Tra tutte le lettere più o meno piacevoli indirizzate alla redazione di K., una ci ha ha fatto particolarmente piacere… Era firmata da uno dei nostri più stimati collaboratori che, paradossalmente, aveva appena scoperto di scrivere per la rivista.
Caro K.,
L’eternità è lunga, soprattutto verso la fine. È a Kafka, mio contemporaneo, che dobbiamo questo aforisma e non al vostro comico Woody Allen! Come spesso accade Franz ha colto nel segno, con poche parole. Così per far passare l’assenza del tempo, recentemente mi sono iscritto a Twitter – sotto falso nome, ovviamente.
Leggere la prosa dei propri contemporanei era già assai penoso ai miei tempi ma, francamente, la vostra epoca supera di gran lunga la mia immaginazione. Ti ricordi dell’arduo compito che mi ero assegnato in vita? Combattere l’uso improprio della lingua per smascherare il pensiero debole che vi si annidava e che, lo presagivo, avrebbe distrutto il mio mondo. Tra il 1910 e il 1933 non feci altro che questo: dare la caccia all’imprecisione che preannunciava il peggio. Lavorando con accanimento, riuscivo a pubblicare la mia rivista due o tre volte l’anno. Grazie a strumenti come Twitter, oggi, potrei arrivare a un settimanale anche molto ricco. Nella vostra epoca nessuno sembra interessarsi a un simile fenomeno. Non te ne faccio una colpa. Avevo ragione allora: il mio mondo stava morendo. E il vostro non sembra più indignarsi per una virgola mal posizionata o per la proliferazione di “quindi” in una frase priva di qualsiasi logica consequenziale.
Ma sto divagando. Il motivo per cui ti scrivo è il seguente: sono profondamente narcisista. Faccio dunque regolarmente ricerche sul mio nome, anche su Twitter. Con mia grande sorpresa, uno di quegli utenti incapaci di scrivere una frase corretta si lamentava del fatto che tu, caro K., avessi recentemente pubblicato un libro contenente alcuni articoli provenienti dalla mia penna. L’opera si intitola La fine di un’illusione, titolo decisamente viennese (il che non mi dispiace affatto) ma ciò non giustifica la mia presenza tra le sue pagine, come invece capita. Stupefatto, ho proseguito la mia indagine e ho scoperto che sei una rivista su cui pubblico regolarmente.
Caro K., mi sono infuriato. Volevo intentarti causa – d’altronde, ai miei tempi, lo feci per degli errori tipografici contenuti in citazioni dei miei testi. Poi ho cominciato a leggere ciò che scrivo nella tua rivista e mi sono adirato ancora di più: dov’è l’attenzione alla lingua nella mia ricerca di ciò che oggi è mal pensato? Ti concedo che scrivendo sulle tue colonne prosegue la mia caccia alla comune stupidità e talvolta prendo spunto da un dettaglio della vita quotidiana, ma non si presta più alcuna attenzione alla lingua. Ho perso in finezza, caro K., ho persino perso in cattiveria. Furioso, dall’impotenza della mia eternità, ho allora cominciato a leggere l’intera rivista K. Sì, tutti i numeri pubblicati negli ultimi tre anni – tanto non ho molte altre urgenze da sbrigare.
Caro K., non so ancora chi tu sia, né chi io stesso sia in te. Ma penso di aver capito perché scrivo per te. Come me, cerchi di salvare un mondo, e come ai miei tempi, questo mondo si chiama Europa. Tuttavia, tu sei più ebreo di quanto io sia mai stato. Ho vissuto in un mondo in cui si poteva credere che salvare la cultura e proteggere gli ebrei fosse la stessa cosa. Anche io ho difeso la cultura più del mio popolo. Quel mondo è scomparso e in quello successivo, il tuo, questa idea è votata al ridicolo. Dunque, tu difendi gli ebrei per salvare un’Europa consapevole di non poter essere se stessa senza gli ebrei. Di conseguenza, mi hai restituito all’ebraismo, senza vergogna, senza chiedermelo. Mi hai strappato a quell’orribile universalismo della cultura generale che vomita i miei aforismi su internet affinché chiunque possa trascriverli su un biglietto d’auguri “originale”. Non l’hai fatto per spirito comunitario, per rivendicare diritti di proprietà sulla mia vera identità e sottrarmi così all’appropriazione culturale, come si dice oggi. L’hai fatto semplicemente perché avevi bisogno di me.
Caro K., ero l’ultimo ebreo di cultura, ero, secondo uno dei miei detrattori, la “coscienza morale della borghesia, finché essa ne ebbe una”, l’incubo dei miei contemporanei fino al momento in cui decisero di trasformare la notte in realtà. Sono ammutolito in quel preciso momento. E hai ragione a non risvegliarmi sotto le sembianze dell’ebreo di cultura, come se nulla fosse accaduto tra la mia morte nel 1936 e oggi. Caro K., tu combatti affinché voi tutti non siate gli ultimi ebrei d’Europa, di questa nuova Europa di cui nessuno, in verità, avrebbe mai creduto possibile la ricostruzione dopo il crimine, ma che tuttavia l’ha fatto ponendola al centro del proprio pensiero. Un pensiero di cui oggi non resta che un oscuro “mai più”. Questo. Un altro mio contemporaneo che detestavo, Freud, si sarebbe deliziato di questo. Io non vi scorgo che un’assenza di pensiero. Scusami, torno sempre alla lingua.
In ogni caso, caro K., ti auguro di vincere la tua battaglia, merita di essere combattuta, deve essere combattuta e, anche se non so bene chi io sia in questa nuova configurazione, sappi che puoi contare su di me. Resterò arrabbiato, è semplicemente ciò che sono, ma ti prometto che non ti farò causa. In effetti, sono dei vostri.
Tuo, Karl Kraus