano della rivista Settler Colonial Studies, la logica peculiare di ciò che definisce come “trasferimento” si estende dalla “liquidazione” fisica e dallo “spostamento dei corpi… attraverso le frontiere” — ovvero la pulizia etnica — al “trasferimento tramite assimilazione”, che consiste nell’offrire la cittadinanza agli “indigeni”, fino al “trasferimento diplomatico”, cioè la creazione di “entità politiche sovrane o semi-sovrane” formalmente controllate dagli “indigeni” stessi[9]. Una volta compreso questo concetto radicalmente ampliato di “eliminazione” o di “trasferimento” — inclusa l’equivalenza che sembra stabilire tra annientamento fisico, concessione della cittadinanza e creazione di “entità politiche sovrane” — diventa evidente che, una volta attribuito lo statuto di “Stato colonizzatore”, nulla di ciò che lo Stato in questione intraprende può esplicitamente o implicitamente invalidarlo. Come afferma Kirsch, “l’ideologia del colonialismo d’insediamento propone un nuovo sillogismo: se la colonizzazione è un’invasione genocidaria, e se l’invasione è una struttura permanente e non un evento concluso, allora tutto — e forse chiunque — oggi sostenga una società coloniale d’insediamento partecipa anch’egli a una logica genocidaria”. Il genocidio costituisce l’essenza stessa dello Stato coloniale: il genocidio è lo Stato, e lo Stato è il genocidio.
L’accusa di genocidio che Sarkar chiede a Sanders di sostenere non è rivolta a nessun governo o fazione politica israeliana in particolare a causa delle sue azioni. In realtà non è affatto una questione di azione, ma di esistenza.
Ne consegue che nulla può essere fatto per salvare uno Stato colonialista. Mentre una “colonia estrattiva” (detta anche “di sfruttamento”) governata da una minoranza di colonizzatori può essere rovesciata da un movimento di liberazione nazionale anticoloniale, ciò che rimane di un popolo “nativo” eliminato non può distruggere uno Stato consolidato da tempo, in cui i “colonizzatori” costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione. A differenza dello Stato tedesco post-nazista, che poteva almeno tentare una qualche forma di riparazione per i propri atti genocidarî, l’unica riparazione che uno Stato coloniale possa offrire per la propria essenza genocidaria è la sua abolizione. L’opposizione al colonialismo d’insediamento e alla sua natura genocidaria è per definizione totale oppure nulla. In termini politici concreti, ciò significa invariabilmente nulla: come recita il tristemente noto tweet, si tratta solo di “vibrazioni, saggi, articoli”. Esiste tuttavia uno “Stato coloniale” la cui prospettiva di abolizione sembra a portata di mano: Israele.
Se la moderna teoria del colonialismo d’insediamento è una invenzione tipicamente australiana, è possibile farla risalire a un’origine sotterranea in cui Israele fornisce il modello per il colonialismo d’insediamento. Il lavoro dei teorici dell’OLP degli anni ’60, come Fayez Sayegh, contiene certamente elementi della “logica dell’eliminazione” che sarebbe stata poi formalizzata da Wolfe e Veracini. E in ogni caso questi ultimi furono certamente rapidi nell’applicare il loro modello di “struttura, non evento” a Israele, alla sua creazione e alla sua relazione con quelli che venivano sempre più descritti come “nativi”[10]. L’uso del termine “nativo” non è, in generale, basato su criteri, vale a dire che non si tratta di affermare che i palestinesi siano presenti su questa terra da “tempo immemorabile” come gli aborigeni australiani o i nativi americani (sebbene questa affermazione sia sempre più comune nel discorso popolare). Piuttosto, l’essere nativi dei palestinesi è qui intesa in termini relazionali: i palestinesi sono indigeni perché gli israeliani sono colonizzatori. Il concetto di “essere nativo” costituisce quindi il terzo elemento del sillogismo colonialista: non si può dire “colonizzatore” (israeliano) senza dire “nativo” (palestinese) — né “genocidio”.

Il tentativo di trasporre la storia di Israele nel modello australiano, tuttavia, non è stato esente da difficoltà. Come ha sottolineato Benjamin Wexler, Wolfe fu costretto a riconoscere una serie di caratteristiche distintive della colonizzazione ebraica in Medio Oriente che la differenziavano dal colonialismo europeo praticato altrove[11]. Wolfe ammette che i colonizzatori ebrei non avevano una “madrepatria” da cui emigrare; fino alle guerre arabo-ebraiche del 1947-1948, gli ebrei avevano acquistato legalmente la terra anziché “invaderla” e prenderla con la forza; nel caso degli ebrei, fatto unico, un’identità nazionale indipendente ha preceduto la colonizzazione, non ne è conseguita; la scelta del territorio non si basava su considerazioni economiche o politiche casuali ma era profondamente legata all’identità dei colonizzatori, un’identità plasmata da una narrazione storica di precedente espulsione dalla stessa terra in cui avevano cercato di (ri)stabilirsi; inizialmente l’insediamento ebraico fu limitato dal desiderio di appezzamenti di terra contigui, piuttosto che dal modello americano o australiano di insediamento “di frontiera” in continua espansione; era caratterizzata dalla proprietà collettiva della terra piuttosto che dalla proprietà privata[12]. Da parte sua, Veracini sostiene che Israele differisce dagli Stati Uniti e dall’Australia perché è una colonia d’insediamento incompleta: l’accettazione della spartizione, le guerre territoriali intermittenti e l’esistenza di arabi israeliani (o cittadini palestinesi di Israele) significano che Israele non è stato in grado di “superare se stesso”, di cancellare le sue origini[13]. È la natura parziale del progetto coloniale israeliano a renderlo particolarmente vulnerabile agli attacchi.
La Nakba viene privata del suo status di “evento” storico distinto, con le sue cause e conseguenze specifiche, e diventa “struttura” genocidaria onnicomprensiva che avrebbe determinato la storia di Israele e Palestina fin dall’arrivo dei primi coloni ebrei.
Tuttavia, anziché concludere che il numero e l’importanza di queste eccezioni segnalano il fallimento del concetto di “colonialismo d’insediamento” e della logica di eliminazione che lo accompagna, nello spiegare la storia di Israele, Wolfe giunse alla conclusione opposta. Le varie eccezioni vengono evidenziate per dimostrare che, nella sua stessa essenza, il sionismo è un progetto ancora più colonialista e ancora più impegnato nell’eliminazione di coloro che rientrano perfettamente in questo schema. Al centro di questa argomentazione ci sono gli eventi della guerra del 1947-1949, che in seguito sarebbero stati concettualizzati nel discorso palestinese come la “Nakba” (o “catastrofe”). Per Wolfe, questi episodi di guerra, caratterizzati dalla violenta espulsione e dalla fuga degli abitanti arabi di alcune parti di quello che sarebbe diventato lo Stato di Israele, rivelarono la “logica” fondamentale dell’eliminazione che era sempre stata l’essenza nascosta del sionismo. In effetti, Wolfe legge la storia a ritroso, a partire dagli eventi della “Nakba”. Egli sostiene che, nonostante tutta la storia precedente di acquisizioni legali di terre limitate e non violente, e tutte le “rassicurazioni tranquillizzanti” con cui i leader sionisti “affermavano la loro intenzione di vivere in armonia con la popolazione araba della Palestina”, solo circostanze contingenti (la presenza degli inglesi, la relativa assenza di immigrati ebrei prima della Shoah) impedirono ai colonizzatori sionisti di intraprendere una campagna di appropriazione violenta delle terre. La Nakba “fu la prima opportunità per il sionismo” di realizzare un progetto maturato da tempo, vale a dire “un esercizio più esclusivo della logica di eliminazione dei colonizzatori” rispetto a ciò che si era visto in Australia e nel Nord America. La Nakba fu quindi un “consolidamento” dell’essenza stessa del sionismo, “piuttosto che un punto di partenza”.
Questa argomentazione è stata ripresa alla lettera dai teorici del colonialismo che hanno ricostruito gli eventi che hanno preceduto, accompagnato e seguito la guerra del 1947-1949, fino ai giorni nostri, in modo tale da inserirli perfettamente nell’architettura concettuale prestabilita della teoria di Wolfe. La Nakba viene privata del suo status di “evento” storico distinto, con le sue cause e conseguenze specifiche, e diventa “struttura” genocidaria onnicomprensiva che avrebbe determinato la storia di Israele e Palestina fin dall’arrivo dei primi coloni ebrei. In effetti, la specificità di ogni “evento” di questa storia viene cancellata dalla necessità di farlo rientrare nella logica totalizzante del paradigma colonialista. Una volta individuata questa logica, qualsiasi prova storica che la contraddica o la confuti può e deve essere liquidata come mera “apologia sionista”[14]. Wolfe afferma apertamente che non ci si dovrebbe “sottomettere alla tirannia dei dettagli [storici]” se questi diminuiscono il potere esplicativo della struttura[15]. Il risultato è un ragionamento circolare in cui il teorico filtra i dati storici per selezionare gli eventi che sembrano adattarsi a uno schema logico prestabilito, scarta tutti gli elementi che non si adattano e poi afferma che tali eventi, e quindi tutta la storia, possono essere spiegati solo da questa logica.
Proprio come i “dettagli” storici impallidiscono di fronte all’accusa di genocidio portata contro Israele, anche le questioni politiche diventano secondarie. Tentare di storicizzare o politicizzare il processo che ha portato alla Nakba, al 7 ottobre o, come Sanders, alla “vergognosa” guerra che ne è seguita, significa restare irrimediabilmente bloccati al livello della “sovrastruttura” superficiale piuttosto che alla “base” oggettiva. Da una prospettiva colonialista qualunque siano le intenzioni soggettive dichiarate, le convinzioni politiche o le azioni concrete di un dato colono sionista, il loro significato oggettivo non può che essere l’eliminazione. Al contrario, per quanto esplicitamente Hamas possa proclamare la sua intenzione di cancellare la presenza ebraica in Medio Oriente, in quanto rappresentante di una sovranità “indigena” presumibilmente eterna, viene percepita come se stesse portando avanti azioni di restaurazione legittima. In questo contesto non sorprende la rapidità con cui Israele è stato condannato e Hamas assolto da ogni intento genocida dopo gli eventi del 7 ottobre. In quanto Stato coloniale, Israele è sempre/già genocida, il che significa che nessuna risposta agli eventi del 7 ottobre potrebbe in definitiva sfuggire alla logica dell’eliminazione.
La Weltanschauung coloniale getta un velo di destoricizzazione e depoliticizzazione sul conflitto, rendendo impossibile percepire l’attuale catastrofe come qualcosa di diverso dall’inevitabile espressione di una logica irresistibile, piuttosto che come il risultato contingente di una serie di incontri storici, lotte politiche e scelte morali.
È questo il peso che il concetto di genocidio acquista nel dibattito contemporaneo. Esigere l’accettazione di questo termine, insistere sul fatto che nessun altro mezzo è accettabile per opporsi alla guerra, equivale ad abbandonare il terreno aperto della storia e della politica in favore di uno spazio rigorosamente delimitato, quello di un significato essenzializzato e di una logica inesorabile. Esigere che Israele sia ritenuto responsabile non per le sue azioni, per i suoi leader o per la traiettoria politica che ha portato al potere un’estrema destra disinibita, ma per la sua stessa essenza, per la sua stessa esistenza. Ontologicamente, non c’è nulla che un israeliano possa fare per purificarsi dal peccato originale della colonizzazione, e nulla che un palestinese possa fare per mettere in dubbio la rettitudine delle proprie azioni. L’assolutismo di questa posizione, ironicamente, non riflette altro che quello dell’estrema destra sionista, per la quale nessuna azione israeliana è ingiustificabile e nessuna rivendicazione palestinese merita considerazione.
Riconoscere che si tratta di un “genocidio” non equivale quindi a valutare questo o quell’elemento empirico riguardante la condotta della guerra da parte di Israele. Questa non è, infatti, un’affermazione che può essere provata o confutata dalle prove: che la Corte internazionale di giustizia dichiari o meno Israele colpevole di genocidio è irrilevante in questo caso, come dimostra la diffusa interpretazione errata del significato giuridico del termine “plausibile” nell’ordinanza della Corte internazionale di giustizia del gennaio 2024[16]. In effetti, la definizione legale di “genocidio”, con la sua obsoleta enfasi sull’“intento”, è sempre più criticata come un ostacolo insidioso che blocca la nozione più flessibile – e politicamente più accettabile – di “genocidio strutturale”[17]. Al contrario, oggi l’invocazione della parola “genocidio” è diventata un incantesimo rituale, che segnala un’adesione incondizionata al campo concettuale “colonizzari-indigeni-genocidio”, dove ogni elemento presuppone e implica il successivo, il tutto risultando impermeabile a qualsiasi critica o messa in discussione. Una volta adottata, la Weltanschauung coloniale getta un velo di destoricizzazione e depoliticizzazione sul conflitto, rendendo impossibile percepire l’attuale catastrofe come qualcosa di diverso dall’inevitabile espressione di una logica irresistibile, piuttosto che come il risultato contingente di una serie di incontri storici, lotte politiche e scelte morali. Tuttavia, è solo riconoscendo questa contingenza storica – e con essa la possibilità che le cose sarebbero potute andare diversamente e potrebbero ancora cambiare – che diventa possibile attribuire responsabilità politiche e morali e, come Bernie Sanders, cercare di trovare una via d’uscita.

Nel settembre 2024, Susan Watkins, storica direttrice della rivista ferocemente antisionista New Left Review (NLR), fu duramente criticata dai suoi lettori per aver messo in dubbio l’insistenza del movimento contro la guerra sul termine “genocidio”.
Watkins aveva ammesso che all’interno dell’NLR esisteva un “persistente disaccordo” circa “l’accuratezza analitica” del termine “genocidio” per descrivere le azioni di Israele[18]. Aveva suggerito che il termine “genocidio” fosse stato scelto dal movimento non per la sua “accuratezza”, ma per rendere il suo messaggio “il più emotivamente potente possibile” e quindi “radunare quante più persone possibile”. Pur riconoscendo l’efficacia di questa strategia, Watkins ha sostenuto che “scegliere termini in base alla loro natura allarmistica è una cattiva strategia politica”. Watkins ha giustamente osservato che l’uso del termine “genocidio” è, nella maggior parte dei casi, motivato dall’emozione e dall’identificazione di gruppo piuttosto che da un’analisi lucida. Ma sarebbe necessario andare oltre questa conclusione, perché considerare il conflitto israelo-palestinese esclusivamente attraverso la rigida formula “colonizzatori-indigeni-genocidio” non è semplicemente “cattiva politica”: è il rifiuto di qualsiasi approccio veramente politico.
La logica totalizzante del modello colonialista non lascia spazio alla risoluzione dei conflitti, al riconoscimento reciproco di interessi comuni o alla creazione di nuovi modi di vita collettiva che siano alla base dell’azione politica. Abbandona quindi la politica come potenziale fonte – forse l’unica – di cambiamento concreto e le sostituisce un fatalismo abietto mascherato da radicalismo intransigente. Nella misura in cui tale antipolitica fatalistica può trovare espressione esteriore, essa è limitata ad atti terroristici isolati in cui l’estasi momentanea della pura violenza ha la precedenza sulla strategia politica, sulla critica sociale o sulle considerazioni etiche. Non ha più interesse a contribuire alla “soluzione a lungo termine” di Sanders di quanto non abbia interesse a riconoscere la base storica comune delle identità israeliana e palestinese, ammettendo che ciascuna “parte” si è storicamente sviluppata attraverso l’altra, anziché contro di essa. La minaccia che questo abbandono della politica e della storia rappresenta per gli israeliani e per qualsiasi ebreo che si rifiuti di ridurre la critica all’azione israeliana a una critica all’esistenza di Israele non deve essere sottovalutata. Lo testimoniano gli omicidi di Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim nelle strade di Washington e la celebrazione di coloro per i quali l’unica sorte che un “colonizzatore” merita è l’eliminazione fisica (piuttosto che concettuale). Ma se l’impasse dell’assolutismo antipolitico rimane l’unico linguaggio che i palestinesi sono autorizzati a usare per comprendere il loro passato e immaginare il loro futuro, saranno loro, ancora una volta, a pagarne il prezzo.
Matthew Bolton
Notes
1 | https://x.com/AyoCaesar/status/1759623139091243242 |
2 | https://x.com/ASE/status/1758488156792385705 |
3 | Philip Spencer, “The Holocaust, Genocide and October 7”, in David Hirsh & Rosa Freedman, (éd.) Responses to 7 October: Law and Society (Routledge, 2024) 10. |
4 | Pankaj Mishra, “The Shoah after Gaza,” London Review of Books, 46:6 (2024) |
5 | Il movimento “Anti-Deutsch” (o “anti-tedesco”) è un movimento radicale della sinistra tedesca emerso dopo la riunificazione della Germania. Si distingue per il suo antifascismo virulento, il suo antinazionalismo radicale e, in particolare, per il suo sostegno incondizionato allo Stato di Israele, che considera l’unico garante della sicurezza del popolo ebraico dopo la Shoah. |
6 | Etan Nechin, “The Israeli Lawyer Filing a Landmark Incitement to Genocide Case Against Israel at the ICC”, Haaretz, 24 janvier 2025. |
7 | Adam Kirsch, “On Settler Colonialism: Ideology, Violence and Justice” (W. W. Norton, 2024). |
8 | Patrick Wolfe, “Settler colonialism and the elimination of the native,” Journal of Genocide Research, 8:4 (2006): 387-409 (388) |
9 | Lorenzo Veracini, “Settler Colonialism: A Theoretical Overview” (Palgrave Macmillan, 2010), 45. |
10 | È del tutto concepibile che la fretta con cui il paradigma colonialista è stato applicato a Israele fosse dovuta proprio all’opportunità che offriva di invertire la rotta sulla Shoah. |
11 | Benjamin Wexler, ‘The Eternal Settler’, K. Review, June 2024 |
12 | Patrick Wolfe, “Purchase by Other Means: The Palestine Nakba and Zionism’s Conquest of Economics,” Settler Colonial Studies, 2:1 (2012): 133-171. |
13 | Lorenzo Veracini, “The Other Shift: Settler Colonialism, Israel, and the Occupation,” Journal of Palestine Studies, 42.2 (2013): 26-42. |
14 | Wolfe, “Purchase”, op. cit., p. 36. |
15 | Wolfe, Purchase, op. cit., p. 160. |
16 | Tony Dowson, “Israel, the ICJ and the plausibility of genocide”, The Critic, 6 novembre 2024. |
17 | Mark LeVine et Eric Cheyfitz, “Israel, Palestine, and the Poetics of Genocide Revisited,” Journal of Genocide Research (prépublication en ligne, 2025) |
18 | Entretien avec Arielle Angel, “Leaving Zion”, New Left Review, 148 (juillet/août 2024). |