L’Institute for Jewish Policy Research è un ente britannico la cui missione è studiare e sostenere la vita ebraica in Europa. In questa intervista, Jonathan Boyd, il suo direttore, discute le principali sfide che l’ebraismo europeo deve affrontare in un momento di cambiamento e riflette su come misurare e comprendere l’aumento dell’antisemitismo.

EP : Potrebbe illustrarci la storia dell’Institute for Jewish Policy Research (JPR), sia la sua eredità più ampia che gli sviluppi avvenuti da quando ne è diventato direttore?
JB : Il JPR ha una storia lunga e significativa. È stato fondato nel 1941 a New York dal Congresso ebraico mondiale come istituto di ricerca e think tank, inizialmente con un focus sulla comprensione dell’antisemitismo, in particolare nel contesto dell’Olocausto. Dopo la guerra, la sua attenzione si è spostata verso gli ebrei sovietici, uno dei motivi per cui il JPR si è trasferito a Londra all’inizio degli anni ’60, ben prima del mio arrivo. È degno di nota il fatto che il JPR sia stato tra le prime organizzazioni ad andare oltre la cortina di ferro per indagare sulle condizioni degli ebrei nell’Unione Sovietica.
Per molti anni ha pubblicato una rivista accademica dedicata agli ebrei sovietici e ha prodotto una serie di documenti di ricerca sull’argomento. Ha continuato a dedicarsi intensamente allo studio dell’antisemitismo, mantenendo una pubblicazione separata sull’argomento e conducendo ricerche a livello internazionale. Dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo, l’attenzione dell’Istituto si è gradualmente spostata nuovamente, questa volta verso la vita ebraica contemporanea in Europa e le sfide che le comunità ebraiche devono affrontare in tutto il continente.
Quando sono diventato direttore, nel 2010, ho deciso di mantenere l’enfasi del JPR sulla ricerca sociale e demografica, ma anche di riorientarlo leggermente, per essere in grado in grado di servire e sostenere più direttamente la vita della comunità ebraica. Oggi continuiamo a concentrarci sulla ricerca sociologica e demografica in tutta Europa, con l’obiettivo specifico di generare dati che possano informare la pianificazione e lo sviluppo della comunità. C’è un dibattito continuo su come bilanciare il nostro lavoro nel Regno Unito con la più ampia missione europea: nel corso del tempo, tale equilibrio si è gradualmente spostato verso una prospettiva più europea. Mi aspetto che questo cambiamento continui nei prossimi anni: JPR è ora un’organizzazione di ricerca con sede in Europa dedicata alla comprensione e al sostegno della vita comunitaria ebraica in tutto il continente.
La demografia come bussola
EP : “Quali sono le domande chiave cui mira a rispondere il vostro lavoro di ricerca?”
JB : Ci occupiamo di tutto ciò che riguarda gli ebrei, le comunità ebraiche o le organizzazioni ebraiche. Si parte dalla demografia: comprendere le tendenze demografiche di base è essenziale, poiché è qualcosa che modella tutto il resto. Quando si comprende la struttura demografica di una comunità, si acquisisce una visione della sua probabile traiettoria futura, delle sue attuali preoccupazioni e ansie e delle sue esigenze in evoluzione, sia in settori come l’istruzione, l’assistenza agli anziani o i servizi sociali. I dati demografici costituiscono anche la base per condurre indagini sociali affidabili. Una solida comprensione della composizione demografica di una comunità ci consente di valutare la qualità e la rappresentatività dei campioni delle indagini, il che a sua volta rafforza la validità dei nostri risultati.
Oltre alla demografia, ci occupiamo di una vasta gamma di questioni. Attualmente una parte significativa della nostra ricerca si concentra sull’antisemitismo e sugli atteggiamenti nei confronti di Israele. Ma trattiamo anche argomenti come l’istruzione ebraica, l’assistenza sociale, la salute fisica e mentale: abbiamo svolto un lavoro approfondito in questi settori durante la pandemia di COVID-19. Inoltre, esploriamo le relazioni tra Israele e la diaspora, l’identità ebraica e lo sviluppo della comunità. In definitiva, la direzione della nostra ricerca è determinata dalle preoccupazioni e dalle priorità espresse all’interno delle stesse comunità ebraiche.
EP : Come arrivate a definire la popolazione ebraica per la vostra ricerca e come costruite i vostri panel di studio?
JB : La popolazione oggetto dei nostri sondaggi è composta da chiunque si identifichi come ebreo. Questo è il criterio fondamentale. In genere, i nostri sondaggi si concentrano sugli adulti, solitamente di una età che può partire dai 16 o dai 18 anni, che vivono in una specifica area geografica, in diversi paesi europei.
Naturalmente, definire chi è ebreo può essere questione complessa e sorgono problemi di inclusione ed esclusione. Utilizziamo deliberatamente l’autoidentificazione come nostro standard: se qualcuno si considera ebreo, è idoneo a partecipare. Tuttavia, all’interno dei sondaggi, poniamo domande aggiuntive per comprendere meglio la natura dell’identità ebraica di ciascun intervistato. Ciò include l’affiliazione (confessionale), se sono nati ebrei o si sono convertiti, se hanno genitori ebrei, se sono sposati con qualcuno di religione ebraica o se si identificano solo attraverso il patrimonio culturale. Questo profilo più approfondito ci permette poi di costruire un quadro più sfumato di chi è effettivamente rappresentato nei nostri dati, al di là dell’autoidentificazione iniziale.
EP : Come valuteresti lo stato attuale della comprensione sia quantitativa che qualitativa della vita ebraica in Europa oggi?
JB : All’interno del nostro team, direi che la comprensione delle comunità ebraiche in Europa è alta. Tuttavia più in generale la conoscenza complessiva è piuttosto limitata, in particolare per quanto riguarda i dati demografici di alta qualità.
La disponibilità e la qualità dei dati variano in modo significativo da un paese all’altro, in gran parte a causa delle differenze nei sistemi di raccolta dati dei governi. Ad esempio il Regno Unito raccoglie informazioni sulla religione in modi che la Francia non utilizza, cosa che influisce sulla qualità delle informazioni demografiche. Alcune comunità, come quelle in Germania e Austria, sono molto centralizzate e dispongono di solidi sistemi di raccolta dati, il che consente una migliore comprensione delle loro popolazioni. Al contrario, paesi come Francia, Belgio e Spagna hanno sistemi molto più deboli per la raccolta informazioni. Questa variazione va oltre la disponibilità dei dati e riguarda anche il modo in cui le comunità utilizzano le informazioni disponibili per la pianificazione e il processo decisionale. Alcune sono proattive nell’applicare le informazioni basate sui dati, mentre altre lo sono meno, creando un panorama eterogeneo.
Molte comunità ebraiche in Europa hanno storie, lingue, culture e background distinti, quindi non esiste un’unica “norma ebraica europea”.
Nel clima attuale – in particolare dopo eventi come quelli del 7 ottobre – c’è una maggiore ansia e le emozioni all’interno delle comunità ebraiche sono più forti. Si crea così un paradosso: le persone sono desiderose di utilizzare i dati per capire cosa sta succedendo, ma a volte tendono a ignorare i dati che contraddicono convinzioni o sentimenti preesistenti.
EP : Potrebbe fare un esempio che illustri questo concetto?
JB : Un esempio chiaro è rappresentato dai dati sulla percezione e sull’esperienza personale in materia di antisemitismo, che variano in modo significativo da un paese all’altro. In generale, il livello di ansia tende a essere molto più elevato di quanto suggerirebbe il rischio effettivo. Questa disparità non è unica: è simile al modo in cui le persone spesso temono di volare nonostante il minimo rischio statistico di un incidente aereo. Il divario tra percezione e realtà nella valutazione dei rischi è notevole.
EP : Chi sono gli ebrei d’Europa? Quali ne sono le caratteristiche? Esiste una differenza notevole tra le comunità ebraiche dell’Europa orientale e occidentale?
JB : Quando ci riferiamo agli ebrei d’Europa oggi parliamo di una popolazione totale di circa 1,3 milioni di individui, in tutto il continente. Caratterizzare l’ebraismo europeo nel suo complesso è piuttosto difficile, proprio per la diversità delle sue comunità. Molte comunità ebraiche in Europa hanno storie, lingue, culture e background distinti, non esiste un’unica “norma ebraica europea”.
Ad esempio, la maggior parte delle comunità ebraiche in Europa è stata profondamente e direttamente colpita dalla Shoah. Tuttavia, la comunità ebraica britannica, nel complesso, non lo è stata, a parte i rifugiati e i sopravvissuti tedeschi che si sono stabiliti nel Regno Unito. Allo stesso modo, molti ebrei francesi provengono dal Nord Africa, il che determina un’esperienza comunitaria diversa. In Germania, molti ebrei sono discendenti di ebrei russi che sono emigrati lì e, nel corso del tempo, c’è stato un afflusso di israeliani che si sono trasferiti in varie parti d’Europa. Inoltre, in alcune località, come il Regno Unito, l’Austria e Anversa, ci sono comunità haredi in rapida crescita, che diversificano ulteriormente il panorama ebraico.

Anche la religiosità varia in modo significativo. Le comunità ebraiche dell’Europa orientale post-comunista, ad esempio, hanno subito sia l’Olocausto che decenni di regimi comunisti che spesso hanno soppresso l’identità ebraica, il che continua a influenzare le loro espressioni contemporanee di ebraicità. In sintesi, la popolazione ebraica in Europa è tutt’altro che omogenea; è plasmata da una vasta gamma di esperienze storiche e background culturali.
Da Durban al 7 ottobre: l’antisemitismo diventa una delle principali preoccupazioni
EP : Avendo ricoperto la carica di direttore per 15 anni, quali cambiamenti significativi e tendenze emergenti ha osservato all’interno della comunità ebraica europea durante il suo mandato?
JB : Negli ultimi 15 anni, la questione più significativa è stata l’antisemitismo. Negli anni ’90 l’antisemitismo esisteva, ma non era una preoccupazione importante. Tuttavia, all’inizio del XXI secolo, ha cominciato a intensificarsi. Eventi chiave, come la Conferenza delle Nazioni Unite di Durban e la Seconda Intifada, hanno influenzato la percezione globale di Israele, che a sua volta ha alimentato l’antisemitismo. In Francia, il caso Ilan Halimi ha segnato l’ascesa di un antisemitismo islamista particolarmente allarmante. Inoltre, dopo la presa di potere di Hamas a Gaza e i successivi conflitti, c’è stata una chiara correlazione tra l’escalation a Gaza e i picchi di antisemitismo in tutto il mondo, con l’Europa particolarmente colpita.
Forse l’aspetto più importante è che il ruolo dell’antisemitismo nella vita e nell’identità degli ebrei europei è cambiato radicalmente. Ora occupa un posto molto più centrale e urgente rispetto ai decenni precedenti.
EP : Nel suo studio European Jews: What, Why, and Who, lei sottolinea che la memoria della Shoah e la lotta contro l’antisemitismo sono più centrali per l’identità ebraica europea rispetto al sostegno a Israele o alla pratica religiosa. Perché pensa che sia così?
JB: Penso che questa dinamica sia tanto naturale quanto preoccupante. Da un lato, è del tutto naturale che qualsiasi comunità o individuo si chiuda in se stesso quando si sente minacciato dall’esterno. Tra gli ebrei, soprattutto dopo i recenti eventi come quelli del 7 ottobre, c’è un accresciuto senso di minaccia esterna. Ciò porta a un più forte desiderio di solidarietà interna e a un ridotto senso di sicurezza all’interno della società in generale. Questa reazione è una normale risposta umana al disagio o all’ostilità.
C’è sicuramente un livello più elevato di ansia e preoccupazione, una sensazione di essere circondati da un certo grado di critica o ostilità da parte di settori della società più ampia che può essere snervante o addirittura minacciosa.
D’altra parte, è preoccupante se l’identità ebraica viene definita principalmente dalla paura dell’esterno piuttosto che dagli elementi interni della vita ebraica, come le pratiche religiose, le credenze, i valori, gli insegnamenti e la cultura. In tal caso, l’identità ebraica rischia di sembrare vuota.
Naturalmente, ci sono variazioni significative all’interno della popolazione ebraica. Gli ebrei più religiosi e ortodossi hanno generalmente un senso più forte e intrinseco dell’identità ebraica. Ma per molti, la paura del mondo esterno non è solo una reazione naturale: può arrivare a dominare il loro senso di ebraicità, diventando quasi la ragione principale della loro identificazione come ebrei.
EP : Dopo il 7 ottobre, se non sbaglio, hai iniziato a usare il concetto di “antisemitismo ambientale”. In Francia, questo termine viene talvolta tradotto e discusso come “antisemitisme d’atmosphère”. Simili a termini come “jihadismo ambientale”, questi concetti potrebbero sembrare un po’ vaghi. Perché ha scelto di adottare questo concetto più astratto dopo aver condotto una ricerca rigorosa? E come si fa a misurare qualcosa di così intangibile come l’“antisemitismo ambientale”?
JB: Una critica che muovo all’attuale concezione dell’antisemitismo è che i dati primari spesso citati sono le segnalazioni di episodi antisemiti provenienti da organizzazioni come l’SPCJ in Francia o il CST in Gran Bretagna. Negli ultimi 10-15 anni, sempre più paesi hanno creato organismi comunitari o di polizia che raccolgono tali dati. Sebbene siano preziosi sotto molti aspetti, queste statistiche basate sugli episodi presentano limiti significativi.
In primo luogo, gli episodi devono essere segnalati e le persone devono sapere dove farlo. La maggior parte dei reati, compresi gli episodi di antisemitismo, non viene denunciata. Anche quando vengono segnalati, non sempre vengono segnalati a un’agenzia specializzata in antisemitismo, ma potrebbero invece essere condivisi con le risorse umane sul posto di lavoro o con un insegnante a scuola, quindi non vengono necessariamente inclusi nelle statistiche ufficiali. In secondo luogo, c’è soggettività nel decidere cosa conta come incidente antisemita. Diverse organizzazioni e individui applicano criteri diversi, il che influisce sulla coerenza dei dati. Inoltre, le organizzazioni conducono campagne per incoraggiare la segnalazione, e la consapevolezza delle procedure di segnalazione varia tra le comunità. Di conseguenza, i dati sugli incidenti forniscono un quadro piuttosto debole e incoerente della reale portata dell’antisemitismo.
Nei sondaggi condotti tra la popolazione ebraica, alla domanda se abbiano subito episodi di antisemitismo, in genere il 20-25 per cento risponde di sì e, dopo il 7 ottobre, tale percentuale è salita a circa il 30 per cento nel Regno Unito. Tuttavia, gli episodi registrati ufficialmente rappresentano solitamente solo l’1-2 per cento della popolazione, il che evidenzia un enorme divario tra l’esperienza vissuta e i dati segnalati. Tutto ciò suggerisce che non disponiamo di una misurazione accurata o di una comprensione completa della reale portata dell’antisemitismo.
EP : Questa questione evidenzia chiaramente le difficoltà strutturali nella stima dell’antisemitismo. Ma che dire dell’antisemitismo ambientale? Lo misurate e, se sì, come?
JB: Dopo il 7 ottobre, noi del JPR abbiamo compreso chiaramente una critica significativa all’antisemitismo: non si tratta solo di episodi. Molte persone hanno espresso – e noi stessi lo abbiamo percepito – che non è necessario essere fisicamente aggrediti, molestati o discriminati per sentire che qualcosa non va. C’è un’atmosfera, una sensazione nell’aria.
Ne sono un esempio i manifesti degli ostaggi israeliani strappati o i servizi dei media su Israele che sembrano fuori luogo, come se avessero un tono sinistro di fondo. Anche le grandi manifestazioni, anche quando incentrate su legittime preoccupazioni umanitarie per i palestinesi, possono contenere elementi che sembrano antisemiti o problematici. Dopo il 7 ottobre, si è diffusa la sensazione di un’atmosfera ostile, sgradevole e insicura che ha colpito profondamente gli ebrei.
Misurare questo fenomeno è difficile perché si tratta di una percezione, non di un evento concreto come un incidente. Il modo migliore per valutarlo è attraverso sondaggi che chiedono alle persone di raccontare le loro esperienze, le loro sensazioni e la frequenza con cui percepiscono questa atmosfera. Ad esempio, in un sondaggio condotto nel Regno Unito la scorsa estate, abbiamo chiesto ai partecipanti di confrontare i nove mesi prima e dopo il 7 ottobre, in relazione alla frequenza con cui hanno percepito questo senso di disagio nell’aria. Sebbene non sia un metodo perfettamente affidabile, ha mostrato un aumento significativo di questa percezione dopo il 7 ottobre.
Tra gli ebrei, soprattutto dopo i recenti eventi come quelli del 7 ottobre, c’è un accresciuto senso di minaccia esterna. Questo porta a un più forte desiderio di solidarietà interna e a un ridotto senso di sicurezza all’interno della società in generale.
L’antisemitismo ambientale ci dice qualcosa di importante sulla società nel suo complesso: come certe idee o motivi riguardanti gli ebrei o Israele stiano diventando diffusi e inquietanti. Rivela anche molto su come gli stessi ebrei percepiscono la loro situazione e le loro circostanze.

C’è sicuramente un livello più elevato di ansia e preoccupazione, una sensazione di essere circondati da un certo grado di critica o ostilità da parte di settori della società in generale che può essere snervante o addirittura minacciosa. In questo contesto, gli ebrei tendono a gravitare maggiormente verso gli amici e la comunità ebraica, allontanandosi in qualche modo dagli amici non ebrei e dalla società in generale. Osserviamo tutte queste tendenze. Tuttavia, è importante sottolineare che, almeno nel Regno Unito, non c’è una forte sensazione tra le persone di non poter continuare a vivere la propria vita ebraica.
EP : È esattamente quello che intendo dire. Con l’antisemitismo diffuso, gli ebrei possono essere preoccupati non solo per la loro sicurezza personale o per il fatto di essere bersaglio di atti antisemiti, ma anche per la più ampia “qualità dell’aria”, ovvero l’atmosfera creata dalla politica, dal mondo accademico e da altri spazi pubblici, che può essere soffocante, come un odore antisemita pervasivo. Pensa che questa sia la realtà per alcune comunità ebraiche in Europa oggi? Ci sono comunità che sentono di non poter più vivere, o aspettarsi di vivere, in sicurezza nei loro paesi? E alcune comunità sono più colpite di altre da questo “soffocamento”?
JB : La situazione varia notevolmente da paese a paese. Ad esempio, la comunità ebraica francese ha vissuto diversi episodi di antisemitismo islamista mortale, in particolare nel periodo 2014-2015, che hanno portato a un notevole aumento dell’ansia e dell’emigrazione. Al contrario, il Regno Unito non ha assistito ad attacchi letali mirati contro gli ebrei. Sebbene ci siano stati casi di terrorismo islamista nel Regno Unito, questi non sono stati diretti specificamente alla comunità ebraica. Nonostante le discussioni pubbliche sull’abbandono del Paese, i dati sull’immigrazione non mostrano alcun movimento significativo tra gli ebrei britannici.
Nel complesso, le forti reazioni misurabili delle comunità ebraiche dipendono in gran parte dalla gravità dell’antisemitismo che devono affrontare. Quando l’antisemitismo degenera in attacchi violenti che provocano morti, tende a provocare effettive partenze dalle zone colpite. Al contrario, quando l’antisemitismo è meno grave, genera più discussioni e preoccupazioni, ma pochi spostamenti migratori tangibili. Ad esempio, in paesi come la Gran Bretagna, la Germania e varie nazioni dell’Europa orientale, i livelli di migrazione sono relativamente stabili e moderati, mentre la Francia ha mostrato modelli più volatili, in particolare durante la metà degli anni 2010, durante la serie di attacchi omicidi contro obiettivi ebraici, come quelli di Tolosa e Parigi.
Israele, rifugio traballante, legame forte
EP : Il 7 ottobre ha influenzato la percezione degli ebrei europei secondo cui Israele è sempre un rifugio sicuro? Ha misurato un cambiamento nella percezione?
JB: No, non ho dati empirici sufficienti al riguardo. Tuttavia, la mia impressione è che le reazioni delle persone tendano a concentrarsi più sulle circostanze locali che sugli eventi all’estero. In paesi come la Francia, la Gran Bretagna e la Germania è diffusa la sensazione che questi paesi stiano diventando luoghi meno sicuri in cui vivere per gli ebrei. Tuttavia, questo sentimento non ha ancora raggiunto un livello tale da influenzare in modo drammatico il comportamento.
Dopo il 7 ottobre c’è stato un profondo shock iniziale, che ha profondamente sconvolto la comunità ebraica a livello globale. La convinzione di lunga data che Israele funga da rifugio sicuro per gli ebrei è stata fortemente messa in discussione dagli attacchi e dall’apparente vulnerabilità di Israele. Anche se non posso confermarlo empiricamente, ho la sensazione che l’erosione di questa “copertura di sicurezza” o rifugio sicuro abbia avuto un impatto significativo sul senso di sicurezza esistenziale di molti ebrei, forse in modi di cui prima non erano pienamente consapevoli.
La convinzione di lunga data che Israele sia un rifugio sicuro per gli ebrei è stata fortemente messa in discussione dagli attacchi e dall’apparente vulnerabilità di Israele.
Ho spesso notato che l’Europa è spesso definita, in particolare in Israele e negli Stati Uniti, come Auschwitz: il luogo dell’Olocausto. Israele era percepito come la risposta e la soluzione a quella tragedia. Tuttavia, ciò che è accaduto il 7 ottobre ha simbolicamente portato la realtà di Auschwitz nello stesso Israele. Questo ha infranto l’idea che si tratti di realtà separate e ha avuto un profondo impatto psicologico su molti.
EP : Un’altra differenza degna di nota è che quando in Europa si verificano atti omicidi contro gli ebrei, la condanna da parte dei partiti politici tende ad essere forte e unanime. Al contrario, dopo gli attacchi del 7 ottobre, il livello di condanna non è stato così diffuso o inequivocabile. Si è invece registrata una maggiore tendenza a fornire contesti o spiegazioni. Inoltre, mentre tali atti sono aumentati nel mondo occidentale, c’è anche la tendenza da parte di alcuni a distinguere tra ebrei e sionisti. In che misura le comunità ebraiche in Europa si identificano come sioniste e quanto si sentono legate a Israele?
JB : Anche in questo caso, la situazione varia da paese a paese. C’è una differenza significativa tra le comunità ebraiche dell’Europa occidentale e quelle dell’Europa orientale in termini di legame con Israele e di influenza di Israele sulla politica locale o nazionale. In generale, la maggior parte degli ebrei europei si identifica come sionista. La percentuale varia leggermente da paese a paese, ma in base a quanto mi risulta, è compresa tra i due terzi e i tre quarti in tutta Europa. Coloro che si identificano come antisionisti costituiscono una minoranza relativamente piccola, anche se a volte molto rumorosa, e alcuni dati suggeriscono che il loro numero sia in aumento dopo il 7 ottobre, in particolare tra i giovani.
Allo stesso tempo, è importante ricordare che circa il 45% di tutti gli ebrei nel mondo vive in Israele, quindi la maggior parte degli ebrei fuori da Israele conosce personalmente ebrei israeliani. Di conseguenza, i legami che gli ebrei europei hanno con gli israeliani non si basano solo sulla politica o sulla guerra, ma sono generalmente molto più profondi e personali. Israele non è considerato un paese straniero, ma piuttosto parte della comunità ebraica in senso lato.
EP: E per quanto riguarda i legami familiari?
JB: Non disponiamo di dati completi per tutta l’Europa, ma in Gran Bretagna oltre il 70% degli ebrei britannici ha un parente stretto o un amico intimo che vive in Israele. Ciò evidenzia un legame molto reale e personale tra le persone. Il mondo ebraico è generalmente molto interconnesso, con gradi di separazione molto ridotti tra gli individui a livello globale. Anche prima di incontrarci, probabilmente avevamo conoscenti in comune.
Il coinvolgimento con Israele, ma anche con tradizioni culturali e religiose come Yom Kippur, Chanukkah e Shabbat crea un linguaggio comune e un’identità condivisa. Questi legami culturali e religiosi rafforzano il legame con Israele. Inoltre, il sionismo ha una dimensione psicologica: rappresenta la sicurezza e, anche se Israele non è considerato “casa”, è percepito in qualche modo come una casa o un rifugio. Credo che per la maggior parte degli ebrei, certamente per quelli sionisti, Israele sia inteso in questo modo.

EP: Questa dimensione psicologica del sionismo influenzerebbe solo i suoi sostenitori?
JB : C’è anche una parte della comunità ebraica profondamente turbata da ciò che vede accadere in Israele e fortemente contraria; per molti di loro, il legame con Israele e, in una certa misura, con gli altri ebrei, è stato danneggiato dalla guerra a Gaza. Non si identificano con quel legame. Tuttavia, è interessante notare che, se si trovassero di fronte a una situazione in cui l’unica opzione fosse quella di lasciare il loro attuale Paese, è più che possibile che almeno alcuni di coloro che sono antisionisti potrebbero comunque scegliere di andare in Israele.
Per gli antisionisti più convinti, se la loro posizione nella società – ad esempio in Francia – diventasse così precaria da non avere altra scelta che andarsene, e immaginando una situazione simile a quella del 1930 in cui altri paesi potrebbero chiudergli le porte, penso che alla fine sarebbero grati all’esistenza di Israele come rifugio.
Un mosaico ebraico europeo in fase di ricostruzione
EP : All’inizio di K., c’era la preoccupazione che gli ebrei europei potessero gradualmente e silenziosamente scomparire, almeno culturalmente, o perdere il loro forte legame con l’identità ebraica ed europea. Pensa che questa sia una possibilità? Si tratta di una tendenza lenta e continua, o c’è qualcosa di resiliente e duraturo nell’essere sia ebrei che europei? Inoltre, sembra che ci sia una concentrazione della popolazione ebraica in un numero minore di città e paesi: ad esempio, ci sono meno ebrei che vivono in Italia rispetto a quelli che vivono nella periferia di Parigi. È d’accordo con questa osservazione?
JB : Le tendenze demografiche degli ebrei europei sono piuttosto chiare. Nel 1939 c’erano circa 11 milioni di ebrei in Europa, mentre nel 1945 erano circa 3,8 milioni. La Shoah ha causato un declino catastrofico. Da allora, la popolazione ha continuato a diminuire, attestandosi attualmente a circa 1,3 milioni. Questo declino è dovuto non solo agli effetti persistenti dell’Olocausto, ma anche a fattori quali l’aliyah, l’emigrazione, l’assimilazione, l’invecchiamento e il declino demografico naturale, con un numero di decessi superiore a quello delle nascite. Guardando a una prospettiva storica più ampia, 150 anni fa circa il 90% della popolazione ebraica mondiale viveva in Europa. Oggi quella cifra è inferiore al 10%, il che rappresenta un’inversione di tendenza completa.
Nel complesso, questi fattori indicano che l’ebraismo europeo si sta evolvendo. È probabile che col tempo diventi più religioso e più influenzato da Israele.
Tuttavia, il quadro è più complesso di un semplice declino. Ad esempio, le comunità haredi in Europa stanno crescendo, in particolare nel Regno Unito, dove ora costituiscono circa un quarto della popolazione ebraica, con circa 80.000 membri. Lì, la loro crescita ha effettivamente invertito il declino decennale della popolazione ebraica nel paese: gli ebrei haredi sono ora un gruppo abbastanza numeroso da compensare ampiamente il lento declino della popolazione ebraica tradizionale. Comunità haredi simili, ma più piccole, stanno crescendo in città come Anversa e Vienna. Inoltre, alcune popolazioni israeliane si sono trasferite in alcune comunità europee, alterandone la demografia. Ad esempio, nei Paesi Bassi, nonostante le tendenze secolarizzanti e un basso rapporto tra nascite e decessi che suggerisce un declino demografico, la comunità ebraica è stabile o in crescita, in gran parte grazie agli immigrati israeliani. Poiché alcune comunità ebraiche europee sono relativamente piccole, l’arrivo anche di pochi israeliani può cambiare in modo significativo le dinamiche della comunità.
L’afflusso di israeliani in Europa non è attualmente abbastanza significativo da causare un calo della popolazione ebraica in Israele, che continua a crescere. Nel complesso, questi fattori indicano che l’ebraismo europeo si sta evolvendo. È probabile che col tempo diventi più religioso e più influenzato da Israele. Queste tendenze sono più evidenti in paesi come il Regno Unito, ma meno in Francia, dove le dimensioni e le dinamiche della comunità sono diverse. In Gran Bretagna, molti ebrei potrebbero non rendersi pienamente conto della crescita della popolazione haredi perché queste comunità vivono spesso separate.
EP : Infine, per quanto riguarda gli israeliani in Europa, lei ha redatto un rapporto sul loro arrivo e sul ringiovanimento delle comunità ebraiche. Potrebbe spiegare cosa sta succedendo in termini di numeri, chi sono questi migranti israeliani e come si stanno integrando? Stanno formando comunità ebraico-israeliane distinte all’interno delle città o si stanno integrando completamente nelle comunità ebraiche locali esistenti?
JB: Prima di tutto, penso che l’altra faccia della medaglia riguardo alla situazione degli ebrei in Europa sia il contesto più ampio di ciò che sta accadendo all’Europa stessa. Affinché gli ebrei abbiano un senso significativo della loro identità europea, il concetto di “europeità” deve avere un significato. Tuttavia, credo che questo concetto sia piuttosto sfuggente e difficile da definire chiaramente. Sebbene istituzioni come l’Unione Europea e la Commissione Europea possano avere una forte comprensione di ciò che esso comporta, non sono sicuro che questo senso permei veramente le società europee nel loro complesso.
EP : Avremmo sicuramente bisogno di più “europeismo ambientale”!
JB : Tuttavia, non mi è chiaro se esista un’identità europea particolarmente forte o chiaramente definita. Inoltre, credo che l’identità nazionale stessa sia più debole rispetto a una o due generazioni fa, anche se forse ora la situazione sta cominciando a cambiare con la rinascita del nazionalismo che stiamo vedendo in molti paesi. Ma affinché qualsiasi minoranza si senta parte di un insieme più grande, tale identità più ampia deve essere espressa in modo significativo. Pertanto, non solo la popolazione ebraica europea sta diminuendo o evolvendo, ma anche i concetti di europeità e identità nazionale stanno cambiando. Queste dinamiche sono incerte e fluide. Prevedere il futuro di come gli ebrei europei vedranno se stessi e il loro posto nella società è quindi molto difficile. Questo ci riporta alla demografia, che rimane il predittore più affidabile che abbiamo per ciò che ci aspetta. Le attuali tendenze demografiche indicano che le comunità ebraiche consolidate in Europa sono generalmente in declino, mentre alcune popolazioni più piccole stanno crescendo e diventando più dominanti.
Per quanto riguarda gli israeliani che si trasferiscono in Europa, il quadro è spesso rappresentato in modo semplicistico come trasferimento di ebrei laici da Tel Aviv, ma la realtà è più complessa e varia da paese a paese. Ad esempio, in Francia, l’immigrazione israeliana è relativamente limitata e non fortemente percepita all’interno della più ampia comunità ebraica. Al contrario, nel Regno Unito, dove i numeri sono più consistenti, gli israeliani tendono a formare comunità in qualche modo separate, almeno inizialmente. Ma con il passare del tempo sorgono problemi reali riguardanti la scolarizzazione, il bar e il bat mitzvah e altre pratiche culturali. Molti genitori israeliani mandano quindi i propri figli nelle scuole ebraiche, il che porta a una graduale integrazione individuale.
I migranti israeliani tendono tipicamente, e naturalmente, a gravitare gli uni verso gli altri a causa della lingua, della storia e della cultura condivise. Alcuni si integrano completamente nella comunità ebraica locale; altri si assimilano nella società più ampia, tornano in Israele o si trasferiscono altrove. Non esiste un modello unico e uniforme. In alcuni paesi, la popolazione di origine israeliana costituisce una percentuale significativa della comunità ebraica e, in questi casi, può effettivamente diventare la comunità dominante o addirittura sostituirla. Ad esempio, in Finlandia, oltre la metà della popolazione ebraica è di origine israeliana, il che potrebbe ridefinire in modo significativo il carattere della comunità. Questi risultati dipendono in larga misura dalle proporzioni, dalle ragioni della migrazione e dalle circostanze individuali.
Nel complesso, la situazione rimane variegata e in evoluzione in tutta Europa. Trent’anni fa, le discussioni sugli ebrei europei si concentravano quasi esclusivamente sul declino, senza prevedere la crescita osservata nelle popolazioni haredi o israeliane. Siamo ancora all’inizio di questa storia in evoluzione. Oggi, vivendo nell’era post-7 ottobre tra sfide globali come la crisi climatica e cambiamenti tecnologici come l’intelligenza artificiale, è difficile prevedere come reagiranno gli ebrei, gli israeliani e gli haredi. Tuttavia, ci sono sviluppi interessanti che vale la pena osservare e monitorare da vicino.