“Come confrontarsi con la sofferenza palestinese…”

In Des sadiques au cœur pur. Sur l’antisionisme contemporain (Éditions Hermann, 2025), il filosofo Gérard Bensussan analizza le trasformazioni ideologiche dell’antisionismo contemporaneo. In questo estratto, si sviluppa – all’ombra del 7 ottobre – una riflessione sulla sofferenza palestinese, tra responsabilità etica e lucidità politica.

 

 

Gérard Bensussan

 

Gérard Bensussan – filosofo e professore emerito presso l’Università di Strasburgo– ha molto lavorato sulla tradizione filosofica tedesca, in particolare su Schelling, Hegel, Marx, ma anche su Levinas, Franz Rosenzweig, il pensiero ebraico e la modernità politica. È anche traduttore dal tedesco: a lui dobbiamo diverse traduzioni di filosofi come Walter Benjamin ed Ernst Bloch. In Des sadiques au cœur pur. Sur l’antisionisme contemporain, appena uscito per i tipi delle Éditions Hermann, le parole d’apertura sono programmatiche: «Le pagine che seguono sono state scritte sulla scia dell’immenso sgomento provato dopo il 7 ottobre 2023, non solo di fronte all’entità del crimine, ma anche di fronte alla massa caotica di mezze verità, pseudogiudizi, menzogne ​​e ignoranza che lo hanno accompagnato. Nulla di nuovo, diranno alcuni. Ed è vero che queste continue distorsioni si inseriscono nel lungo periodo di crisi della verità nelle democrazie (…). La nostra questione, sionismo e antisionismo, dobbiamo quindi portarla su una scena pubblica oramai compromessa…». 

Ringraziamo l’autore e l’editore per averci concesso di tradurre e pubblicare parte del settimo capitolo, che inserisce la “questione palestinese” all’interno di una riflessione abitata dalla volontà di analizzare le forme dell’antisionismo contemporaneo.

 

*

Poiché mi sono posto l’obiettivo di chiarire i meccanismi del linguaggio antisionista, non ho parlato dei palestinesi. Non si tratta né di un’omissione, né di una svista, né di un silenzio deliberato. La sofferenza palestinese è troppo presente in questi sviluppi per essere esplicitamente repressa, se così posso dire, o ogni volta nuovamente evocata. È impossibile sfuggire a questo discorso che continua e all’ascolto della voce dolorosa che porta con sé. Questa sofferenza è come un punto cieco, come una macchia d’inchiostro in mezzo a una pagina, una macchia che impedisce di leggere con calma e fino in fondo. Ma di questa sofferenza palestinese non è facile determinare i contenuti tematici, i contorni, per ragioni politiche che inevitabilmente sovraccaricano questo intento. Se è impossibile non ragionare sulla sofferenza palestinese, è innanzitutto per ragioni etiche, per questa sofferenza stessa e solo in un secondo momento, se necessario, per ragioni politiche. Questa articolazione di motivazioni politiche e responsabilità etica è incerta e complessa. Ma bandisce subito il registro della “lotta metafisica” (Genet) tra due popoli, i vecchi popoli dell’origine e i giovani perseguitati. La politica nel “complicato Oriente”, così come l’accettazione del Volto palestinese, la giustizia e la moralità non passano attraverso questa “metafisica” dei popoli, omicida e mendace. Non più di quanto lo siano, purtroppo, nel registro abramitico che rappresenterebbe l’appartenenza comune dei popoli israeliano e palestinese a una “origine” pacificamente condivisa. In questa molteplicità di argomenti si trovano elementi narrativi di disagio (la metafisica dei popoli) o di conforto (Abramo padre per tutti), raccontati lontano dalla battaglia, lontano dalla guerra, lontano dalle prove. Prendere in considerazione la sofferenza, anche se “antecedente”, non può fare a meno di portare ancora e sempre la questione “israelo-palestinese” sul terreno della sua efficacia storica, politica e della ricerca di una possibile convivenza tra due popoli in guerra. Lo sforzo di separare le parti coinvolte nel loro corpo a corpo volge all’invenzione di un oggetto transazionale “israeliano-palestinese” sullo stesso “terreno” di questa lotta. Si tratta a tutti gli effetti di una terra, una sola, per due aspirazioni ugualmente legittime, nonostante gli scontri e lo shock che le distrugge. Questa guerra centenaria, e più, si svolge in uno scenario di reciproca chiusura, sordità e necessità di sopravvivenza.

Come possiamo affrontare la sofferenza palestinese, cosa necessaria, senza ricordare il necessario riconoscimento fattuale delle aspirazioni, delle richieste e della legittimità? E come non includere questa sofferenza nel movimento verso questo riconoscimento? Il contrario reale della guerra, scrisse Amos Oz pensando proprio al lungo confronto tra israeliani e palestinesi, non è l’amore, ma il compromesso: la pace, non l’amore, diceva lo scrittore. La ricerca di una pace di compromesso richiede di affrontare il lato politico della tragedia. Ma la tragedia non ha alcun risvolto politico, altrimenti non sarebbe tragica. Una montagna (di problemi) senza una valle (di rifugi) è da lungo tempo l’immagine improbabile di un compromesso israelo-palestinese, una sorta di rappresentazione senza oggetto che continua a perpetuarsi attraverso le sue varie forme. Quel che resta però non trattabile è la sofferenza, prima ancora della ricerca da parte della politica di un attutimento della tragedia, resta la sofferenza innegabile, cruda, come un blocco compatto di dolore, di lividi e di colpi.

Davanti a una madre palestinese il cui figlio è stato ucciso siamo tutti colpevoli. La difficoltà, nel trattare in maniera politica questioni e conflitti, è che questo “senso di colpa davanti a una madre” è indifferente alla storia e alla politica.

È un tormento che assale. Ma allo stesso tempo, nella sua stessa realtà, si scontra con la sofferenza delle vittime del 7 ottobre, le une di fronte alle altre, ancora una volta. Sono sofferenze che si sommano, ma allo stesso tempo si sottraggono a vicenda. Per un ebreo la sofferenza palestinese pone immediatamente l’acuto e massiccio primato della considerazione etica. Come affrontare una guerra condotta dalle vittime del 7 ottobre contro i loro massacratori? Così israeliani ed ebrei hanno percepito gli autori dei massacri, nella lunga tradizione della memoria dei pogrom. In questo senso, il sionismo è la “palingenesi dell’ebraismo”, come scriveva Primo Levi che nel 1986 temeva che la creazione dello Stato di Israele avrebbe portato a un’ulteriore “rinnovamento dell’odio”, perché “molti nuovi tiranni conservano nei cassetti il ​​Mein Kampf di Adolf Hitler, con qualche correzione o sostituendo i nomi, alla bisogna».

Cosa fare delle vittime delle vittime, come guardarle in faccia? Il tormento etico e l’inquietudine che suscita e che non finisce non pregiudicano la correttezza politica di un’azione, né la sua efficacia, né la natura dell’atto omicida e la legittimità di una risposta. In realtà, le due cose non vanno di pari passo, i loro tempi non obbediscono ad alcuna sincronicità, le non-condizioni offuscano le condizioni, i vuoti e gli abissi sono invalicabili. La preoccupazione per le sofferenze di Gaza o del Libano è distinta sia dal giudizio politico e dagli standard che essa chiama sia, e a maggior ragione, dal ragionamento storico. Ancora una volta: che fare delle vittime provocate da altre vittime, come rispondere alle loro aspettative, quali azioni concrete ci chiedono perché non vengano dimenticate le vittime? Come i terzi che nella scena levinasiana circondano in maniera spettrale il duo etico formata dal Volto e dal Sé che esso soggioga, essi si voltano, gridano giustizia e sbattono il loro urlo in faccia alle vittime, agli ostaggi e agli assassinati. Impongono il loro clamore al dolore dei martirizzati. Questo grido può ancora risuonare oltre il ricordo della crudeltà? La responsabilità etica, il non tapparsi le orecchie e il non distogliere lo sguardo, possono avvicinarsi in maniera anche solo marginale all’impossibilità politica di assolvere concretamente il crimine? “La sofferenza [degli oppressori] non è sufficiente per annoverarli tra le vittime… gli errori e le mancanze dei prigionieri non sono sufficienti per metterli sullo stesso piano delle loro guardie.” La risposta immediata è già mediata dalla separazione dei registri. È già parte politica.

La ricerca di una pace di compromesso richiede di affrontare il lato politico della tragedia. Ma la tragedia non ha alcun risvolto politico, altrimenti non sarebbe tragica.

La politica e la guerra non sono capaci di farsi carico dell’accoglienza etica delle vittime, dell’ascolto, al di là e al di sotto delle prescrizioni di legge. Questo distacco di fatto aumenta il dolore.

La questione etica, lancinante – e le vittime delle vittime? – viene imposta senza considerare il contesto, le circostanze o i calcoli metaetici. L’obiezione di Caino tiene testa a una simile idea: “Sono forse io il custode di mio fratello?” La sfida di Caino vorrebbe mettere a tacere immediatamente l’idea, in effetti insopportabile, della colpa degli innocenti quando entrano “nella guerra giusta combattuta contro la guerra”, come dice Lévinas, riprendendo un vecchio slogan bolscevico e spartachista. In una lezione talmudica, “Le città rifugio”, questi luoghi di esilio e protezione per gli assassini involontari che le vittime, per desiderio di vendetta, espongono all’oltraggio, Lévinas evoca anche questa innocenza dimentica delle proprie responsabilità, cioè questa colpevolezza degli innocenti che rimangono in pace con se stessi nell’oblio della colpa e scordando di vergognarsi. L’umano, lo sforzo umano, consisterebbe nell’avere memoria di questa colpa più antica di ogni innocenza, nell’accettare di sacrificare ogni candore morale per vivere umanamente tra gli umani. La città rifugio, questo “urbanesimo umanitario” (Lévinas), è concepita come un’istituzione giusta – un ossimoro in competizione con la rivolta ingiusta, attraverso la quale la fraternità è preservata anche se il crimine non è mai annullato. Dove potrebbe essere istituita una città rifugio per la sofferenza palestinese? Per tenere conto di questa prospettiva, è già necessario che “la mano che afferra l’arma”, come scrive anche Lévinas, “soffra della violenza di questo gesto”, anche se giusto e giustificato, anche se legittimo. Questa sofferenza e questa ferita intima che dovrebbero accompagnare ogni atto di violenza non hanno nulla a che vedere con qualsivoglia masochismo. Sono un segnale d’allarme, un’allerta morale per il braccio armato dei combattenti di ogni “guerra giusta”: se è necessario imbracciare le armi, se è necessario andare in guerra, se è necessario uccidere, il dolore di doverlo fare deve rimanere acuto, altrimenti la sua “anestesia” rischia di trasformare la guerra giusta in una guerra “ai confini del fascismo”.

Le parole di Levinas risuonano nella natura incondizionata di un antico comandamento e nelle sue vicissitudini: “Amerai il tuo prossimo come te stesso…”. Il comandamento all’amore entra in tensione con il rifiuto di qualsiasi tutela del fratello, quando politica ed etica, giustizia totale e giustizia parziale, giustizia e legge, innocenza e colpa diventano sbilanciati. I commentatori talmudici, specificamente i saggi Ben-Azzai, Akiva e Tanhuma nella Parasha Kedoshim nel Levitico, sono attenti a queste tensioni. In particolare, si chiedono come interpretare il comandamento dell’amore del prossimo, con quali declinazioni intenderlo nei suoi potenti paradossi per meglio praticarlo: a) secondo la fratellanza universale, essendo tutti gli uomini discendenti da uno stesso padre e da una stessa madre; b). o secondo l’amor proprio, con cui comincia ogni “carità ben ordinata”; c) o addirittura secondo l’infinità di una trascendenza inscritta nella sembianza divina del volto. Tengo, tra diverse linee ermeneutiche, una particolare prescrizione avanzata da Akiva, puramente etica, metapolitica. Il comandamento, positivo (“tu amerai…”), verrebbe espresso negativamente nella forma di un divieto, divieto di disprezzare coloro che mi avranno disprezzato, di vendicarmi di coloro che mi avranno umiliato e di non far valere la propria sofferenza rispetto a quella degli altri, vicini o lontani – di non proclamare mai “il mio sangue è più rosso del tuo”. Akiva condanna quella che Camus, durante la guerra d’Algeria, definì “casuistica del sangue”. L’obbligo etico va ben oltre il punto di vista del diritto (diritto umanitario, diritto bellico, diritto internazionale), senza ovviamente mai annullarlo. La legge ebraica cerca di far valere questo eccesso al suo interno, basandosi sulla ricorrenza talmudica del trattato Bava Metzia, 30b: “Rabbi Yohanan disse che Gerusalemme fu distrutta solo perché i giudici giudicavano rigorosamente secondo la legge, non sapevano come andare oltre la legge (shelo danu lifnim michurat hadin)”. La catastrofe ha avuto luogo perché a Gerusalemme veniva applicata la legge, ma solo la legge! L’applicazione rigorosa della legge, senza altro orizzonte che non se stessa è ingiusta.

 La colpa di chi ha causato la morte, anche sotto costrizione, senza possibilità di evitarla, non sarà mai un’innocenza a mani piene.

Quale è lo spazio liberato da questo al di là della legge nelle interpretazioni del grande comandamento di amare il prossimo come se stessi, che si può leggere nei commenti dei tre saggi del Talmud? Anche se ciò significa unificare in maniera esagerata le voci opposte, mi pare che il punto di vista che domina lo scambio e la disputa sia quello di una responsabilità inalienabile, e perfino di una colpa incomprensibile di fronte all’altro. Ciò non dipende da ciò che può dire in merito la psicoanalisi, né da ciò che la legge stabilisce in merito alla colpa commessa. Si intende in senso extra-giuridico, secondo l’al di là della legge nella legge. Su questa colpa incessante e opprimente, come l’occhio che guarda noi, i Caini che tutti siamo, Vasilij Grossmann ha formulato una massima: “tutti gli uomini sono colpevoli di fronte a una madre che ha perso suo figlio”. E “Il mondo potrà anche giungere a una riconciliazione universale, ma non riscatterà le sofferenze ingiuste… non vale una sola lacrima di un solo bambino torturato”, dice Ivan Karamazov nel romanzo di Dostoevskij.

Questo senso di colpa sentito nel profondo di fronte a una madre orfana del figlio, a un bambino torturato, o alla “sofferenza ingiusta” e alla giusta violenza, è della stessa consistenza di quello di cui Camus non cessava di dire il “dolore”, nell’incertezza e nello sgomento che gli erano valsi tante critiche. È questo punto di vista, questa colpa senza legge che risuona nella legge, che impone ciò che invoco nella rielaborazione della sofferenza palestinese come un compito che impedisce di vedere chiaramente. Davanti a una madre palestinese il cui figlio è stato ucciso, siamo tutti colpevoli, e io lo sono più di chiunque altro. La difficoltà nel trattare in maniera politica di questioni e di conflitti è che questo “senso di colpa davanti a una madre” è indifferente alla storia e alla politica. Altrimenti sparirebbe. Universale senza concetto, ha lo stesso valore di fronte a una madre israeliana. Non è possibile rinunciare a questa “colpevolezza” etica più di quanto non lo sia rinunciare alla presa in carico di una storia o al riconoscimento della legittimità politica di una resistenza all’ingiustizia o all’autodifesa di una “guerra condotta contro la guerra”.

La sofferenza palestinese è innegabile. Non dobbiamo chiederle documenti, motivazioni, fonti, né interrogarla su ciò che viene fatto in suo nome.

Non esiste alcuna ragione politica per cui un popolo, quello palestinese, debba essere assoggettato a un altro popolo e non arrivare alla propria sovranità: nessuna. E tuttavia questa giusta posizione di principio non è omogenea con l’ingiunzione di una responsabilità etica irriducibile alla storia. Potrebbe addirittura portare a nuovi disastri. La sofferenza tragica risiede in questo scarto, in questa non coincidenza degli opposti. Come garantire che l’autonomia politica di una lotta e la sua stessa giustizia includano la cura del fratello, ed è possibile, o almeno che non se ne stacchino mai del tutto? È la politica, così come la tradizione della filosofia politica l’ha tematizzata a partire da Platone e Aristotele, l’autonomia, che si trova a essere messa in discussione. Perché dobbiamo riflettere attentamente sulla sua non-autonomia rispetto all’etica e metterla in discussione a partire da questa eteronomia. Per dirla con una sola domanda: come possiamo garantire che l’accesso all’emancipazione di sé non comporti la cancellazione dell’altro, come possiamo promuovere la creazione di uno Stato palestinese senza abolire l’altro Stato, dove gli ebrei sarebbero al sicuro? Non esiste una “giustizia totale”, è il promemoria costante che è al tempo stesso disperato e mobilitante. Una giustizia separata implica una separazione delle autonomie e delle sovranità, una separazione dei due Paesi, la “soluzione dei due Stati” come idea regolatrice. Come possiamo garantire che non si tratti di giustizia parziale, se ci costringe a vivere nella separazione? Lo sarebbe, ed è questo il suo rischio, se si liberasse definitivamente dall’esigenza metapolitica della “colpevolezza” etica, se la contraddizione tragica della guerra e della guerra alla guerra si concludesse nell’amnesia, nell’anestesia. La giustizia parziale si basa sul riconoscimento reciproco di non-totalità. La colpevolezza di chi ha causato la morte, anche sotto costrizione, senza possibilità di evitarla, non sarà mai un’innocenza a piene mani.

 

La gioia dal “cuore puro”, profonda, sincera, omicida e sadica, così come si è espressa spontaneamente in una parte della popolazione palestinese dopo i massacri e i sequestri del 7 ottobre, era indecente perché innocente. Questa innocenza fa dell’eccezione, il pogrom, la norma emancipatoria della “resistenza”, un nuovo paradigma decoloniale, un modello da promuovere: dare la caccia ai cacciatori e a tutto ciò che gli assomiglia, stanare gli intrusi, “sparare” agli altri, poiché si suppone che siano solo i supporti di un’astrazione ipostatizzata, la “colonia”. Se la città tradizionale non è altro che un campo per le sue vittime, se lo Stato di Israele mira solo al controllo programmato delle vite palestinesi, se è solo l’arcinemico dell’oppressione totale, dall’apartheid al genocidio, se è un blocco uniforme senza molteplicità individuali, senza vite singole o conflitti di vite, allora ci sono nuove ragioni per contestare la sua stessa esistenza e per invocare una nuova liquidazione, la de-creazione di Israele, come temeva Primo Levi nella sua analisi della palingenesi dell’ebraismo nel sionismo.

L’innocenza affermata nel crimine contrasta con le tematizzazioni talmudiche della colpa come ossessione etica. Il 7 ottobre, la colpa intima, tragica e lacerante, si è rovesciata davanti ai nostri occhi nell’innocenza degli assassini, esibita, rivendicata politicamente davanti alle madri rimaste orfane dei loro figli. Forse c’è una fonte nascosta dietro la simpatia globale che la causa palestinese suscita, indipendentemente dal suo preciso contenuto politico e storico, e la cui natura razzista è chiaramente evidente. Gli “arabi” sono ancora capaci di quella “innocenza” perduta in Europa dopo la Shoah. Gli europei invidiano loro questa innocenza da buoni selvaggi dell’antisemitismo e, ormai, non disperano più di poterla resuscitare a loro volta.

La gioia dal “cuore puro”, profonda, sincera, omicida e sadica, così come si è espressa spontaneamente in una parte della popolazione palestinese dopo i massacri e i sequestri del 7 ottobre, era indecente perché innocente.

La questione scottante di come conciliare etica e politica senza giungere a una sintesi impossibile, questa vecchia questione levinasiana, si manifesta nell’improbabile congiunzione di colpa e innocenza, di ignoranza e responsabilità, di colpevolezza senza colpa e di innocenza con omicidio.

In sostanza, non ho detto nulla della sofferenza palestinese di cui volevo parlare. Forse non posso fare altro che appoggiarla lì, proprio tra le domande, lasciando chi le pone senza parole e costringendolo a riconsiderare le sue certezze. Questa sofferenza è innegabile. Non dobbiamo chiederle documenti, motivazioni, né interrogarla su ciò che viene fatto in suo nome. Altrimenti, se lo facciamo, come è pure necessario, andiamo verso una spiegazione politica e storica, trascuriamo la compassione, ignoriamo l’etica, non ne ascoltiamo più il grido, rischiamo di dire a noi stessi che il sangue degli altri è meno rosso del nostro. Questa quieta insensibilità, o almeno la sua possibilità, abita il centro della politica, necessariamente indifferente alle differenze di tutti e di ciascuno, sempre alla ricerca dell’universalità e della reciprocità. Ma non esiste alcuna compensazione o perequazione in materia di “sangue” e nessuna “casuistica” di omicidi. “L’oppressore e la vittima non sono intercambiabili – scrive con fermezza Primo Levi – ma entrambi hanno bisogno di rifugio e protezione”, anche se “è l’oppressore e lui solo” a portare il peso di una “colpa insanabile”. Le sofferenze si accumulano, si moltiplicano e si moltiplicano nella memoria israeliana e palestinese. Eticamente, nessuno può fare a meno di affrontare la sofferenza degli altri, ascoltarne le voci, fornire assistenza nonostante la guerra e cercare di non cedere a sordità, cecità e silenzio. Ma come possiamo allora poi pensare agli effetti politici?

Nessuno può risparmiarsi di vedere la sofferenza degli altri in nome di un’analisi globale, fredda e oggettiva, né perdere la memoria delle cose in nome di una compassione calorosa. Responsabilità difficile per chi si trova di fronte a qualcuno che vorrebbe cancellarlo, riportandolo al suo precedente stato di paria.


Gérard Bensussan
Des sadiques au cœur pur. Sur l’antisionisme contemporain, appena pubblicato da éditions Hermann.

 

Filosofo, professore emerito all’Università di Strasburgo, Gérard Bensussan si è occupato di filosofia classica tedesca e di filosofia ebraica. Ha pubblicato una ventina di opere tra cui Le temps messianique. Temps historique et temps vécu (Vrin, 2001), Dans la forme du monde: Sur Franz Rosenzweig (Hermann, 2009) e L’Écriture de l’involontaire. Philosophie de Proust’(Classique Garnie, 2020). Il suo ultimo libro: La transaction. Penser autrement la démocratie PUF, 2023.

 

Da leggere, consigliati